In molti hanno chiaro che qualcosa non funziona nella scuola italiana di oggi e si pongono il problema di capire che cosa sia, per riuscire a liberarsene. Fra loro, tantissimi insegnanti. Gli stessi funzionari del ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca, e i politici che di volta in volta calcano la scena, si rendono conto della situazione e continuano a proporre riforme più o meno inapplicate e inapplicabili (dal 2000 ne abbiamo già avute circa sei), anche perché non sembrano concentrarsi su ciò che davvero non funziona. Toccano gli ambiti strutturali e organizzativi, la logistica, ma non entrano nel merito delle problematiche legate all’apprendimento: vale a dire, del senso fondamentale dell’istituzione scolastica, la cosa più importante e che può fare davvero la differenza.
Per cambiare occorre togliere.
Non è dunque possibile continuare a sovrapporre riforme su riforme, indicazioni su indicazioni, normative su normative. Si ottiene soltanto il risultato della mitica tela di Penelope, fatta di giorno e disfatta la notte.
Bisogna cominciare a fare un po’ di ordine e a liberare le aule. Eliminare qualcosa. Ma che cosa?
LE PRATICHE INERZIALI: L’ETERNO RITORNO DELL’UGUALE
Il primo problema della scuola italiana è metodologico.
Un dato ormai acquisito da tutta la letteratura internazionale è che per sviluppare un buon apprendimento non basta che l’insegnante conosca la materia. Nel giugno del 2016, «The Economist» ha dedicato un’inchiesta al tema di come si diventa bravi insegnanti.1 Nel settimanale si citavano diversi recenti studi americani sul ruolo e sulla figura del docente, che mettevano in luce l’impatto determinante del buon insegnamento in termini di successo scolastico e possibilità di colmare gap sociali. Inoltre ci si interrogava su quali fossero gli elementi necessari per diventare insegnanti efficaci. La conclusione dell’articolo era sferzante: «The lesson is clear; it now just needs to be taught». In parole nostre, «la lezione è chiara, ora c’è solo da insegnarla». Tuttavia non basta che la lezione sia chiara nella testa di chi insegna,
e insegnare non è un’operazione di travaso: bisogna saper attivare, stimolare e gestire i processi di apprendimento degli alunni.
Eppure spesso e volentieri i docenti vengono ancora reclutati sulla base della conoscenza della materia e non per le competenze pedagogiche, cioè quelle necessarie.
È paradossale, ma coloro che sono universalmente riconosciuti come grandi pedagogisti, da Maria Montessori a Célestin Freinet, e tanti altri innovatori dal punto di vista educativo e metodologico, sono sempre stati considerati ai margini del panorama scolastico, soprattutto di quello italiano. Pensiamo ai bambini che lavoravano per terra in una scuola Montessori degli anni Venti: se oggi un genitore, magari via webcam, scoprisse che suo figlio ha fatto lezione seduto a terra, manderebbe la protezione civile a tirarlo su! A Barbiana don Milani faceva scuola, d’inverno e d’estate, usando tavoli che oggi le ASL sequestrerebbero compilando decine di verbali. Si guardava con sospetto anche Mario Lodi, che, seduto a fianco dei suoi alunni, condusse un’operazione pedagogica straordinaria: ne risultò, scritto assieme a loro, quel vero e proprio bestseller che è Cipí.
Metodi nuovi, attività nuove. La scuola italiana è ricca di figure di spicco e riferimento. Eppure pochissimo di tutto questo è stato acquisito: la Montessori se ne andò dall’Italia; il movimento freinettiano nel nostro Paese ha incontrato mille difficoltà; figure come Lodi, Rodari, don Milani restano casi eccezionali. Come se qualcosa qui non riuscisse a funzionare, come se gli insegnanti non fossero capaci di fare proprie le loro indicazioni.
Resistono invece pratiche scolastiche arcaiche, le cui origini, nonché l’utilità effettiva, si sono perse nella notte dei tempi.
Una cosa che mi ha sempre stupito è che
il termine «lezione» non compare nei programmi ministeriali italiani,
almeno non in quelli della scuola primaria e secondaria di primo grado, che coincidono con la scuola dell’obbligo. Si parla piuttosto di «ambienti di apprendimento». È un vero mistero. Come mai una pratica didattica che, almeno fino ai quattordici anni, non è prevista da alcuna disposizione ministeriale, rappresenta il dispositivo più comune e scontato utilizzato dai docenti? Non sto sostenendo che le lezioni siano sempre tutte uguali, ma è indubbio che la pratica della lezione frontale sia la più diffusa nella scuola italiana. Come mai? Il termine «lezione» non compare nei programmi ministeriali perché, di solito, a realizzare quei documenti strategici sono stati pedagogisti autorevoli. Vale a dire personaggi che si guardavano bene dall’impiegare quel vocabolo, almeno fino al secondo grado della scuola secondaria. E tuttavia la lezione frontale permane da sempre, per il solo fatto che
la scuola è costruita su pratiche inerziali.
«Inerziale» è un termine che di solito non uso. Ma riflettendo su questi argomenti lo trovo il più adatto a descrivere un insieme di situazioni che si verificano senza che in proposito sia stata presa una decisione. Succedono e basta. Perché si fa così? Non c’è una risposta: si fa così. Punto.
Se vogliamo liberarci da un po’ di sovrastrutture per fare spazio a un nuovo approccio, bisogna affrontare quel labirinto di pratiche inerziali che guidano le prassi della didattica italiana, prive di un’effettiva intenzionalità metodologica ma che si perpetuano all’infinito, senza che vi sia consapevolezza delle loro origini. Occorre cercare di capire da dove nascono, nei limiti del possibile, e chiederci quale obiettivo perseguono e se questo sia ancora sensato e attuale alla luce delle più recenti conoscenze su come funziona l’apprendimento. Così facendo, rispetto alla «lezione frontale» potremmo risalire addirittura al Medioevo.
L’ILLUSIONE DELLA LEZIONE FRONTALE
Siamo una nazione con una lunga storia in termini di istruzione e formazione. L’Università di Bologna, fondata nel 1088, prima ancora di quelle di Oxford e Parigi, è stata una delle prime scuole «universali» del mondo occidentale.
Il termine «lezione» proviene dal latino lectio e deriva proprio dall’organizzazione didattica delle scuole di quel tempo: la lectio medievale era la lettura dei testi classici antichi. Gutenberg arriverà con la rivoluzionaria invenzione della stampa solo quattro secoli dopo; fino ad allora, per centinaia di anni, la difficile reperibilità di testi ha determinato la necessità di impostare l’insegnamento come una lettura ad alta voce di manoscritti.
Oggi siamo passati dai codici medievali al tablet, ma il sistema resta sostanzialmente lo stesso: per far imparare qualcosa a qualcuno il metodo più lineare ed efficace è considerato quello di utilizzare il sistema della lettura di un testo associata a una spiegazione.
Non possiamo dimenticare che la scuola, a partire dal Medioevo fino alla riforma Gentile del 1923, tutto sommato è sempre stata concepita come un servizio per quei pochi che erano in grado di frequentarla. Lo sviluppo del sistema scolastico italiano ha seguito questa falsariga. L’obbligatorietà dell’istruzione su tutto il territorio nazionale è stata introdotta soltanto nel 1859 con la legge Casati (resa effettiva solo con la legge Coppino del 1877, che introduce l’obbligo scolastico per il primo triennio delle elementari) e, fino alla metà del secolo scorso, il modello di scuola a cui si è fatto riferimento esprimeva una concezione aristocratica della cultura e dell’educazione: un’istruzione di base per tutti e una formazione superiore riservata a pochi, considerati i migliori, e intesa come dispositivo di selezione della futura classe dirigente. Quel modello è fallito, ma pervade ancora la nostra cultura scolastica.
La didattica della lezione frontale è il retaggio di questo imprinting. Implica una concezione dell’apprendimento come processo trasmissivo, fondato sostanzialmente sul canale verbale, e richiede tempi attentivi che tutti gli studi più recenti hanno verificato insostenibili da un adulto, figurarsi da un bambino o da un ragazzo. Ma è un dispositivo pedagogico essenziale nella sua semplicità e facilità applicativa, e richiede soltanto tre passaggi: spiegazione, studio individuale come ripetizione dei contenuti che sono stati trasmessi dall’insegnante, e infine interrogazione che valuta l’alunno riguardo alla comprensione della spiegazione. È accessibile e sostenibile da chiunque conosca una materia scolastica o abbia un sapere di qualsiasi tipo.
Si perpetua così quella che Paulo Freire definiva «l’educazione depositaria»: una concezione dell’insegnamento come trasferimento, come l’atto di depositare conoscenze e valori, come fossero un pacchetto, in quel contenitore vuoto che è l’alunno.2
CHI HA INVENTATO LE NOTE SUL DIARIO?
Chi ha ideato le note scolastiche? E perché si «danno»? Qual è il loro senso pedagogico ed educativo? Chi saprebbe rispondere? Proprio nessuno. È curiosissimo. Eppure oggi le note si scrivono ancora, ogni giorno, ed esistono alunni che le collezionano, nonostante siano un elemento ridondante, dall’inefficacia comprovata.
Ne trascrivo qualcuna, ma ci sarebbe materiale per un’intera enciclopedia.
Terza elementare
«Edoardo e un compagno urlano nei bagni disturbando le lezioni delle altre classi.»
Prima elementare
«Durante le lezioni Samuel ridacchia e gioca.»
Quarta elementare
«Si informa che Sara, nonostante i ripetuti richiami, continua a urlare durante la lezione, a perdere tempo e a essere polemica nei confronti dei compagni. Oggi tra l’altro si è messa a piangere perché le ho dato un suggerimento per il biglietto di Pasqua, la volevo aiutare. Si innervosisce molto facilmente anche se si parla con tranquillità. Ieri nell’ora di compresenza la collega le ha fatto notare che ha risposto male.»
Prima elementare
«Gentile famiglia, devo rilevare che oggi Giulia durante la mensa non ha tenuto un comportamento adeguato e al termine dell’intervallo il suo comportamento è ulteriormente peggiorato, al punto da darmi dei calci e lanciarmi addosso i suoi stivaletti di gomma. Il tutto senza una motivazione apparente. È stata avvisata la preside. Anche durante la lezione di scienze Giulia è stata richiamata tante volte al fine di tenere un comportamento più adeguato: ha svolto il compito solo in parte.»
Prima media
«Durante la lezione di geografia, Samuele usa il trolley per sedersi e andare in giro per la classe disturbando i compagni.»
Seconda media
«Nicola durante l’interrogazione di aritmetica, mentre i compagni eseguono gli esercizi di matematica assegnati dall’insegnante, lancia dei pezzettini di carta contro i compagni per disturbarli.»
Da dove viene la pratica inerziale delle note scolastiche? Non si sa... E intanto bambini e ragazzi, spesso ormai per nulla intimoriti o preoccupati all’idea che la comunicazione tra genitori e insegnanti gestita in questo modo possa avere qualche effetto su di loro, subiscono passivamente o si adeguano con vari metod...