Il mio viso davanti a voi
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Il mio viso davanti a voi

  1. 192 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il mio viso davanti a voi

Informazioni su questo libro

Hollywood, fine anni Cinquanta. Durante una festa in una grande villa sulla spiaggia, un uomo salva una giovane donna che sta per annegare con un bicchiere di Martini in mano. Lui è uno sceneggiatore annoiato con la moglie a New York. Quasi senza intenzione, si lascia coinvolgere dalla giovane, bella e già amareggiata dall'amore, soprattutto da quello vissuto con uomini sposati. Una relazione fortuita che si gonfia come un'onda, raggiungendo un'intensità tale da risultare distruttiva. Sono due solitudini di segno opposto, del tutto impreparate a frantumare la parete che separa l'egoismo dalla condivisione, due solitudini che accomunano chi è alla ricerca di successo e che spesso è destinato a sopportare il peso del fallimento. Storia di una passione impossibile, Il mio viso davanti a voi è un romanzo in cui l'alcool e le notti di Hollywood sono lo sfondo caldo e perfetto perché si consumi un certo tipo di amore.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2019
Print ISBN
9788817109727
eBook ISBN
9788858696200

1

Era una festa che era durata troppo; e stanco delle voci, un po’ troppo animate, e degli alcolici, un po’ troppo abbondanti, e pensando che sarebbe stato bello restare solo, pensando di sfuggire, per un breve intervallo, a quei sorrisi che ti inchiodavano al pianoforte o a quelle domande che ti infilzavano e ti lasciavano a contorcerti su una sedia, uscii a guardare l’oceano.
Eccolo, proprio come nella pubblicità, un rigonfiarsi scuro e pesante, e in lontananza le luci di una barca ritardataria che procedeva lenta verso sud. Fissai l’acqua, oltre una specie di confine; alle mie spalle, dalla stanza sfolgorante con il bar di bambù e i mobili di bambù, le voci di quelle persone che non erano del tutto sconosciute e nemmeno esattamente amiche continuavano a elencare successi o a raccontare barzellette. Trovavo sciocco restare, stanco com’ero, mentre la festa moriva; trovavo sciocco andarmene dato che a casa mi aspettavano solo stanze vuote.
Sotto di me c’era la spiaggia; e in quel momento da una delle camere da letto al piano inferiore uscì una ragazza in calzoncini, maglia a righe e berretto da marinaio, che in mano aveva un cocktail. Avanzava sulla sabbia con cautela e allegria, tenendo in equilibrio il bicchiere, e sui capelli scuri il berretto comprato in un negozio, illuminata dalla luce che proveniva dalla casa. In quei calzoncini cortissimi, e nel buio, le sue gambe avevano un biancore speciale. Scese fino alla riva e lì bevve un sorso volutamente lungo e inclinò appena la testa per guardare le stelle. Era davvero uno spettacolo: il mare, i calzoncini, il cocktail, e immagino che lei fosse perfettamente consapevole dell’insieme, io comunque lo ero, mentre me ne stavo lì a oziare sotto il portico fumando con profonda e meditabonda attenzione. Pensai che forse l’avevo già vista: o almeno avevo visto quelle gambe bianche, i capelli lunghi, il berretto spavaldo; magari in posa davanti alla vela di uno sloop a Balboa in un fine settimana affollato, o verso le quattro del pomeriggio appollaiata su uno sgabello al bar dell’Ocean House, nel caso fosse stata socia e avesse preso in affitto una cabaña, ma probabilmente non lo era. Ce l’avevano invitata, all’Ocean House, e l’avevano invitata a bordo di quello sloop a Balboa, e in genere non era sola; in genere c’erano altre tre o quattro ragazze, dalle gambe ugualmente lunghe, e con i capelli arricciati all’altezza delle spalle. Non riuscivo a vederla in faccia ma non aveva importanza: sapevo con sicurezza chi era, più o meno, e sapevo che là fuori, con l’acqua increspata intorno alle caviglie, aveva stabilito con il mare un contatto divino. Poi, sempre con il bicchiere in mano, come se reggesse un calice a una cerimonia privata, cominciò a inoltrarsi nell’oceano. Le sue gambe mandarono uno scintillio nel buio. Si fermò per bere ancora, con deliberata lentezza, e poi la risacca fece qualcosa alla sabbia su cui stava, e lei cadde. La trovai adorabile. Il culetto era ormai completamente bagnato e il berretto da marinaio le era scivolato giù. Si alzò ad affrontare il Pacifico, ma non era più l’affascinante silhouette che si era appena offerta al cielo indifferente. Ora pareva proprio una ninfa frustrata. Appoggiai i gomiti alla ringhiera del piccolo portico, per godermi la sua disfatta. Ero nauseato da tutto: i loro jeans, le magliette, le scarpe di canapa; i quadretti vichy, gli scolli all’americana e i sandali; le loro ingenuità e le svenevolezze abbronzate.
La ragazza vacillò, non aveva più il berretto e il bicchiere era finito in mare, e poi riprese ad avanzare nell’oceano. Ora procedeva con energia e non toccava più, come avevo immaginato. Arrivò una grossa onda e lei sprofondò. Sprofondò davvero. Urlai qualcosa e saltai giù dal portico.

2

Sulla sabbia tossì e cercò di vomitare. Filamenti di saliva le pendevano dalla bocca e aveva delle alghe appiccicate alle gambe. Continuava a tentare di parlare. Ora erano usciti tutti e facevo fatica a tenerla giù sulla sabbia, le salii sul corpo a cavalcioni e provai a pompare fuori l’acqua. Mi sentivo uno stupido e quella posizione era oscena, e quella maledetta sabbia ce l’avevo ovunque sui pantaloni, e poi i due cocker spaniel si misero ad abbaiare credendo che fosse un gioco. Alla fine vomitò. Venne fuori tutto, l’acqua salmastra e il gin e quello che aveva mangiato, uno schifo. Non era affatto carina. Era una seccatura, e anche brutta. Naturalmente i cani si sentirono in dovere di avvicinarsi ad annusare.
Ma se non altro ora poteva respirare; o meglio, rantolare.
L’avvolsero nelle coperte, la portarono in casa, la piazzarono accanto al fuoco e le diedero una tazza di caffè bollente. Nessuno pareva eccessivamente sconvolto. Ebbi l’impressione che si aspettassero più o meno un epilogo del genere, alle feste che organizzavano.
«Con chi è venuta?»
«Benson, vero? Saprà di sale per una setti-mana.»
«Qualcuno dovrebbe recintare quell’oceano. È un pericolo pubblico.»
«Poveretta, guarda come trema.»
«Fate star zitti quei cani.»
Ora sembrava proprio una bambina, dal viso era scomparso ogni colore. Tremava in maniera incontrollabile e si accovacciò davanti al fuoco con la coperta sulle spalle, come se si aspettasse un rimprovero, come se attendesse la punizione. Mi dispiacque per lei e avvertii una vaga irritazione; e poi purtroppo non indossavo dei pantaloni corti, che sarebbero stati più appropriati. Dissi a Charlie: «Cristo, mi inviti a una festa e guarda cosa succede».
Lui scrollò la testa. «È una ragazzina. Probabilmente ha buttato giù troppi Martini.»
«Certo.»
«Non sanno proprio bere.»
«Alla prossima festa a cui m’inviti, mi porto il respiratore.»
Salii di sopra a infilarmi un paio di pantaloni e una felpa di Charlie per tornare a casa.

3

Casa era un appartamento in affitto, sul boulevard. Non era male, un po’ troppo nuziale, forse; la ragazza che me l’aveva lasciato era partita per l’Europa per dimenticare un matrimonio fallito seguito da un divorzio evidentemente fallito. L’appartamento se l’era trovato tra un marito e l’altro e in un certo senso era davvero un minuscolo nido d’amore. In fondo al soggiorno c’era un piccolo bar con due sgabelli alti e imbottiti, e sulla parete sopra il bar aveva appeso grandi poster di corride comprati a Città del Messico. Immaginavo fosse a Città del Messico che il matrimonio era andato storto, e che il marito che era andata a dimenticare in Europa fosse messicano. Mi aveva lasciato intendere che non le avesse mai perdonato di essere una gringa, e che in Messico si vergognava parecchio di avere una moglie americana, nonostante tutti i tentativi di lei per adattarsi alla sua idea di come doveva essere la moglie di un messicano. Da quello che mi aveva detto, doveva essere stata una storia d’amore eccitante negli Stati Uniti e completamente fallimentare a Città del Messico. In ogni caso, l’appartamento l’aveva sistemato bene, rendendolo accogliente e fin troppo pieno di fronzoli, e la camera da letto era tutta in bianco, con un copriletto di ciniglia bianca e tende bianche, perfino la sveglia era bianca, e aveva arredato il bar con i poster delle corride e minuscoli fiaschi di Chianti con le loro gonnelle di vimini appesi alla cornice del soffitto, e un divano con tanti cuscini per sdraiarsi quando gli sgabelli diventavano scomodi, e lì aveva cercato di dimenticare il matrimonio e il divorzio. Ma evidentemente non aveva funzionato, nonostante l’arredamento e il lussuoso tocco nuziale che aveva dato alla casa, quindi era partita per l’Europa con i miei sei mesi di affitto anticipato e ora io dormivo nel letto che le aveva forse ispirato grandi speranze. Uno dei tocchi di creatività supplementare dell’appartamento erano due banderillas vere conficcate nella groppa del toro del poster sopra il bar, appese al soffitto con due fili invisibili. Tutto sommato era un ambiente piuttosto pittoresco, con quella camera da letto nuziale e in soggiorno le litografie dei tori con gli arpioni piantati nel corpo e nell’armadietto delle medicine un assortimento quasi completo di creme per il viso e deodoranti. Però purtroppo quand’ero di cattivo umore quella sua carineria mi faceva venir voglia di ammazzare qualcuno e ogni tanto provavo il bisogno di ricostruire le scene inevitabili che dovevano essere filtrate all’esterno quando la mia padrona di casa aveva disperatamente cercato di superare il lutto matrimoniale.
Le pareti non erano esattamente spesse: sentivo la coppia di sopra, un russo magro e spigoloso che dirigeva un ristorante tipico e sua moglie che portava alle orecchie dei cerchi d’oro immensi; o il pubblicitario di fianco, contro la cui porta tendeva pericolosamente ad accumularsi una pila di giornali intonsi; e sul retro due ragazze, bionde e dall’aria fresca, che lavoravano in una fabbrica aeronautica e dividevano l’affitto. Erano questi gli inquilini che ogni tanto riuscivo a intravedere. Non scoprii mai chi fossero gli altri abitanti dell’edificio; ne sentivo dei frammenti sonori: i cubetti di ghiaccio che tintinnavano, i tubi di scappamento delle auto o, la notte tardi, una bestemmia più o meno disinvolta se qualcuno rompeva qualcosa. Non erano particolarmente sfuggenti e non facevano sforzi particolari per isolarsi, ma avevo scoperto che c’era qualcosa di invisibile in tutti coloro che abitavano in città.

4

Feci una doccia bollente e andai a letto. Ogni tanto in strada passava un’auto; ogni tanto un uccello cantava su un albero. Nel buio non mi sentivo perso o disperato e nemmeno infelice. Mi bruciava un po’ la gola, ma perché fumavo troppo: c’era dell’ironia nel fatto che quella fosse la mia unica preoccupazione mentre me ne stavo lì disteso al buio. Ormai venivo a stare in quella casa, a fasi alterne, da cinque anni. Lavoravo per qualche mese in uno degli studios e poi tornavo a New York. Non era una situazione scomoda. Non mi sentivo, o almeno non credevo di sentirmi, superiore alle cose che preoccupavano la gente di qui. In quel momento la città era piena di persone che, a letto, pensavano con intensità appassionata, inesauribile e quasi violenta a diventare famose se non lo erano già, e a diventarlo di più se già lo erano; o a diventare ricche se non lo erano già, o più ricche se già lo erano; o potenti se non lo erano già, e più potenti se già lo erano. Certe volte, la forza dei loro desideri mi colpiva. Avevano qualcosa di legittimo, ogni tanto. Ma almeno nei miei pochi anni di andirivieni dalla città, avevo maturato l’impressione che in fondo ci fosse qualcosa di ridicolo e insignificante perfino in chi possedeva cose tanto agognate da chi invece non le aveva. Mi era difficile dire perché. Forse soltanto una cecità e un’indifferenza personali mi impedivano di vedere quanto potesse essere gratificante essere potenti o famosi. Comunque il denaro non dava ciò che tutti supponevano, e sulla faccenda ero convinto di poter parlare con una certa, piccola cognizione di causa perché per parecchi mesi l’anno guadagnavo uno stipendio leggermente superiore a quello del vicepresidente di una banca rispettabile. Non parlavo più con la voce sospetta della povertà. La mia ostilità, se ne nutrivo ancora, verso i ricchi, ora sembrava sgorgare da un’altra fonte: la sensazione, non meglio identificabile, che ci fosse qualcosa di sinistro nel modo in cui questa gente viveva. Ma, in fondo, come poteva la loro vita essere sinistra? Che male poteva fare un Braque acquistato in una galleria d’arte di Parigi per essere appeso sopra il divano basso, alla parete pallida? Che pericolo poteva scaturire dall’immensa quantità di dischi accumulati in soggiorno o dallo studio con il caminetto di mattoni e la scrivania immacolata? Perché avrebbe dovuto deprimermi che sul patio, accanto a dieci metri di piscina, ci fosse un enorme frigo pieno di Coca-Cole eternamente ghiacciate e di grappoli d’uva tenuti perfettamente refrigerati da un domestico? Perché insistevo nel reagire così stranamente a tutte le loro comodità, a tutti i loro acquisti, alle loro rarità, alle loro case fresche, grandi e invidiabili? Con più probabilità era un problema mio; forse dopotutto non erano affatto sinistri. Ma quel genere di voracità, quell’insaziabilità emanavano un’aura sinistra. Be’, io comunque non mi sarei lasciato divorare. La mia testa su un piatto da La Rue’s; il mio fegato in un pasticcio da Chasen’s.
E poi ero convinto che mi avrebbero trovato indigesto; o almeno, lo speravo. Ma bisognava stare attenti. Estremamente attenti. Se non stavi attento in un batter d’occhio rischiavi di finire infilzato su uno spiedo, arrostito sul barbecue e servito su un vassoio.
Intanto, fuori, nella notte assurdamente semitropicale, crescevano i gerani. Le chiocciole, con le loro minuscole corna, avanzavano un centimetro alla volta sui vialetti di cemento. I banani fiorivano lungo i bordi dei parcheggi e c’erano coppie di inseparabili dentro i garage trasformati in monolocali da scapolo nei piccoli canyon dove, anche ora, scendevano a nutrirsi le linci e i procioni frugavano nei bidoni della spazzatura.
Pensai a mia moglie. Era lontana. La lontananza in sé era positiva. Pensai che forse ero eccessivamente implacabile. Lei era quello che era, io ero quello che ero. In fondo, a pensarci bene, era questa la cosa più intollerabile. Se soltanto non fosse stata, ogni tanto, quella che era sempre. Se si fosse rilassata un po’ o se l’avesse piantata un po’ o se ogni tanto avesse preso una boccata d’aria. Dio, il matrimonio. No: non era il matrimonio. Anche a un esame più approfondito, non esisteva altra istituzione con cui sostituirlo. Pareva non esistesse altro che il matrimonio, a pensarci bene, e quando ci pensavi, mio Dio, non esisteva davvero altro? Quello, e metter su famiglia. Quello, e guadagnarsi da vivere. Quello, e chiamare il carro funebre.
Avrebbe voluto raggiungermi: io l’avevo convinta a non farlo. Ma avevo avuto dei problemi a persuaderla. Non le piaceva molto l’idea che restassi solo per quattro mesi. E ogni volta che partivo le piaceva meno. Con gli anni il mio bisogno di partire da solo si era acutizzato. Ora era arrivata al punto che raramente metteva in discussione le complesse ragioni dietro la mia partenza; diventava sempre più aggressiva, ormai. Immaginavo che qualcuno le avesse detto che doveva puntare i piedi, che qualcuno le avesse suggerito che doveva condividere la mia vita, e i miei viaggi sempre più sporadici. Tuttavia ancora una volta ero riuscito a partire da solo.
Da solo; ormai era l’unica passione rimasta viva dentro di me, l’unica autentica ossessione. Speravo di avere imparato, con il trascorrere degli anni, gli anni cattivi, ad avere una certa pazienza, e credevo di essere diventato riservato, e anche perseverante, virtù che mi erano sempre profondamente mancate, e pensavo che ormai fosse passato il tempo in cui mi sfinivo di futili ribellioni. Adesso, da una fredda distanza, dalla scarsa autorità che avevo acquisito, quelle ribellioni mi sembravano sciocche e vane, e la qualità, la caratteristica distintiva che reputavo più preziosa era l’astuzia. In passato c’era stata troppa impulsività cieca; troppe ferite inflitte in maniera indiscriminata; troppe volte avevo colpito me stesso e gli altri, causando grande infelicità. Ora combattevo, o almeno così mi sembrava, una guerra più solida, anche se più limitata e circospetta, che consisteva soprattutto in caute ritirate e consapevoli ripiegamenti.
Mi ero quasi addormentato quando mi resi conto all’improvviso che mi era caduta di mano la sigaretta. La coperta cominciava a fumare. Era la terza volta che mi succedeva, quella settimana. La spensi attentamente nel posacenere accanto al letto. Nel buio l’uccello continuava a cantare con voce chiara. Ero felice di essere solo, che l’altra metà del letto fosse vuota, che l’uccello cantasse, che al risveglio l’appartamento sarebbe stato ugualmente silenzioso. Per un attimo provai una momentanea riluttanza a addormentarmi, una strana paura del sonno. Pensai che forse era per via dell’episodio della ragazza sulla spiaggia. Mi tenevo troppo aggrappato a qualcosa. Che idiozia: non c’era nulla di cui avere paura, e poi cominciai a sentirmi scivolare lontano, lentamente, mentre il canto dell’uccello sfumava nella vulnerabilità del sonno.

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il mio viso davanti a voi
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
  11. 8
  12. 9
  13. 10
  14. 11
  15. 12
  16. 13
  17. 14
  18. 15
  19. 16
  20. 17
  21. 18
  22. 19
  23. 20
  24. 21
  25. 22
  26. 23
  27. 24
  28. 25
  29. 26
  30. 27
  31. 28
  32. 29
  33. 30
  34. 31
  35. Copyright