Sono le dieci di sera del 16 ottobre 1968.
Le tribune piene dello stadio Olimpico di Città del Messico rumoreggiano di attesa ed emozione, mentre gli otto finalisti dei 200 metri si sistemano ai blocchi di partenza.
Tutti guardano la terza corsia, quella dell’americano Tommie Smith.
The Jet.
Lo chiamano così per la sua velocità strabiliante in allungo, quando distende l’enorme falcata e diventa irraggiungibile.
Tommie ha ventiquattro anni, è altissimo e magro, leggero. In gara parte piano, poi innesta il turbo e vola sulla pista.
È il detentore del record mondiale con 20 secondi netti ed è l’uomo che può battere se stesso e scendere sotto quel fatidico limite.
Ma la sua vittoria non è più così scontata.
Nella corsia accanto alla sua, la quarta, si prepara un altro ragazzo nero, anche lui molto alto, però più muscoloso.
Si chiama John Carlos, ha ventitré anni ed è americano come Tommie.
John è un corridore più esplosivo: parte forte e sfoga sulla pista la potenza dei suoi muscoli come un martello pneumatico.
Nelle qualificazioni alle Olimpiadi, poche settimane prima, John ha battuto Tommie, correndo in un fantastico 19.92, ma il tempo non gli è stato convalidato perché indossava scarpe non regolamentari, con più file di chiodini del consentito sotto le suole.
Tommie e John vengono entrambi dall’Università di San José, California, il college soprannominato Speed City, perché sforna velocisti di caratura mondiale.
Sono compagni di studi e di squadra, ma non potrebbero essere persone più diverse.
Smith è riflessivo, calmo, parla poco e sorride molto, ma non dà confidenza a nessuno.
Carlos, invece, è un casinista, litiga spesso e dice a tutti quello che pensa, senza risparmiare sulle parolacce. Negli studi va male: soffre di un problema di dislessia, di cui, però, gli insegnanti non si sono mai curati. A nessun college interessano troppo i voti di un ragazzo nero come John, basta che corra e vinca.
Ed è lo stesso per Tommie, anche se lui è un ottimo studente e si sbatte fino a notte fonda sui libri: il college di Speed City crea macchine da medaglia. Smith e Carlos devono correre, senza pensare al resto.
Ma questi due ragazzi, invece, pensano e coltivano un sogno che va oltre le piste d’atletica.
Vogliono più diritti per le persone di colore e, prima delle Olimpiadi, hanno aderito al Progetto Olimpico per i Diritti Umani, insieme a molti fra i migliori atleti neri degli Stati Uniti.
Hanno minacciato di non partire per le Olimpiadi se le loro richieste non fossero state esaudite.
Hanno chiesto l’esclusione degli Stati razzisti del Sudafrica e della Rhodesia, da poco riammessi ai Giochi nonostante le politiche di apartheid.
Hanno chiesto che al pugile nero Muhammad Ali fosse restituito il titolo di campione dei pesi massimi strappatogli dopo il suo rifiuto di combattere in Vietnam.
Hanno chiesto che anche i neri potessero diventare allenatori delle squadre sportive statunitensi.
Hanno chiesto le dimissioni del presidente del Comitato Olimpico Internazionale Avery Brundage, un uomo sospettato di razzismo che ha sostenuto l’organizzazione delle Olimpiadi del 1936 nella Germania di Hitler.
Hanno chiesto che il celebre New York Athletic Club ammettesse anche gli atleti neri, che non hanno mai potuto iscriversi: il club ha ottomila iscritti e sono tutti bianchi.
Ma la battaglia di questi ragazzi va oltre lo sport.
Lottano per cancellare le discriminazioni che subiscono gli studenti universitari neri, che non possono affittare un appartamento perché nessuno gliene dà uno, che non possono frequentare gruppi di studio misti e devono stare solo fra neri, guardati con sospetto e ostilità.
Questi ragazzi esistono solo come macchine da medaglia, questi campioni non sono trattati da persone ma da cavalli da corsa.
«In pista sono Tommie Smith, il più veloce del mondo. Ma una volta fuori torno a essere solo uno sporco nero.»
Nonostante le sue richieste, il Progetto Olimpico per i Diritti Umani ha ottenuto soltanto l’esclusione di Sudafrica e Rhodesia, niente altro. E anche il boicottaggio ai Giochi è saltato, perché una parte degli atleti ha votato contro nell’ultima e decisiva assemblea.
E così, in questa sera di ottobre del 1968, Tommie Smith e John Carlos sono sulla pista di Città del Messico a contendersi la vittoria olimpica, ma, nel cuore, non hanno abbandonato la lotta.
Tommie è il più teso dei due, perché dopo la semifinale ha sentito un dolore alla coscia sinistra.
Si è accasciato a terra, ed è stato portato fuori in barella. Lo hanno curato con ghiaccio e massaggi per due ore, ma non sa se la sua gamba resisterà.
Sarebbe una delusione atroce, dopo una vita passata a lavorare per questo giorno.
«Vai pure a correre, Tom. Ma non portare a casa un secondo posto. Altrimenti dovrai tornare a lavorare nei campi di cotone coi tuoi fratelli» gli aveva detto suo padre, quando andava ancora alle scuole medie.
E Tommie ha obbedito: ha vinto, sempre. Una sfilza di medaglie e record per scappare via da quei campi e costruirsi un futuro, perché correre, e vincere, sono le uniche armi che ha.
Anche John, nato e cresciuto a New York, ha sognato quelle Olimpiadi per tutta la vita.
Da bambino ha fantasticato di diventare un grande nuotatore, fino a quando suo padre non gli ha spiegato il motivo per cui non poteva mandarlo in piscina.
«I neri non possono frequentare le piscine in cui si allenano i bianchi.»
E allora John, alle Olimpiadi, ci è arrivato correndo. Perché le piscine potevano respingerlo e la scuola pure, gli insegnanti potevano ignorare la sua dislessia e fingere di non vedere che John era un ragazzo sveglio che aveva solo bisogno di aiuto per studiare. Ma nessuno poteva ignorare la velocità con cui vinceva medaglie.
Mentre si sistema nella sua corsia, John ripensa alla domanda che un giorno ha rivolto a Martin Luther King, il premio Nobel per la Pace che ha guidato le proteste pacifiche per i diritti dei neri. Martin è morto solo sei mesi prima di questa sera messicana, ucciso in un attentato.
«Perché lo fa, reverendo King? Perché rischia la sua vita?»
«John, io devo lottare per quelli che non vogliono lottare da soli. E per quelli che non possono lottare da soli.»
Ecco, adesso anche John Carlos è lì, a Città del Messico, per loro: per quelli che non vogliono e per quelli che non possono.
“Ai vostri posti” dice lo speaker.
I finalisti si sistemano. I piedi sui blocchi, le dita aperte sul tartan della pista.
“Pronti.”
Si alzano, predatori pronti alla caccia.
Bum!
John esce dai blocchi come un tornado, scaricando la sua potenza devastante sulla pista, mentre Tommie è dietro, incagliato nelle sue gambe lunghe e nella coscia dolorante.
John esce dalla curva e imbocca il rettilineo, testa a testa con il campione di Trinidad Roberts e il giamaicano Mike Fray.
Ma ora Tommie Smith innesta il turbo, si dimentica della gamba sofferente e allunga la sua incredibile falcata, con i piedi che quasi non toccano più il terreno.
The Jet vola sulla pista, recupera, affianca John Carlos ormai esausto e lo supera.
Intanto l’australiano Peter Norman esce dalle retrovie con uno scatto di potenza pazzesco, riuscendo a rimontare.
Tommie Smith vince con le braccia al cielo in 19.83, un record del mondo incredibile: il muro dei 20 secondi è disintegrato!
L’australiano Peter Norman supera allo sprint John Carlos, che finisce terzo.
Tommie esulta, John lo abbraccia, il pubblico è impazzito.
Nessuno immagina che il meglio di quella serata debba ancora arrivare.
Poche decine di minuti dopo, per la consegna delle medaglie, Smith e Carlos fanno il loro ingresso sul prato dello stadio indossando la tuta blu degli Stati Uniti d’America.
Dietro c’è il secondo classificato, Peter Norman, con la divisa verde.
I tre velocisti camminano in fila verso il podio, eppure c’è qualcosa di strano.
Smith e Carlos non indossano le scarpe da ginnastica, ma le tengono in mano, dietro la schiena. E camminano in un modo lento, solenne. Sembrano marciare, come soldati in una parata, senza gioia nello sguardo. Indossano collane dai colori africani per ricordare i neri impiccati e linciati nel corso dei secoli a causa della discriminazione.
John ha la cerniera della tuta abbassata, in violazione del protocollo olimpico che ordina di tenerla chiusa.
Sul petto degli americani e anche di Peter Norman, all’altezza del cuore, spiccano le spillette bianche del Progetto Olimpico per i Diritti Umani.
I due americani salgono scalzi sul podio, per rappresentare la povertà della loro gente. Ma c’è qualcosa di ancora più impressionante: entrambi, su una sola mano, indossano un guanto nero di pelle.
Si distingue chiaramente nel momento in cui Tommie Smith prende i fiori consegnati al vincitore e solleva le braccia.
“Ma cosa hanno intenzione di fare?” si chiedono le migliaia di persone sulle tribune di Città del Messico e i milioni di spettatori a casa, davanti al televisore.
“Picchieranno qualcuno? Lanceranno qualcosa?”
Solo Peter Norman sorride, mentre al collo gli mettono la medaglia d’argento. Non immagina che la piccola spilla del Progetto per...