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Scot Harvath non avrebbe dovuto essere lì. Alla CIA non era consentito svolgere operazioni all’interno degli Stati Uniti, specie del tipo che stava per condurre lui. D’altra parte, situazioni disperate richiedevano misure disperate.
Il Burning Man era un festival dell’eccesso lungo più di una settimana, che celebrava il solstizio d’estate sul letto di un lago preistorico a tre ore d’auto da Reno, nel Nevada. I partecipanti erano incoraggiati a indossare costumi stravaganti, che spaziavano dallo stile Mad Max a quello del carnevale di Rio, o a esibire «con buon gusto» la propria nudità.
In forma com’era, Scot avrebbe anche potuto fare a meno dei vestiti, ma non era nel suo stile. Né quella scelta si sarebbe accordata al suo compito.
Così Harvath, alto un metro e ottanta, i capelli color sabbia e gli occhi azzurri come il ghiaccio, aveva indossato un cappotto dell’esercito continentale e si era dipinto sulla faccia i colori di guerra dei cherokee, che coprivano i suoi bei lineamenti.
Il vento si alzò di nuovo. Inforcò un paio di occhiali steampunk e si avvolse una kefiah attorno al viso. La sottile polvere alcalina che copriva la playa turbinava nell’aria. La visibilità stava calando.
«Cinquanta metri» disse una voce incorporea dal dispositivo infilato nel suo orecchio sinistro. Harvath continuò a camminare scrutando a destra e a sinistra.
Il Burning Man si svolgeva in una «metropoli temporanea» costruita nel deserto e chiamata Black Rock City. Con oltre settantamila partecipanti, la densità abitativa di BRC era il doppio di quella di Londra.
Visto dall’alto, lo spazio del festival aveva la forma di una gigantesca C, o di due terzi di un cerchio. Sembrava una planimetria della Morte Nera cui mancasse una buona fetta.
La C aveva un diametro di due chilometri e mezzo, e a quattrocento metri dal suo centro c’era il vero e proprio Burning Man: una gigantesca sagoma antropomorfa che sarebbe stata data alle fiamme il sabato notte.
A Black Rock City non c’erano alloggi, solo ciò che la gente portava con sé, e poi riportava indietro. I Burners, com’erano chiamati i partecipanti, progettavano meticolosamente, con mesi di anticipo, campeggi e villaggi a tema. Soltanto i ricconi arrivavano il primo giorno, di solito in elicottero, per sistemarsi nei lussuosi padiglioni già allestiti per loro.
Discusso quanto gli alloggi degli ultraricchi, Kidsville era uno dei campeggi più grandi del Burning Man, riservato alle famiglie con figli; una scelta singolare per un festival dedicato a un pubblico adulto. Eppure, quell’anno, c’erano circa mille bambini.
Un esercito di volontari, affiancato dagli uomini della sicurezza e talvolta da poliziotti in borghese, controllava tutti i veicoli che entravano nell’area del festival. L’intenso traffico e l’atmosfera rilassata rendevano però impossibili accertamenti approfonditi. Il tutto serviva più che altro a dare un’apparenza di sicurezza.
La polizia locale e nazionale pattugliava l’area insieme ai Park Rangers del Bureau of Land Management, l’agenzia del dipartimento degli Interni deputata alla gestione dei terreni pubblici. Ma, a meno che non si facesse apertamente uso di droghe o non si spacciasse alcol a qualche minore, non era difficile tenerli alla larga: avevano già il loro bel daffare. Non c’era da stupirsi che il Burning Man avesse attirato l’attenzione dei terroristi.
«Adesso dovresti riuscire a vederlo» disse la voce nell’orecchio di Harvath.
Lui si fermò, portò alla bocca una bottiglia d’acqua e ne approfittò per guardarsi attorno.
Bandiere e lembi di tende schioccavano al vento. Scorse un bar improvvisato chiamato 7 Deadly Gins, un Camp Woo Woo, un altro posto denominato No Bikini Atoll, l’enclave Toxic Disco Clam e, poco più in là, il camper blu.
«Ora lo vedo» disse Harvath, gettando a terra la bottiglia.
«Ehi!» protestò una donna alle sue spalle, ma lui la ignorò e continuò ad avanzare. Aveva fatto troppa strada per lasciarsi sfuggire Hamza Rahim.
Alla polvere si mescolava il fumo proveniente da falò e bidoni. La musica pulsava da tutte le direzioni. Lontano dalla vista, i generatori diesel alimentavano con il loro sordo ruggito i giradischi, i sound system e gli imponenti light show. I danzatori, sulla playa, facevano roteare sfere fiammeggianti appese a lunghe catene. Sculture semoventi inondate di luce sputavano lingue di fuoco nella notte.
Harvath si aggirò lentamente attorno al campo dov’era parcheggiato il camper blu. Sembrava si fossero radunati tutti in una grande tenda, per far festa aspettando che cessasse la tempesta di polvere. Lasciò passare un gruppo di ciclisti coperti di led sincronizzati e si avvicinò al camper.
Dentro era buio. Cercò di sbirciare attraverso i finestrini, ma le tende erano abbassate e uno schermo antisole copriva il parabrezza.
Accostò l’orecchio alla porta: nulla. Se c’era qualcuno, era molto silenzioso.
Cercò di aprire, ma la serratura era chiusa.
Tirò fuori da sotto il cappotto un piccolo set di attrezzi da scasso, guardandosi attorno per controllare che nessuno lo vedesse. Pochi secondi dopo la porta era aperta, Harvath aveva avvitato il silenziatore alla canna della sua Sig Sauer ed era entrato nel camper.
Anche attraverso la kefiah, l’aria lì dentro era irrespirabile; c’era puzza di fumo stantio e di fogna, come se nel bagno non funzionasse lo sciacquone. Si tolse gli occhiali e i suoi occhi ci misero qualche secondo per adattarsi.
Sul tavolo c’erano piatti con resti di cibo. Altre stoviglie erano impilate nell’acquaio. Un sacchetto di plastica bianco, colmo di spazzatura, era appeso alla maniglia del cassetto. La tappezzeria era strappata, la moquette macchiata e un velo di polvere della playa ricopriva tutto. Hamza Rahim viveva come un animale.
Harvath scorse qualcosa sul pavimento e si chinò a raccoglierlo. Pezzi di filo elettrico. Il suo cuore accelerò.
Per quanto ne sapevano gli uomini della CIA, Rahim era stato mandato al Burning Man per una ricognizione, in vista dell’attacco. Il suo compito era raccogliere informazioni e trasmetterle lungo la catena di comando. Quello di Harvath era agguantare Rahim e spezzare la sua rete con ogni mezzo necessario. Quei fili elettrici, però, suggerivano che l’Agenzia potesse essere pericolosamente fuori strada. Sollevando la pistola, Harvath avanzò furtivo verso il retro del veicolo.
La prima cosa che ispezionò fu un piccolo ripostiglio pieno di cianfrusaglie. Più avanti c’erano dei letti a castello; entrambi erano stati occupati. Brutto segno. Rahim avrebbe dovuto essere solo.
Dopo i letti a castello trovò la stanza principale. Anche lì aveva dormito qualcuno.
Gli restava da ispezionare soltanto il bagno.
La porta era chiusa. Harvath prese posizione da un lato e allungò lentamente una mano per abbassare la maniglia. Bloccata.
Tese l’orecchio, ma riuscì a sentire solo le pulsazioni della musica all’esterno.
Si spostò davanti all’infisso, sollevò un piede e sferrò un calcio alla maniglia, sfondando la serratura.
I cardini erano all’esterno, quindi l’anta ruotava verso di lui.
Tolse una mano dalla pistola per afferrare il pomello, e la porta si aprì di scatto.
2
Un uomo dai tratti orientali l’aveva spalancata con un calcio, prima di lanciare verso Harvath il contenuto di un bicchiere di plastica.
Il cocktail altamente corrosivo di sgorgante per lavandini e candeggina mancò il bersaglio e schizzò sulla parete e sulle tendine alla sua sinistra.
Harvath rispose sbattendo la pistola contro il naso dell’uomo.
Il suo avversario si sentì mancare le ginocchia e cominciò ad accasciarsi; lui si precipitò alle sue spalle, gli cinse la gola con il braccio sinistro e chiese: «Dov’è Hamza Rahim?».
L’uomo, che doveva averlo visto sbirciare attraverso i finestrini o forse l’aveva sentito entrare, si dibatté.
Harvath lo colpì di nuovo con la pistola, questa volta alla tempia.
«Dov’è? Dov’è Rahim?»
L’aggressore continuò a resistere, così Harvath puntò la pistola contro il suo piede sinistro e premette il grilletto.
L’uomo urlò così forte che dovette tappargli la bocca, nel timore che le sue grida attirassero l’attenzione. «Dimmi dov’è Rahim, altrimenti ti sparo anche all’altro piede.»
Quello cercò di graffiarlo e Harvath notò che gli mancavano due dita della mano sinistra. I suoi peggiori timori furono confermati: era un costruttore di bombe.
Harvath avrebbe voluto chiedergli anche altro, ma aveva gli occhi, il naso e la gola in fiamme per i gas tossici sprigionati dal cocktail alla candeggina che l’uomo aveva preparato in bagno. Dovevano uscire in fretta dal camper.
Con il braccio sinistro stretto ancora attorno alla gola del terrorista, gli puntò il silenziatore contro la schiena e lo spinse verso l’uscita. Quando furono a metà strada, sulla porta apparve qualcuno.
La figura indossava una sorta di tonaca da monaco e una maschera cromata priva di lineamenti. Nel pugno stringeva una pistola, e cominciò a sparare prima che Harvath potesse reagire.
Scot usò come scudo il bombarolo, poi lasciò cadere il suo corpo senza vita e si mise al riparo. Le raffiche dell’uomo con la maschera metallica continuarono a spazzare l’interno del camper.
Harvath avrebbe voluto rispondere al fuoco, ma la nube tossica gli impediva di vedere. Non riusciva nemmeno a respirare.
Sparò a un finestrino posteriore, rimosse i vetri rotti con il calcio della pistola e si lanciò fuori, atterrando pesantemente sulla sabbia.
L’istinto gli suggerì di rotolare sotto il motore, ma sapeva che i vapori di cloro erano più pesanti dell’aria: se ci fosse stata una perdita le esalazioni avrebbero ristagnato sotto il veicolo. Doveva andarsene in fretta.
Prese di mira il cofano con la Sig Sauer silenziata, poi si allontanò carponi per nascondersi dietro un pickup posteggiato lì accanto, sperando che la tempesta di polvere celasse i suoi movimenti.
Al riparo, rindossò gli occhiali, si avvolse di nuovo la kefiah attorno al viso e cercò di riprendere fiato. Aveva i polmoni in fiamme. Non sapeva se fosse per la sabbia della playa e la fatica o per le esalazioni tossiche; sapeva soltanto che il petto gli faceva un male cane.
«Rahim non è solo» tossì nel microfono della radio. «Nel camper c’era qualcun altro.»
«Chi?» rispose la voce.
«Un esperto di esplosivi. Non sono qui per una ricognizione, ma per attaccare.»
«Cristo santo! Li hai presi?»
«L’addetto alle bombe è morto» disse Harvath, «ma Rahim è fuggito. Ha una tonaca marrone e una maschera cromata. Fate partire il drone!»
«Non supererà la tempesta.»
«Non mi interessa. Fatelo decollare. Subito.»
«Ricevuto» rispose la voce.
Harvath inserì un nuovo caricatore nella pistola e impartì un ultimo ordine prima di uscire da dietro il pickup. «Dite alla squadra di estrazione di dividersi. Dobbiamo trovare Rahim.»
«E quando l’avremo trovato?»
«Lo neutralizzeremo.»
Chiuse la comunicazione e cominciò a muoversi.
Mike Haney era un tipo in gamba. La CIA l’aveva ingaggiato da due anni, e prima di entrare nel distaccamento paramilitare segreto noto come Special Operations Group aveva fatto parte dei battaglioni di ricognizione del corpo dei Marines. Harvath sapeva di poter contare su di lui.
La squadra di estrazione era composta da altri quattro ex militari di grande esperienza: il Navy SEAL Tim Barton, l’operativo della Delta Force Tyler Staelin, Jack Gage dei Berretti Verdi e Matt Morrison, che come Haney aveva militato nei Force Recon.
Mentre Haney dirigeva tutto dal grande bus turistico che usavano come base operativa, la squadra di estrazione si trovava un paio di «isolati» più avanti, su una golf cart a sei posti pesantemente modificata.
Nonostante le strade di Black Rock City fossero riservate a pedoni e biciclette, erano riusciti a ottenere il permesso esibendo documenti in cui si «certificava» che uno dei membri della squadra era disabile.
Sotto una fila di sedili c’era un vano abbastanza grande da poterci nascondere Rahim per portarlo fuori. Sotto l’altra c’era uno scompartimento segreto dove avevano infilato le armi.
Lungo la strada avevano decorato il veicolo con colori spray, luci di Natale e tubi fluorescenti. Aveva un aspetto pietoso, ma a nessuno di loro importava. L’importante era che servisse al suo scopo.
Rahim non poteva essere lontano. Harvath svitò il silenziatore, infilò di nuovo la pistola sotto il cappotto e avanzò tra le tende.
Si fermò sotto un’installazione di telefoni pubblici con la scritta PARLATE CON DIO, descrisse il costume di Rahim alle persone che si trovavano lì e chiese se qualcuno avesse notato il suo «amico».
Una donna che indossava un casco da motociclista e poco altro indicò una strada a sinistra e disse che l’aveva visto allontanarsi da quella parte. Lui la ringraziò e si rimise in cammino.
Black Rock City era ancora avvolta da nuvole di polvere, ma la visibilità stava migliorando. Harvath trasmise la propria posizione...