Bruciarsi lascia il segno. Cicatrici profonde.
Il male esiste.
Da piccolo mi dicevano sempre la stessa frase: non si gioca col fuoco. Ma a me piaceva quella fiamma, e così ci ho giocato di nascosto fino a quando una bottiglia piena di alcol non si è incendiata tra le mie mani. Giochi stupidi che nel tempo spariscono. Ma resta l’atteggiamento che poi ti porti dentro, quella stolta convinzione che si riassume bene nella frase ce la faccio da solo, so quando smettere. E così ci è mancato poco che prendessi fuoco per davvero.
Poi accade che ti venga detto qualcosa che non dimentichi più e che ti cambia, per sempre:
È il caso che vi mettiate bene nel cuore che sopra e dentro di voi c’è una intensa lotta, che mai dorme. Vivete però con una consapevolezza misera. Il topo vi precede nel percepire gli eventi invisibili che si manifestano in continuazione. Il vostro sentire non è solo affar vostro, c’è un progetto di grazia che prevede la vostra presenza, il vostro contributo, ma, se non vi risvegliate come potrete accorgervi delle strategie che il nemico della vostra libertà trama su di voi, utilizzandovi?
Mettiamoci bene in testa che ogni volta che uno di noi dà spazio all’azione del male, il male fa goal. Nessuno sfiderebbe da solo una squadra di campioni internazionali, allora perché la maggioranza di noi lo fa continuamente?
Ci manca la consapevolezza di ciò che è il male, di come agisce e del suo fine ultimo. Lo abbiamo dimenticato. Per tale ragione un numero impressionante di anime perde la partita e la propria libertà, anche se questo sterminio è sapientemente camuffato per nasconderlo e confonderci.
«Preparati ad essere mite e insieme combattivo: mite verso il tuo simile, combattivo verso il Nemico.»1
Gesù non ci va per il sottile: «Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa è la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che vi entrano. Quanto stretta è la porta e angusta è la via che conduce alla vita, e pochi sono quelli che la trovano!» (Mt.7, 13-14).
Chi vuole incamminarsi verso la liberazione e la libertà ha solo questa scelta ed è necessario esserne convintamente fermi, intransigenti, prima di tutto con noi stessi. Ma per farlo dobbiamo capire.
«Se non ti adiri contro il Maligno, infatti, non puoi odiarlo quanto merita; poiché bisogna avere lo stesso zelo nell’amare la virtù e nell’odiare il peccato.»2
Non lavare i piatti la sera è sempre una fregatura: la mattina te li ritrovi incrostati, più difficili da pulire e, soprattutto, con una intera giornata davanti da affrontare. Al male non si deve lasciar palla nemmeno un istante, nemmeno per un’azione.
Il combattimento spirituale non si vince solamente conoscendo bene la materia, perché non è un fatto culturale. Per scendere in campo e giocare una partita degna d’esser vissuta, è imprescindibile affidarsi all’unico Mister che ha già vinto: il vero Alchimista in grado di trasformare il nostro piombo interiore in oro.
Chi sceglie di procedere contando solo sulle proprie forze, stia certo che il male lo fregherà. Parola di un coglionazzo che s’era detto spesso ce la faccio da solo, so quando smettere.
L’ira nell’arte è rappresentata a volte come un combattente cieco che vuole uccidere un nemico invisibile. Altre volte ha un coltello che va verso la propria gola. Se cavalca, sceglie una bestia che rappresenti la furia, come i felini, il cinghiale o l’orso.
Giotto, nella cappella degli Scrovegni, l’ha raffigurata come una donna disperata che si strappa le vesti e si denuda il petto come a cercare un po’ d’aria e di pace. La Bibbia, non a caso, la descrive come: «brevità di respiro» (Pr 14,17).
È l’ira, l’odio accecante e irrefrenabile che tende a distruggere tutto e tutti, persino se stessi. Lo fa perché, come evidenzia la psicologia, toglie i freni inibitori e impedisce momentaneamente di vedere le conseguenze delle proprie azioni; accentua un moto iniziale e lo rende totalizzante. Parte da una passione che ribolle improvvisa, che divampa come un fuoco esplosivo. Essa è, per eccellenza, il vizio visibile, perché trasfigura il viso, la voce, lo sguardo, fino a rendere feroce l’istinto, riportando l’uomo a uno stadio animale. Se gli altri vizi talvolta si possono nascondere dietro a un sorriso, l’ira non può farlo.
Sant’Agostino nella sua Regola esorta scrivendo: «Liti non fatene mai, o almeno troncatele al più presto, perché l’ira non cresca in odio trasformando una pagliuzza in trave». (cf. Mt 7, 3-5).1
Spesso confondiamo l’ira con la rabbia, sbagliando.
La rabbia è un’emozione che in potenza è utile, perché può dirci che cosa ci indigna. Se risponde congruamente a un problema ed è unita alla ricerca del bene, diviene zelo e genera la giustizia nel suo significato nobile. La rabbia infatti trasmette la forza per contrapporsi all’ingiustizia; senza di essa il rischio sarebbe quello di restare fermi, apatici, perciò può anche essere il sintomo che teniamo a qualcosa, a qualcuno, ed è l’opposto dell’indifferenza. Va direzionata e sottoposta alla razionalità, evitando l’emotività: esattamente ciò che io da bambino non ero in grado di fare.
Quando subivo un torto evidente, mi arrabbiavo, e fin qui tutto lecito. Poi però, pur restando scaramucce tra bambini, rispondevo alzando i toni e rincaravo la dose… Come quando, alla fine della terza elementare, stanco dell’ennesima derisione di un mio compagno attaccabrighe, presi bene la mira e gli lanciai addosso un grande sasso. In faccia. Lo vennero a prendere con l’ambulanza. Il preside chiamò i miei genitori e io venni dipinto come un bimbo problematico e violento.
A quel punto, dopo varie vicende di questo genere – che dall’esterno ora mi fanno un po’ sorridere ma al tempo mica tanto – cominciai una sistematica repressione della rabbia. Ricordo l’estate del 1993, al camposcuola. Dopo mesi di prese in giro da parte di un amico, lo menai fino a spaccarmi le mani. Risultato: prime ossa rotte ed estate della prima media con la mano destra ingessata.
La rabbia, se repressa e non direzionata, prima o poi diventa collera. Una brutta bestia che fa solo danni, anche grossi.
La collera è la rabbia diventata fisica. Collera letteralmente significa “bile”. Da questa concezione nascono frasi del tipo: “divorarsi il fegato dalla rabbia”, “essere verde di rabbia”. Il verde è il colore della bile e verdastro è il colore della persona alterata dalla collera: il corpo ha assorbito la rabbia ma non la dissolve. E la collera è un acido che devasta il nostro corpo.
«Qualcuno ti ha insultato? Tu benedici. Qualcuno ti ha percosso? Tu sopporta. C’è chi ti sputa addosso e ti considera come un nulla? Tu considera te stesso e pensa che sei fatto di terra e alla terra ritornerai.»2
Per questo un buon consiglio per chiunque a qualsiasi età è di non addormentarsi mai con un conflitto irrisolto nel cuore o, per lo meno, scioglierne la carica esplosiva attraverso un rinvio sano e consapevole. Frasi come: «Scusami, adesso sono alterato. Fammi dormire una notte e domani ne parliamo con calma» oppure «Vediamoci tra un paio di giorni e ne riparliamo con più serenità», sono espressioni semplici ma salvifiche.
Staccare un attimo le emozioni puntando sulla calma e sulla progettualità fa dei veri miracoli – miracoli che possono evitarci pure le ossa rotte!
Ma l’ira allora cos’è? L’ira è la collera diventata sistema: la distruzione dell’altro come se l’altro in qualche modo insidiasse con la sua sola presenza la nostra felicità.
Spesso l’incubatrice dell’ira è la tristezza, emozione che, a sua volta, viene alimentata dall’ira: sono energie biunivoche.
Tristezza che può nascere da un’aspettativa disillusa, da un obiettivo non raggiunto o da un piacere mancato, e in generale può radicarsi più facilmente nella persona che ha percezioni emotive sovradimensionate e vittimistiche. Un esempio? Può capitare d’innamorarsi e, per varie ragioni, di non poter/voler dire il proprio sentimento alla persona a cui si è interessati. Può capitare pure che si speri che l’altro si accorga del nostro amore per qualche fortunata congiuntura astrale. Può capitare poi che ci si crei mille aspettative e ci si costruiscano numerose idee personali e private sull’oggetto del nostro interesse (perché tale rischia di divenire l’altro: un oggetto su cui si ricamano mille fantasie). Tuttavia, quando il tempo passa e le congiunture astrali non si verificano e l’altro non ci fila di striscio, in noi può nascere dapprima una tristezza che poi diviene rabbia e che, infine, può esplodere in collera contro il povero malcapitato. Oltre che impetuosa, nei casi peggiori può anche essere fredda, generando il rancore e producendo il desiderio di vendetta.
Il rancoroso alimenta il suo malessere a causa di una visione parziale degli avvenimenti che rende i suoi pensieri pretestuosi, assolutizzando i pochi elementi di cui dispone. In ultima analisi si pone come un dio senza pietà: decide dell’altro negandone l’ascolto e giudicandolo dall’alto al basso senza possibilità di appello. Chi di noi è stato investito dal fuoco di un iracondo sa bene quale immane dolore è in grado di causare.
L’ira può anche essere subdola oltre che immediata, perché tende a distruggere l’altro prima dentro di noi. Cresce come un mostro: l’altro, il malcapitato, ci dà fastidio, tocca i nostri nervi scoperti, in primis l’orgoglio ferito, ferito però chissà da quanto e da chi. Difatti ci sono ragioni lontane che rendono tali gli animi iracondi, c’è una lotta che avviene ad altri livelli e che porta il malcapitato a subirne l’influenza e a divenirne succube. Ma non si dica che l’irascibilità è un aspetto della personalità: l’ira è un vizio, è un male diventato abitudine, ed è un vizio capitale, cioè che ci ruba dapprima la libertà e poi l’anima; come tale s’infiltra nel nostro vivere, s’intreccia con i nostri pensieri, si palesa nella sua abitudinarietà. Si nutre anche di cose apparentemente piccole, di quell’atteggiamento che ci induce magari a tagliare le gambe a qualche collega nel lavoro, a fare uno scherzo crudele o a dire frasi come: «Se l’è meritato!», «Finalmente soffre un po...