Quel fascista di Pansa
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Quel fascista di Pansa

  1. 240 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Quel fascista di Pansa

Informazioni su questo libro

Gli italiani della mia generazione (sono nato nell'ottobre 1935 e ho 83 anni) portano sulla gobba una colpa che non gli verrà mai cancellata. È quella di essere stati fascisti. A nostra difesa va detto che era quasi impossibile non esserlo. Certo ci sono state delle minoranze eroiche di oppositori. Ma il regime di Benito Mussolini si è rivelato molto pervasivo, lasciando la sua impronta nell'intera società italiana. Anche il Pansa è stato fascista per un paio di anni, dai sei ai sette, quando frequentava la prima elementare. Il bambino che vedete in copertina mentre fa il saluto romano sono io. Indosso la divisa di figlio della Lupa, il primo gradino dell'organizzazione della gioventù mussoliniana. La fotografia è stata scattata da mio padre Ernesto nel giugno 1943. Nell'autunno di quell'anno sarei diventato un balilla, ma in luglio il regime fascista cadde e non mi fu possibile continuare la mia carriera di militante. Conservo quella piccola foto e ho chiesto alla Rizzoli di metterla nella copertina di questo libro un po' strano. Racconta quanto mi accadde dopo aver pubblicato nel 2003 il mio lavoro più noto: Il sangue dei vinti. Era dedicato alle vendette compiute dai partigiani trionfanti sui fascisti repubblicani sconfitti. Ed ebbe un successo di vendite travolgente che né io né l'editore ci aspettavamo. Segnò l'inizio di una serie di vicende che in qualche modo riflettono l'Italia entrata nei nevrotici anni Duemila. Prima di tutto non sono più stato ritenuto un rosso come credevo di essere, bensì un nero: Pansa il fascista ha gettato la maschera. Questo accese la rabbia di una serie di eccellenze presunte democratiche, più ridicole che tragiche. Venni aggredito e messo all'indice da parrocchie politiche che prima stravedevano per me e volevano eleggermi in Parlamento. Troverete tutto in questo libro. Raccomando agli eventuali lettori di considerarlo soprattutto un ritratto del mondo di oggi dove i faziosi e i pagliacci siedono accanto a persone serie che hanno dimostrato di avere fiducia in me narrandomi le loro storie. Infine c'è una parte del libro dove ha il sopravvento l'Italia che di solito sta in si silenzio. Presenta una scelta delle tantissime lettere che mi sono arrivate dopo i Vinti. Scritte da italiani che mi ringraziavano o mi insultavano con rabbia. Un test che garantisce la verità dei miei racconti. G.P

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2019
Print ISBN
9788817109321
1

Figli dell’Aquila

Una mattina dell’ottobre 2018, mentre stavamo facendo la prima colazione, mia moglie Adele mi disse: «Ieri sera un giornalista tuo amico che ci conosce da sempre mi ha chiesto se tu o io ci eravamo ricordati di un anniversario…».
«Quello delle nostre nozze?» domandai a Adele con un sorriso.
Lei mi replicò: «Non si tratta del nostro matrimonio, ma di una ricorrenza diversa, che però ha contato molto nella nostra vita: la pubblicazione di un libro al quale entrambi teniamo tanto, Il sangue dei vinti. Dedicato al terribile dopoguerra italiano e agli orrori compiuti non dai tedeschi e dai fascisti, ma dai partigiani che intendevano farla pagare molto cara agli avversari sconfitti».
Adele continuò: «Il sangue dei vinti era uscito per la Sperling & Kupfer nell’ottobre del 2003, esattamente quindici anni fa. La domanda del tuo collega mi ha messo sui carboni ardenti. E mi sono chiesta se non era il caso di scrivere un libro su quella esperienza, rimasta unica nel nostro lavoro di autori. Per raccontare come mai ci eravamo avviati lungo una strada inaspettata, che ci ha assicurato un grande successo editoriale, ma anche una tempesta di polemiche che hanno preso di mira soprattutto te, marchiato come un fascista rimasto al coperto per anni e adesso emerso, rivelando tutte le sue nequizie…».
«Già, una tempesta di accuse senza fondamento. Certo è che quel successo editoriale, almeno noi, non lo avevamo mai visto. Abbiamo venduto moltissime copie dei Vinti: quattrocentomila alla fine del 2003, per non contare le migliaia nel 2004 e negli anni successivi» dissi a Adele. «La metà dei nostri diritti d’autore è andata a te, com’era sacrosanto che fosse. In compenso la bufera di insulti si è scatenata tutta su di me. Credo che esista ancora una traccia di quel bombardamento: le tante lettere che ci hanno spedito molti lettori del Sangue dei vinti. Se non ricordo male una parte di queste era davvero velenosa…
«Immagino che tu le abbia conservate» dissi ancora a Adele. «Conosco la tua fantastica mania per l’ordine. E prima o poi me le presenterai, osservando: Giampa, guarda lo sconquasso che hai combinato! Sei diventato famoso per questo. Hai scritto tanti libri, forse troppi, ma resterai nella memoria di molti per la tua ricerca sul primo dopoguerra italiano e per il mattatoio che ne emerse!»
«Dunque non ti lamentare degli insulti che hai ricevuto!» mi provocò lei, implacabile. «Eri un giornalista famoso, considerato di sinistra, ma che aveva osato scrivere un libro di destra, per ottenere dei vantaggi dal potere impersonato allora da Silvio Berlusconi. Rammento che i trinariciuti rossi, per usare una famosa immagine sarcastica coniata nel dopoguerra dal grande Giovannino Guareschi, urlarono per settimane che il Cavaliere ti avrebbe affidato la direzione del “Corriere della Sera”…»
«Una sciocchezza ciclopica» replicai, «dal momento che il primo quotidiano italiano non è mai stato del Berlusca. Ma vedo che la tua ottima memoria non sbaglia un colpo. E allora ne approfitto per chiederti se ricordi come ci è venuta l’idea di scrivere Il sangue dei vinti…»
Adele non ebbe incertezze: «È nato, se così si può dire, dai Figli dell’Aquila, il tuo libro precedente, uscito nell’autunno del 2002. Aveva come protagonista un personaggio inventato, che si muoveva nell’epoca della guerra civile, descritta con molto realismo. Era un giovane di Parma che, dopo l’8 settembre 1943, aveva fatto la scelta di arruolarsi nelle file della Repubblica sociale. Per raccontare la sua storia ti facevi accompagnare da un’altra figura nata dalla tua fantasia: una pediatra di Padova, un medico ottantenne che era stata la fidanzata del ragazzo».
Dissi a Adele: «Mi fai tornare alla mente un fatto che poi si è ripetuto tante altre volte. Dopo l’uscita del libro, venni assediato da molte telefonate. Mi chiedevano di continuo l’indirizzo della signora e il suo nome vero. Nessuno voleva credermi quando spiegavo che si trattava di un personaggio di carta. Pensavano che volessi rispettarne la privacy, invece era soltanto il frutto della mia fantasia di autore senza padroni. L’avevo creato per rendere più scorrevole il mio racconto, ma forse era davvero realistico».
Adele mi confessò: «Io ascoltavo quelle telefonate e mi divertivo molto nel sentirti alle prese con l’insistenza incredula di chi ti stava chiamando. Purtroppo per loro la pediatra non esisteva. Se fosse stata un personaggio reale, scommetto che nonostante l’età qualche corteggiatore l’avrebbe trovato!
«Ma veniamo alla tua domanda sull’origine del Sangue dei vinti» proseguì lei. «Eravamo a Colorno dal nostro amico Alberto Panciroli, il libraio con il negozio all’ingresso del vecchio Ospedale psichiatrico restaurato e trasformato in centro polifunzionale. Dopo l’abituale presentazione seguita dalla lettura di alcuni brani del libro, un signore seduto in seconda fila si era alzato e aveva dichiarato con voce sicura: “Dottor Pansa, io sono un figlio dell’Aquila”.»
Ricordai a Adele: «Abbiamo poi saputo che quel signore era il veterinario comunale di un paese confinante con Colorno. Quando lui aveva finito di parlare, alle sue spalle si erano alzati un secondo signore e poi anche un terzo che, con lo stesso orgoglio, si limitarono a ripetere di essere pure loro figli dell’Aquila. Insomma, nel corso della guerra civile avevano combattuto tutti e tre per la Repubblica sociale di Benito Mussolini».
«Che cosa ti aveva colpito nei loro interventi?» mi domandò Adele.
«L’assoluta serenità nel dichiarare di essere stati fascisti repubblicani e dunque della parte che aveva perso la guerra. Non erano né rammaricati né aggressivi. Forse vivevano quel loro passato nel modo giusto. Mi sembrava dicessero: non tutte le persone la pensano nello stesso modo. Noi stavamo in guerra e abbiamo fatto una scelta, giusta o sbagliata che fosse. Chi si è imboscato non merita il vostro rispetto. Noi sì.»
«A Colorno stavo seduta in prima fila» raccontò Adele. «E ti confesso di aver sentito un brivido di emozione, come succede quando l’istinto ti avvisa che qualcosa di nuovo sta per accadere. Era in assoluto la prima volta che una persona prendeva la parola in pubblico, e non nella sede di un partito di destra come il Movimento sociale, dimostrando di non vergognarsi della sua militanza nella Rsi, anzi rivendicandola con orgoglio.
«Quanti altri come lui potevamo averne incontrati in occasione delle tantissime presentazioni dei tuoi libri? Penso ai romanzi ambientati negli anni della guerra civile, per esempio I nostri giorni proibiti, che ti avevano fatto vincere il premio Bancarella. O anche alle Notti dei fuochi. Eppure i cosiddetti ragazzi di Salò erano sempre rimasti in silenzio e in silenzio avevano assistito alle contestazioni nei tuoi confronti da parte dei soliti megafoni del sinistrume presenti in sala.»
«Non rammento se, dopo Colorno, anche altrove ci siamo trovati di fronte allo stesso atteggiamento da parte di qualcun altro» dissi a Adele. «Forse ricordo male, però mi pare di no…»
Lei osservò: «Penso che quello sia stato il primo e unico caso. Però I figli dell’Aquila erano stati accolti con favore dovunque. A ogni presentazione, il pubblico era numeroso. E quanto fosse importante la breccia che avevamo aperto nel silenzio dei vinti lo dimostravano le confidenze sottovoce di chi veniva a farti firmare il libro. Sembrava non volessero più andarsene…».
«Ecco un fatto che mi colpì molto» confessai a Adele. «In chi mi avvicinava avvertivo il bisogno di parlare delle sue sofferenze, di scrollarsi di dosso l’ingiustizia del silenzio imposto dai vincitori. Ed è stato proprio allora che è scattato qualcosa che mi ha fatto pensare di dedicare il libro successivo proprio ai fascisti sconfitti. Dopo aver scritto tanto sulla Resistenza, a partire dalla mia tesi di laurea sulla guerra partigiana tra Genova e il Po, ho deciso di occuparmi degli altri. E di quello che era accaduto ai vinti dopo il 25 aprile. Ma di sicuro non immaginavo il rumore che avrei provocato…»
«Ti ho visto lavorare sul campo con una intensità che non prevedevo» ricordò Adele. «Durante ogni viaggio di presentazione dei Figli dell’Aquila, saccheggiavi le librerie del posto. Abbiamo riempito borse e valigie con opuscoli, pubblicazioni di storia locale e di memorie private che sono andate ad aggiungersi alla tua biblioteca già parecchio fornita. Ritornato nella nostra casa romana, hai iniziato subito a fare schede, a immaginare delle scalette, a scegliere il materiale che poi avresti utilizzato per il libro.»
Confessai: «Prima ancora di arrivare alla stesura dei Vinti, la fatica più grande è stata rileggere tutto e poi scegliere le vicende da mettere nel libro. Ordinare il materiale capitolo per capitolo. Approfondire le storie più interessanti ed evocative. L’ossatura era già pronta nelle prime settimane del 2003 e ho iniziato subito a scrivere, durante le pause del mio lavoro all’“Espresso”, di domenica, durante le vacanze. Dovevo portarmi avanti, rimandando alla primavera i viaggi necessari a fare i sopralluoghi. Nelle città, nei paesi, nelle frazioni, lungo le strade, nei cimiteri. Alla ricerca di tracce e di testimonianze dirette raccolte dalla voce di chi aveva perso la guerra civile. Loro ci hanno sempre accolto con amicizia. Dimostrando che, quando la memoria non è prigioniera dell’ideologia, a prevalere è la pietà umana».
2

Sconfitti e in fuga

Ho fatto in tempo a conoscere molti reduci della Repubblica sociale, quelli che poi ho chiamato i Figli dell’Aquila. La maggior parte mi ha cercato dopo l’uscita del Sangue dei vinti. Avevano letto il libro con trepidazione e con l’ansia nel cuore, come mi disse uno di loro. Il motivo mi venne spiegato con sincerità e senza cambiare le carte in tavola.
Dal momento che tutti mi consideravano un giornalista di sinistra, per di più al lavoro in testate come «Repubblica» e «L’Espresso», erano convinti che avessi scritto il solito polpettone sulla guerra civile. Una storia truccata, dove i buoni erano sempre i partigiani, mentre i cattivi avevano una sola bandiera: quella nera del fascismo di Salò.
Dunque la loro sorpresa fu grande. Il Pansa aveva scritto un libro molto diverso da quelli sfornati dalla pubblicistica rossa o antifascista. Un libro che raccontava dei vinti, ossia di loro. Un libro che per i partiti che pure io votavo equivaleva a un reato di alto tradimento. Così grave da essere punito con un assalto senza precedenti all’autore e al suo scartafaccio indegno.
Come racconterò più avanti, il travolgente successo dei Vinti nasceva da molte ragioni. Prima su tutte i tanti lettori che non conoscevano i miei lavori precedenti, ma adesso scoprivano che ero un giornalista onesto. Molti di loro mi scrissero per ringraziarmi. Altri mi raccontarono vicende terribili. Sperando che aiutassero a completare un racconto del primo dopoguerra e della sorte toccata ai numerosi italiani che avevano combattuto per Mussolini.
Quanto stava accadendo dopo la pubblicazione dei Vinti non mi stupì. Sapevo bene che i reduci di Salò erano molti. La retorica antifascista sosteneva che erano appena quattro tipacci carichi di rancore che negli anni della guerra civile erano stati al servizio delle SS naziste. Ma io ne avevo incontrati parecchi nei quotidiani degli anni Sessanta e Settanta. L’epoca che mi aveva visto iniziare il lavoro del giornalista, in testate come «La Stampa» e «Il Giorno».
Nel quotidiano della Fiat il mio caposervizio era Bruno Marchiaro, che aveva combattuto da partigiano garibaldino nelle valli di Cuneo. Ma un suo primo cugino, Franco Marchiaro, il corrispondente del giornale da Alessandria, era stato un milite della Brigata nera. Mi capitava spesso di parlare con lui al telefono, per avere dei chiarimenti sugli articoli di cronaca che ci inviava. Diventammo amici. Un giorno gli chiesi in che modo si era conclusa per lui la guerra civile. E Franco mi consegnò un lungo racconto che iniziava dall’esodo dei repubblicani da Cuneo e poi da Torino. Una storia che pochissimi conoscevano. Ve la propongo con le sue stesse parole.
Mi chiamo Franco Marchiaro e quando la guerra civile era iniziata da poco non avevo ancora compiuto diciotto anni. La mia era una famiglia della piccola borghesia della provincia cuneese. Mio padre era sempre stato devoto al regime fascista, però non aveva voluto iscriversi al fascio repubblicano. Il motivo? Era contrario alla guerra fra italiani. Io invece aderii subito alla Repubblica sociale: volevo cancellare la nefandezza dell’8 settembre, riscattare il tradimento, combattere per l’Italia contro gli inglesi della perfida Albione e i capitalisti americani.
Ero uno studente liceale e cercai di arruolarmi nella Decima Mas. Ma ero molto miope, lo attestavano anche gli occhiali che portavo, dalle lenti spesse. E alla visita militare mi scartarono. Fui costretto ad accontentarmi di fare lo scritturale nella Divisione Italia, una delle unità comandate dal maresciallo Graziani e addestrate in Germania.
Nel dicembre del 1944 ritornai a Cuneo, nella mia città. Sempre per poter combattere, mi arruolai nella Brigata nera locale. E lì rimasi sino alla fine della guerra. Facevo sempre lo scritturale e non partecipai a nessun rastrellamento. E neppure agli interrogatori dei partigiani catturati che di solito diventavano sedute di tortura.
Ma ormai la guerra stava finendo. Noi della Brigata nera potevamo sperare di salvarci soltanto lasciando il prima possibile la città dove fino a quel momento ci eravamo sentiti i padroni del vapore. E la nostra fuga da Cuneo iniziò la notte del 18 aprile 1945 con una colonna di camion diretta a Torino, carica di masserizie. Dovevamo accompagnare a Milano e poi nel famoso ridotto armato della Valtellina, un miraggio dal momento che non esisteva, le famiglie del prefetto, e del segretario federale, qualche gerarca e alcuni ufficiali. Più una trentina di civili, soprattutto donne e bambini.
Io facevo parte della scorta con altri cinque militi della Brigata nera e venticinque uomini della Guardia nazionale repubblicana. Per dirla in parole povere, eravamo quattro gatti. Attorno a noi avvertivamo una sensazione di disastro senza rimedio. Avevamo anche saputo che prestissimo ci sarebbe stato un ripiegamento totale dei tedeschi e delle nostre truppe.
Poco prima della partenza da Cuneo, mio padre venne a parlarmi angosciato: «Mi hanno detto che vi ritirate. Non puoi scappare. Se ti prendono con addosso questa divisa, ti fanno la pelle!». Pensai che papà avesse ragione. Ma non sapevo dove andare. E decisi di seguire la sorte degli altri camerati.
La colonna partita da Cuneo arrivò a Trofarello senza incidenti. Qui ci spararono da un campo di meliga, noi rispondemmo con qualche raffica a casaccio e proseguimmo. Verso le undici di mattina del 18 aprile entrammo in Torino. La città era come morta, i tram fermi, nessuno per le strade. Ci dissero che era stato proclamato uno sciopero generale contro di noi.
Avevamo contro migliaia di operai della Fiat e di tante altre fabbriche. Erano una forza che faceva paura, anche perché sobillata dai capitalisti torinesi, a cominciare dal professor Valletta e dalla famiglia Agnelli. Tutti protetti dalle missioni inglesi che avevano già preso contatto con i poteri forti della città, compreso l’Arcivescovo e i preti.
Ci domandammo che cosa fare. Discutemmo a lungo tra noi camerati, poi si decise che bisognava restare uniti: era l’unica garanzia per salvare la pelle e non incappare nelle vendette d...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. A chi legge
  4. 1. Figli dell’Aquila
  5. 2. Sconfitti e in fuga
  6. 3. Una donna speciale
  7. 4. Un nome, un libro
  8. 5. Scrivere la guerra
  9. 6. Documenti segreti
  10. 7. La profezia del Principe nero
  11. 8. L’Uomo di Cuneo
  12. 9. Un comandante smemorato
  13. 10. Sconosciuto 1945
  14. 11. Rovescisti
  15. 12. Crescere senza padre
  16. 13. Parolai rossi
  17. 14. Il compagno Simone
  18. 15. Assalti
  19. 16. Quel fascista di Pansa!
  20. 17. Senza Bestiario
  21. 18. Fanny e le altre
  22. 19. I nemici dell’Anpi
  23. 20. Un Verde per amico
  24. 21. Confessione a due
  25. Caro Signor Pansa, le scrivo…
  26. Copyright