Sharp Objects (versione italiana)
eBook - ePub

Sharp Objects (versione italiana)

  1. 350 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Sharp Objects (versione italiana)

Informazioni su questo libro

Otto anni dopo essere andata via da Wind Gap, la cittadina soffocante in cui è nata e cresciuta, Camille Preaker lascia Chicago per tornare in quel minuscolo avamposto cattolico del Missouri battista, luogo sperso nel nulla, dove la gente si illude di sapere come stare al mondo. È il giornale per cui lavora a spedirla laggiù, in seguito alla scomparsa della piccola Natalie Keene. Caso che somiglia a quello di un'altra bambina svanita nel nulla poco tempo prima, ricomparsa il giorno dopo nel letto di un torrente, strangolata. Aveva solo nove anni. Anche il cadavere di Natalie viene rinvenuto ben presto e la comunità di Wind Gap deve arrendersi all'evidenza: la mano che si è abbattuta con brutale meticolosità sulle due bambine è la stessa. A rivelarlo è un unico, macabro dettaglio.
Con caparbietà, Camille porta avanti la propria indagine sfidando le rigide norme sociali di una cittadina bigotta e pettegola, ma soprattutto è costretta ad affrontare la madre, una donna fredda e manipolatrice, ammirata dai vicini e temuta dentro casa, da cui era fuggita ancora ragazza. L'inchiesta si gonfia come un fiume in piena e Camille non è più in grado di tenere a freno i ricordi e il male che contengono.
Sofisticato thriller psicologico dal ritmo pulsante, il romanzo di Gillian Flynn indaga i risvolti oscuri delle relazioni tra sorelle, madri e figlie e mette in scena una figura femminile che attraversa l'inferno con occhi nuovi, sorprendente protagonista - così il Guardian - di "un viaggio indimenticabile, gelido e illuminante".

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2018
Print ISBN
9788817101769
eBook ISBN
9788858694053

1

Il mio maglione nuovo, di un rosso vivace, era davvero orrendo. Secondo il calendario era il 12 maggio, ma la temperatura era precipitata. Così, dopo quattro giorni passati a rabbrividire in maniche di camicia, avevo preferito ricorrere ai saldi, piuttosto che mettermi a rovistare negli scatoloni degli abiti invernali. Primavera a Chicago.
Seduta nel mio cubicolo, rimuginavo con lo sguardo fisso sullo schermo del computer. Il mio caso del giorno era un dramma da due soldi: quattro bambini fra i due e i sei anni trovati chiusi in una stanza nel South Side, con un paio di panini al tonno e un cartone di latte. Erano stati lasciati tre giorni a raspare come polli in mezzo ad avanzi di cibo ed escrementi. La madre era uscita in cerca di crack e si era semplicemente dimenticata di loro. A volte succede. Niente bruciature di sigarette, niente ossa rotte. Solo una lenta e inesorabile discesa nell’oblio. Avevo visto la donna dopo l’arresto: la ventiduenne Tammy Davis, bionda e grassa, con due pomelli rosei sulle guance, due fondi di bicchiere perfetti. Me la immaginavo seduta su un divano malandato, la bocca stretta intorno alla pipa, uno sbuffo di fumo acre. Presto tutto cominciava a ondeggiare mentre i bambini svanivano sullo sfondo e Tammy tornava con la mente ai tempi della scuola, quando i ragazzi la corteggiavano e lei era la più carina, una tredicenne con il lucidalabbra che si infilava in bocca un chewing-gum alla cannella prima di farsi baciare.
Una pancia prominente. Un odore inconfondibile di sigarette e caffè stantio. Il mio direttore responsabile, l’esimio, esausto Frank Curry, che si dondolava avanti e indietro sulle scarpe sportive ormai sformate. I denti a mollo nella saliva color tabacco.
«A che punto sei con quell’articolo, ragazzina?» C’era una puntina da disegno capovolta sulla mia scrivania. Lui se la fece scivolare delicatamente sotto l’unghia ingiallita del pollice.
«Ho quasi finito.» Avevo scritto dieci righe. Dovevo arrivare a due cartelle.
«Bene. Fai a pezzi quella donna, manda l’articolo in composizione e vieni nel mio ufficio.»
«D’accordo. Dieci minuti.» Rivolevo la mia puntina.
Lui si voltò e fece per uscire dal cubicolo, con la cravatta che ondeggiava sopra il cavallo dei pantaloni.
«Preaker?»
«Sì, Curry?»
«Falla a pezzi.»
Frank Curry pensa che io sia una che si lascia intenerire. Forse perché sono una donna. Forse perché sono una che si lascia intenerire.
L’ufficio di Curry è al terzo piano. Sono sicura che gli viene una crisi di nervi mista a panico ogni volta che guarda dalla finestra e vede il tronco di un albero. I direttori di successo non vedono i tronchi: vedono le foglie, sempre che riescano a scorgere la sagoma degli alberi dall’alto del ventesimo o trentesimo piano. Ma per il «Chicago Daily Post», quarto quotidiano di Chicago per importanza, relegato nei sobborghi, c’è spazio per espandersi in orizzontale. I tre piani dell’edificio, che passa quasi inosservato fra rivendite di tappeti e negozi di lampade, bastano e avanzano. Il nostro quartiere è il prodotto di uno zelante imprenditore edile che in soli tre anni, dal 1961 al 1964, ha edificato la zona, battezzandola poi con il nome della figlia, la quale un mese prima della fine dei lavori era stata vittima di un grave incidente a cavallo. Si sarebbe chiamato Aurora Springs, aveva deciso il costruttore, mettendosi in posa per una foto accanto al cartello nuovo di zecca. Poi aveva fatto armi e bagagli e se n’era andato con tutta la famiglia. La figlia, che ora è sulla cinquantina e gode di ottima salute a parte occasionali formicolii alle braccia, vive in Florida e viene qui di tanto in tanto per farsi fotografare accanto al cartello con il suo nome, proprio come aveva fatto il padre. Durante la sua ultima visita, avevo scritto un articolo sulla storia di Aurora Springs. Curry l’aveva trovato orribile. Lui odia quasi tutti i pezzi di vita vissuta. Si era scolato un’intera bottiglia di Chambord mentre lo leggeva ed era uscito dall’ufficio che puzzava di lampone. Curry si ubriaca in modo discreto, ma spesso. Non è per questo, comunque, che gode di una vista ai piani bassi. È per pura e semplice sfortuna.
Entrai e chiusi la porta dell’ufficio, che non era affatto come l’avrei desiderato: boiserie di quercia e una porta a vetri – con la targhetta DIRETTORE – dietro la quale i giovani cronisti potessero vederci discutere animatamente del Primo Emendamento. L’ufficio di Curry, invece, era insignificante e anonimo, come l’intero edificio, del resto. Che uno ci discutesse di giornalismo oppure si facesse fare un pap-test a nessuno importava.
«Parlami di Wind Gap» esordì Curry, picchiettandosi il mento con una biro. Mi sembrava già di intravedere piccoli puntini blu fra i peli ispidi della barba.
«Si trova all’estremità meridionale del Missouri, nel tacco dello stivale. A uno sputo dal Tennessee e dall’Arkansas» dissi, cercando di limitarmi ai fatti. Curry amava sondare i propri giornalisti su qualunque argomento: il numero di omicidi a Chicago l’anno precedente, le statistiche demografiche della contea di Cook o, per qualche misteriosa ragione, la storia della mia città natale, l’argomento che più di tutti avrei preferito evitare. «Risale a prima della Guerra civile» proseguii. «È vicina al Mississippi, perciò a un certo punto è stata anche un porto. Adesso è al primo posto nella macellazione dei suini. Ha circa duemila abitanti. Solida vecchia borghesia e gentaglia.»
«E tu a quale delle due categorie appartieni?»
«Alla gentaglia. Ma discendo dalla vecchia e solida borghesia.» Sorrisi.
Curry mi fissò accigliato.
«Che diavolo sta succedendo laggiù?»
Rimasi in silenzio, passando in rassegna i vari disastri che avrebbero potuto colpire Wind Gap. È una di quelle orribili cittadine inclini alle disgrazie: uno scontro frontale tra due autobus o un tornado; un’esplosione in un silo o un bambino caduto in un pozzo. Ero anche un po’ indispettita. Avevo sperato – come sempre mi succede quando Curry mi convoca nel suo ufficio – che si complimentasse con me per un pezzo recente, che mi promuovesse a qualcosa di meglio – accidenti! –, che mi facesse scivolare sotto gli occhi un foglietto di carta con scarabocchiato un piccolo aumento… ma una chiacchierata sugli ultimi avvenimenti a Wind Gap, questa no, non l’avevo proprio prevista.
«Tua madre vive ancora là, giusto?»
«Mia madre e il mio patrigno.» E una sorellastra nata quando ero al college, la cui esistenza mi sembra così irreale da farmi spesso dimenticare il suo nome: Amma. E poi Marian, la sempre compianta Marian.
«Be’, che diavolo, non parli mai con loro?»
L’ultima volta era stato a Natale. Una gelida, educata telefonata dopo aver tracannato tre bourbon. Avevo temuto che mia madre riuscisse a sentirmi l’alito attraverso la cornetta.
«Non di recente.»
«Cristo, Preaker, leggi i lanci delle agenzie, ogni tanto! Non c’è stato un omicidio laggiù lo scorso agosto? Una bambina strangolata?»
Annuii come se sapessi di che cosa parlava. Ma non era così. Mia madre – l’unica persona di Wind Gap con cui avessi sporadici contatti – non me ne aveva accennato. Strano.
«E adesso ne è scomparsa un’altra. Sento puzza di serial killer. Prendi la macchina, vai laggiù e vedi di tirarci fuori un bel pezzo. In fretta. L’ideale sarebbe che tu riuscissi a essere lì già domani mattina.»
Neanche morta. «Abbiamo anche qui le nostre storie dell’orrore, Curry.»
«Già, e abbiamo anche tre testate concorrenti, con il doppio del personale e del budget.» Si passò la mano fra i capelli, che gli ricaddero sulla fronte in ciuffi scomposti. «Mi sono stufato di arrivare sempre per ultimo. È la nostra occasione di mettere le mani su qualcosa di scottante. Di grosso.»
Curry crede che, con la storia giusta, potremmo diventare dalla sera alla mattina il primo quotidiano di Chicago, guadagnando credibilità a livello nazionale. L’anno scorso un altro giornale aveva mandato un reporter nella sua città natale, in Texas, dopo che un gruppo di adolescenti era annegato nelle alluvioni di primavera. L’inviato aveva prodotto un pezzo elegiaco, ma ben scritto, sulla natura dell’acqua e sul rimpianto senza tralasciare nulla: dalla squadra di basket dei ragazzi, che aveva perso i suoi tre giocatori migliori, alla locale impresa di pompe funebri, tragicamente inadeguata a ricomporre i cadaveri degli annegati. L’articolo gli aveva fruttato il Pulitzer.
Non mi importava, non volevo andarci lo stesso. Tanto che involontariamente mi aggrappai ai braccioli della poltrona su cui ero seduta, come se Curry fosse stato sul punto di buttarmi fuori con la forza. Lui rimase a fissarmi per qualche secondo con i suoi grandi occhi color nocciola. Si schiarì la voce, lanciò un’occhiata alla foto di sua moglie e mi rivolse il tipico sorriso del medico che sta per darti delle brutte notizie. Curry amava sbraitare – si confaceva alla sua immagine vecchia maniera del direttore di un giornale – ma era anche una delle persone più buone che conoscessi.
«Ascolta, ragazzina, se non te la senti, non farlo. Ma penso che ti farebbe bene. Per espellere un po’ di tossine. Per rimetterti in piedi. È una storia che promette maledettamente bene… e noi ne abbiamo bisogno. Tu ne hai bisogno.»
Curry mi aveva sempre sostenuta. Diceva che sarei potuta diventare la sua giornalista di punta. Che avevo una mente acuta. Nei due anni in redazione con lui ero stata abbondantemente al di sotto delle sue aspettative. Talvolta in modo eclatante. E adesso eccolo lì, dietro la scrivania, che mi sollecitava a dargli un po’ di soddisfazione. Annuii con quello che speravo fosse un piglio sicuro.
«Vado a fare i bagagli.» Le mie mani lasciarono impronte umide sui braccioli.
Non ho animali domestici di cui preoccuparmi, nessuna pianta da lasciare ai vicini. Infilai in una borsa da viaggio vestiti per cinque giorni: la mia garanzia che, entro il fine settimana, me ne sarei andata da Wind Gap. Mentre lanciavo un’ultima occhiata intorno, il mio appartamento mi apparve per quello che in realtà era: una squallida tana da studente, provvisoria e soprattutto anonima. Promisi a me stessa che al mio ritorno avrei investito un po’ di soldi in un nuovo divano, una specie di premio per il formidabile scoop che ero sicura di fare.
Sul tavolo accanto alla porta c’era una mia foto da adolescente con in braccio Marian, che all’epoca doveva avere sette anni. Stiamo ridendo. Lei ha gli occhi spalancati per la sorpresa. Io li ho socchiusi. La tengo stretta a me, le sue gambette esili penzolanti all’altezza delle mie ginocchia. Non so più in quale occasione è stata scattata la foto né per che cosa stiamo ridendo. Negli anni la cosa è diventata un piacevole mistero. Penso che mi piaccia non saperlo.
Faccio sempre il bagno, la doccia mai. Non sopporto lo scroscio dell’acqua che fa ronzare la mia pelle come quando qualcuno accende un interruttore. Quindi foderai il piatto doccia con un asciugamano di pessima qualità, puntai il getto contro il muro e mi accucciai nei sette centimetri d’acqua che si erano accumulati e in cui navigavano peli pubici di sicuro non miei.
Uscii dal box doccia. Di un secondo asciugamano non c’era proprio traccia, e così corsi ad avvolgermi nel copriletto di ciniglia da quattro soldi. Poi buttai giù del bourbon tiepido, maledicendo la macchinetta del ghiaccio guasta.
Wind Gap è undici ore circa a sud di Chicago. Curry mi aveva gentilmente concesso il budget per una notte in un motel e una prima colazione, se mi fossi accontentata di consumarla a una stazione di servizio. Arrivata a destinazione, però, avrei dovuto pernottare a casa di mia madre. L’aveva deciso lui per me. Io sapevo già che reazione avrei suscitato, presentandomi a quella porta. Un’improvvisa agitazione; la mano di mia madre che correva nervosa ai capelli; un abbraccio imbarazzato e un po’ sbilenco; scuse bofonchiate sul disordine in casa, peraltro inesistente; una veloce indagine sulla durata della permanenza, camuffata da cortesi convenevoli.
«Per quanto tempo ti avremo con noi, tesoro?» avrebbe detto. Il che significava: «Quando te ne vai?».
È questo suo tono cortese a urtarmi di più i nervi.
Sapevo che avrei dovuto riordinare i miei appunti, annotarmi le domande da fare, e invece continuai a tracannare bourbon, lo accompagnai con qualche aspirina e spensi la luce. Cullata dall’umido ronzio dell’aria condizionata e dai bip elettronici di un videogioco nella stanza accanto, finii per addormentarmi. Ero ad appena quaranta chilometri dalla mia città natale, ma avevo bisogno di un’ultima notte di lontananza.
La mattina dopo trangugiai in fretta una ciambella alla marmellata e mi diressi a sud, con la temperatura in rialzo e fitti boschi su entrambi i lati della strada. Questa zona del Missouri presenta un paesaggio sinistramente monotono: chilometri e chilometri di alberi non particolarmente maestosi, interrotti solo dalla sottile striscia di autostrada che stavo percorrendo. Uno stesso, identico fotogramma ripetuto all’infinito.
Con l’edificio più alto di soli tre piani, non si può dire che Wind Gap si stagli all’orizzonte, ma dopo venti minuti di guida, capii che mi stavo avvicinando. Prima di tutto spuntò una stazione di servizio, la cui piazzola di rifornimento era stata occupata da un gruppo di adolescenti seduti in maniera scomposta, tutti a torso nudo e con l’aria annoiata. Accanto a un vecchio pick-up, un bambinetto con il pannolino lanciava in aria manciate di ghiaia mentre la madre faceva il pieno. I capelli della donna erano biondi, ma ormai la ricre...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. 1
  4. 2
  5. 3
  6. 4
  7. 5
  8. 6
  9. 7
  10. 8
  11. 9
  12. 10
  13. 11
  14. 12
  15. 13
  16. 14
  17. 15
  18. 16
  19. 17
  20. Epilogo
  21. Ringraziamenti
  22. Copyright