Siamo stati una famiglia felice
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Siamo stati una famiglia felice

  1. 336 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Siamo stati una famiglia felice

Informazioni su questo libro

La figlia di Cath e Dave, Mia, ha solo venticinque giorni di vita quando le viene diagnosticata una grave malattia genetica, la fibrosi cistica. Già scossa dalle ferite che gli estenuanti tentativi per rimanere incinta hanno aperto nel rapporto tra lei e il marito, davanti a questa notizia Cath sente il proprio mondo crollare. Ha bisogno di risposte, di informazioni che la aiutino a proteggere la sua bambina, tenendola al riparo da una moltitudine di minacce che sembra impossibile chiudere fuori dalla loro casa, dalla loro vita, lontano dal respiro di Mia. Inizia così a frequentare un'associazione che aiuta i genitori ad affrontare la malattia, e qui incontra Richard, padre di un'adolescente affetta dallo stesso male. In lui Cath trova immediatamente la protezione e la speranza che Dave non riesce più a darle, l'indulgenza e la leggerezza di cui ha bisogno. La loro è una collisione disperata e impulsiva che li libera entrambi, una scintilla in cui bruciare di vita, per un attimo, e allontanare il senso di pericolo di un'esistenza che si è fatta precaria, fragile e contaminata. Ma questa relazione avrà conseguenze rovinose, non solo per il matrimonio di Cath. Intimo ed emozionante, vero, un romanzo che affonda dentro al cuore di una donna, nella tempesta del suo desiderio di amarsi, di sperare, di essere perdonata.

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Informazioni

Print ISBN
9788891581037
eBook ISBN
9788858694565

1

Nel tardo pomeriggio di una giornata calda e afosa, che da troppe ore minacciava temporale, salii sul classico autobus londinese, rosso. Al piano superiore tre passeggeri, distanti gli uni dagli altri, con la testa china sui cellulari. Finestrini chiusi, clima da serra. Spinsi con forza il finestrino più vicino a me e fui l’unica a sussultare quando si aprì con uno schiocco simile a uno sparo.
Mi sedetti, avvertii il tessuto sintetico e ruvido sotto le dita e fui infastidita dal blu elettrico e dall’arancio fluo scelti per rallegrare il tragitto dei pendolari. “I tuoi colori allegri non possono dettare il mio umore! Lo decido da sola.”
E mi sentivo bene, a essere sincera. Probabilmente meglio di quanto mi fossi sentita nelle tre settimane e sei giorni trascorsi da quando era arrivata la diagnosi, perché stavo per fare qualcosa. Stavo per incontrare delle persone che capivano la mia nuova lingua, a cui avrei chiesto: «Su che isola siamo stati esiliati? Da quanto tempo aspettate le scialuppe di soccorso, come possiamo farle arrivare più in fretta?».
Mia madre sarebbe stata contenta perché, se in quelle circostanze non fosse stato troppo duro da dire, mi avrebbe spronato: «Sei una madre, adesso! Prendi il controllo della situazione!» e io avrei potuto ribattere: «È proprio quello che sto facendo! Sto assumendo il controllo della mia famiglia. E dei miei sentimenti».
Perché la verità era che nessun altro – né mio marito, un medico, una sorella o un’amica – stava facendo qualcosa per cambiare la realtà dei fatti, e quindi quel compito spettava a me. Ecco come mi sentivo.
L’autobus scorreva nel caos della città, lungo le strade macchiate di scritte e urina, tra le vie coperte di manifesti strappati, tra gli edifici attaccati gli uni agli altri, tra i buchi profondi e le giunzioni saldate. Se fosse stato per me, l’avrei rasa al suolo per ricostruire tutto da capo.
«Impara ad affrontare i tuoi problemi» mi diceva mia madre quand’ero piccola.
«Sì, sì, lo farò. Dopo posso uscire?»
Stavo affrontando il problema. Me ne stavo occupando.
La dottoressa con la frangetta aveva detto: «Il gene mutato di cui siete portatori si chiama Delta F508. Mia ne ha presa una copia da ciascuno di voi».
Io avevo replicato: «Non l’ha presa. Gliel’abbiamo data noi».
Lei aveva detto qualche parola gentile sul fatto che non dovevamo ritenerci responsabili. Ma di chi altro poteva essere la colpa?
L’avevo attaccata alla fonte della mia stessa vita per aiutarla a costruire cuore, polmoni e organi usando il mio sangue, il mio ossigeno e la mia energia.
Ero sua madre. Le avevo dato la vita.
Ero sua madre. L’avevo condannata a morte.
Quella era la realtà dei fatti.
Appoggiai la testa contro il finestrino, sforzandomi di impedire allo stomaco di contrarsi e ondeggiare, scrutando l’alveare di impronte unte lasciate dalle dita degli altri passeggeri sul vetro. Guardai i deboli raggi di sole che si raccoglievano dietro alle nuvole e mi appoggiai le mani sulla pancia, sperando di incontrare la curva solida e rassicurante della gravidanza e della vita, ma trovai soltanto tessuto e carne molle e vuota. Era la prova che quella vita era stata liberata nel mondo, che il mio genio era ormai fuori dalla lampada. Espressi un desiderio dopo l’altro.
All’inizio i campanelli d’allarme erano stati insignificanti: le ore perse a cercare il cellulare (nel frigo) e le chiavi (nella toppa della serratura). Erano cose normali, che capitavano a chi non dormiva abbastanza, ma in realtà intuivo lo schema che stavano formando; lo sentivo nel modo in cui i miei pensieri andavano in frantumi, nelle lacrime che salivano e nel fumo denso che annebbiava la mia luce interiore. Eppure non potevo lasciarmi sprofondare in quegli schemi e nel passato, perché c’erano troppe cose da fare: poppate e pannolini, calmare le lacrime che sgorgavano dai miei occhi e da quelli di Mia, l’ansia che provavo quando qualcuno mi chiedeva: «Come posso aiutarti?», occasioni in cui mi sforzavo di sorridere e di trovare la risposta giusta.
La frustrazione e il panico crebbero quando le parole pronunciate dagli altri (mia madre, mia suocera, amici e parenti vari) cominciarono a sembrarmi vuote, inciampavano e crollavano prima di raggiungermi.
Pavlova e lasagne? Che meraviglia! Era gentile da parte loro pensare di poter cambiare la situazione con una torta a base di meringa e con della besciamella, davvero. Non potevano sapere che il mio senso del gusto, insieme a tante altre cose, si era azzerato.
Le lettere che ricevevo mi mandavano in crisi. Le ultime vere e proprie, inchiostro su carta, erano arrivate dopo il funerale di papà. Dopo la morte di qualcuno, accidenti.
Una cominciava così: «Tra tutte le persone a cui poteva capitare…» e mi aveva fatto pensare a una battuta di Casablanca: «Con tanti ritrovi nel mondo, doveva venire proprio nel mio?». La gente era sbalordita dalla notizia. Alcuni, credo, nel loro intimo erano sollevati… Perché le statistiche dovevano toccare qualcuno. Ecco la natura del demone: la mia disgrazia li teneva al sicuro, quindi quella situazione aveva perlomeno qualcosa di buono.
Ma nessuna di quelle persone fece qualcosa. Nessuna di loro cambiò qualcosa.
Al piano superiore di quell’autobus mi venne voglia di vomitare, come se fosse l’unico modo per liberarmi dall’ansia insostenibile e costante.
Cominciarono a cadere grosse gocce di pioggia e ne fui felice: avrebbero nascosto le mie lacrime, ne avrei sentito il tocco freddo sulla pelle.
Quando si avvicinò la mia fermata, mi spostai verso le scale. L’autista frenò all’improvviso, prima del semaforo e della fermata; se non avessi afferrato il corrimano, sarei caduta di testa. «Una duplice tragedia» avrebbe commentato la gente pensando alla nostra famiglia. E poi, quando Mia fosse stata abbastanza grande, le avrebbero detto frasi stupide sul fato, sulla casualità e sugli incidenti, frasi che secondo loro l’avrebbero rassicurata, aiutata ad affrontare il decesso della madre, morta sui gradini di un autobus.
Un ridicolo equilibrio di morti: una stupida ma veloce, una lunga quanto una vita, insopportabile e soffocante.
Ogni giorno, da quando era arrivata la diagnosi, avevo pensato di scappare. Avevo una carta di credito e un telefono, tutto ciò che mi serviva per ricominciare da un’altra parte.
«Ti voleva bene» le avrebbero detto, «ma non è riuscita a… Alcune persone non sanno proprio come…»
Immaginavo che succedesse di continuo: gente che scappava, lasciando che fosse qualcun altro a gestire il problema, ripetendosi che quel qualcun altro avrebbe soddisfatto meglio i bisogni del figlio. Magari ci credevano davvero.
Bisognava imparare a dimenticare il volto dei propri figli? Era quella la chiave per riuscirci?
Scesi gli scalini e le mie scarpe fecero un rumore sordo e pesante. Non vedevo l’ora di ritrovarmi sotto la pioggia; i passeggeri al piano inferiore sembrarono sospettosi e allarmati quando mi misi a battere sulle porte chiuse con i palmi aperti. “Fatemi scendere da questo cazzo di autobus!” Non riuscivo a respirare. Stavo per vomitare.

2

Le finestre della sala principale del quartier generale di Cystic Fibrosis Now erano spalancate. L’aria profumava di prodotti per la pulizia e di terra umida, l’odore che emanano i vecchi muri quando comincia a piovere. L’illuminazione era spoglia e bianca, tanto intensa da far venire l’emicrania. Le sedie, dieci o dodici, erano disposte a cerchio, e la moquette era di un blu-grigio da ufficio. Le poche persone arrivate prima di me erano divise a coppie. Erano i responsabili dell’associazione che sapevano il fatto loro o neogenitori come me? Ruotai un bottone dell’impermeabile che indossavo, più volte, chiedendomi quando il filo che lo teneva fermo si sarebbe spezzato, cosa sarebbe successo se non avessi trovato la forza e le parole adatte alle persone presenti in quella stanza, cosa sarebbe accaduto se me ne fossi andata, qualche ora più tardi, nella stessa situazione in cui ero arrivata.
Scrutai la stanza. Un grande thermos di tè su un tavolino sorretto da cavalletti. Tutti erano riuniti attorno al tè: ti dava qualcosa da fare mentre cercavi le parole giuste. Si poteva preparare e bere il tè oppure prendere a calci i muri e mangiarsi le unghie. Raggiunsi il tavolo e me ne versai una tazza che non mi andava affatto.
I cucchiaini tintinnavano e gli incarti dei biscotti frusciavano. Le conversazioni erano un mormorio basso e costante, come se stesse per iniziare una funzione religiosa.
«Mi passa lo zucchero, per favore?» Una donna si protese dall’altra parte del tavolo e mi sfiorò la manica. Era esile e teneva una cerata gocciolante nell’incavo del braccio. «So che non dovrei, sto cercando di dimagrire» aggiunse. Sentii le mie spalle incurvarsi mentre sorrideva: la pelle sotto i suoi occhi si increspò, mostrando strati di correttore chiaro steso male, quello che si applica per nascondere le borse scure. «Ma in questo momento non riesco a bere il tè senza zucchero.»
Quando avevo vomitato, in clinica, mi avevano portato del tè zuccherato. Avevano aspettato che lo finissi, poi era iniziata la lezione. Somministrare questo, somministrare quello. Somministrare dei farmaci per aiutarla ad assimilare le sostanze nutritive, perché il suo apparato digerente era ostruito dal muco. Sottoporla a sessioni di fisioterapia per eliminare il muco dai polmoni. Somministrare antibiotici per proteggerla dai danni provocati dai batteri ambientali che potevano bloccarsi nei polmoni e peggiorare la situazione. Dave aveva preso parecchi appunti, a un certo punto aveva persino disegnato un grafico. Dato che era bravo nei compiti burocratici, per lui doveva essere sensato trattare la figlia come un problema che poteva risolvere con metodo.
Le passai la zuccheriera e ricambiai il sorriso. «Lei è una…?» provai a chiedere, ma la mia voce si spense: i ricordi dell’intorpidimento che avevo provato sembravano cotone nella mia gola.
«Sono una mamma, sì. Mio figlio ha un anno.» Sorrise di nuovo. «E ha la fibrosi cistica, ovviamente. E lei?»
«Ho una bimba di due mesi. Abbiamo appena ricevuto la diagnosi.»
Bevve due sorsi e posò la tazza. «È sorprendente che lei sia qui. In quella fase io ero ancora in pigiama a piangere. La mia piccola peste non dormiva mai, il che ha reso tutto dieci volte peggio.»
«Come sta suo figlio? Se posso chiedere…» Feci la domanda prima di rendermi conto del fatto che non volevo sapere la risposta, nel caso riguardasse ospedali o cose del genere.
«Molto bene. Ha iniziato a camminare la settimana scorsa, è adorabile. Sembra un cucciolo di pinguino e dondola da una parte all’altra.» Allargò le braccia e mosse il collo, strappando un sorriso a entrambe.
«E le medicine?» chiesi ancora, prendendo coraggio.
«Oh, le sputa e non le sopporta, ma troviamo sempre il modo di dargliele. È mio marito a occuparsi di quel genere di cose. È incredibile quanto si possa diventare creativi. Stasera purtroppo non è potuto venire, ha una brutta tosse e non voleva contagiare nessuno. Gli dispiace saltare questi incontri. Come se la cava il suo compagno? Sta bene?»
«Il mio Dave è un inguaribile pragmatico.» Accennai un altro sorriso. «Ha fatto due liste di medicine, una per quelle da prendere prima di colazione e una per quelle da prendere dopo. Ha una lista anche per non perdere i calzini. Adora le liste.»
«Be’, sembra utile.»
«Sì, è così. Adesso è a casa a insegnare a sua madre ad accudire Mia…»
«Wow.»
«… Così può andare a giocare a calcio. Non aveva voglia di venire qui, dice che preferisce parlare con i suoi amici che con un gruppo di sconosciuti.» Lei inarcò un sopracciglio e io temetti di essere stata sleale. «Non mi fraintenda… Non voglio essere ingiusta. È sempre stato un uomo pratico, e la cosa ha dei vantaggi. La sua capacità di individuare ciò che è davvero importante ha reso l’organizzazione del nostro matrimon...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Siamo stati una famiglia felice
  4. Prologo
  5. 1
  6. 2
  7. 3
  8. 4
  9. 5
  10. 6
  11. 7
  12. 8
  13. 9
  14. 10
  15. 11
  16. 12
  17. 13
  18. 14
  19. 15
  20. 16
  21. 17
  22. 18
  23. 19
  24. 20
  25. 21
  26. 22
  27. 23
  28. 24
  29. 25
  30. Epilogo
  31. Ringraziamenti
  32. Copyright