A fine pomeriggio, quando sta per cominciare l’ora di punta, Deepak ha già fatto tre viaggi. Un’andata e ritorno al settimo piano per far salire Mr Williams, cronista televisivo di Fox News. Un’altra per far scendere Mr Groomlat, il contabile che ha un ufficio al primo piano. E ora è diretto al sesto con il golden retriever dei Clerc, una coppia di francesi. La loro governante recupererà l’animale sul pianerottolo e darà a Deepak dieci dollari per il dog sitter in attesa giù nell’atrio.
Deepak guarda l’ora; di lì a poco lo chiamerà Mrs Collins. La vedova si ostina a chiudere la porta di casa a tripla mandata. Come se qualcuno potesse entrare nel palazzo senza che lui lo sappia. Ma le fissazioni degli inquilini del civico 12 di Fifth Avenue sono parte del suo pane quotidiano; anzi, costituiscono il suo pane quotidiano.
Dopo averla aiutata a togliere la chiave dalla serratura, Deepak accompagna Mrs Collins al piano terra per poi risalire subito. Miss Chloé lo aspetta davanti al cancelletto e lo saluta con un sorriso. Con ogni probabilità ci è nata, con quel sorriso sulle labbra. Entrando nell’ascensore gli chiede com’è andata la sua giornata, e lui risponde: «I soliti alti e bassi, Miss Chloé».
Portare la cabina perfettamente a livello con i pianerottoli è un’arte. Deepak la pratica a occhi chiusi, ma quando scorta Miss Chloé dal suo studio del primo piano all’appartamento dell’ottavo in cui abita ci mette ancora più attenzione.
«La signorina pensa di uscire, stasera?» chiede Deepak.
Non è una domanda indiscreta, si tratta solo di avvertire il collega del turno di notte, nel caso in cui Miss Chloé abbia bisogno di lui.
«No, un bel bagno caldo e poi a nanna. Mio padre è in casa?»
«Lo saprà appena entra, signorina» risponde lui.
Deepak professa due religioni: l’induismo e la discrezione. Sono trentanove anni che lavora come lift in quel signorile palazzo su Fifth Avenue, e mai una volta si è lasciato sfuggire la benché minima informazione sugli andirivieni degli inquilini, tanto meno con i loro familiari.
*
Il n. 12 di Fifth Avenue è un edificio in bugnato di otto piani, ciascuno con un appartamento per piano salvo il primo, che ospita due studi. Con una media di cinque andate e ritorni per piano al giorno, e tenuto conto della distanza tra un piano e l’altro, Deepak percorre 594 chilometri all’anno. Da quando ha cominciato a lavorare lì ne ha fatti 22.572. Nel taschino interno della redingote conserva religiosamente un taccuino in cui contabilizza i suoi viaggi in verticale come un pilota con le ore di volo.
Tra un anno, cinque mesi e tre settimane avrà raggiunto 23.448 chilometri, ovvero tremila volte l’altezza del Nanda Devi. Un’impresa e il sogno di una vita. Perché la «Dea della gioia», come chiunque sa, è la montagna più alta che si erge tutta in territorio indiano.
Completamente manuale, l’ascensore di Deepak è un’anticaglia; nell’intera New York ne restano solo cinquantatré così, azionati da una manovella. Ma per le persone che vivono nel palazzo è il simbolo di uno stile di vita.
Depositario di un savoir faire in via di estinzione, lui non sa se esserne orgoglioso o rattristato.
Ogni mattina Deepak entra al n. 12 di Fifth Avenue dall’ingresso secondario. Scende la scala del seminterrato e raggiunge il suo armadietto nel locale di servizio. Appende i calzoni troppo larghi e il maglione dai colori sbiaditi e indossa una camicia bianca, pantaloni di flanella e una redingote la cui pettorina esibisce orgogliosa, in passamaneria dorata, l’indirizzo del luogo di lavoro. Si liscia i capelli sottili all’indietro e sopra ci piazza il berretto, si dà un’occhiata nel piccolo specchio sulla porta dello stanzino e infine sale a dare il cambio a Mr Rivera.
Nella mezz’ora successiva lucida la cabina dell’ascensore. Prima il legno laccato, con uno straccio morbido e l’apposita cera, poi sulla manovella d’ottone. Salire sul suo ascensore equivale a un breve viaggio in un vagone dell’Orient Express, o – se si alza la testa ad ammirare l’affresco rinascimentale che orna il soffitto – a elevarsi al cielo nel feretro di un re.
Di certo, un ascensore moderno costerebbe molto meno alla proprietà. Ma si può quantificare il valore di un buongiorno o di una persona che ti ascolta sollecita? E quanto vale l’operato di un paziente mediatore di pace tra vicini di casa, o una parola gentile che ti illumina la mattinata? Oppure una persona che ti dice che tempo fa, che ha un pensiero per te il giorno del tuo compleanno, che veglia sul tuo appartamento quando sei in viaggio, che ti rassicura quando torni a casa da solo e hai tutta la notte davanti? Altro che mestiere, quello del lift è un vero sacerdozio.
Deepak ha alle spalle trentanove anni di giornate tutte uguali, o quasi. Tra l’ora di punta del mattino e quella del tardo pomeriggio sta seduto alla reception, nell’atrio. Se arriva un visitatore chiude il portone del palazzo e lo accompagna a destinazione. In più riceve pacchi e lettere e pulisce due volte al giorno la grande specchiera dell’ingresso e le vetrate del portone in ferro battuto. Alle 18:15, quando Mr Rivera viene a dargli il cambio, Deepak gli affida il suo regno. Ridiscende nello scantinato, appende la camicia bianca, i pantaloni di flanella e la redingote, appoggia il berretto sulla mensola, si riveste, si liscia i capelli all’indietro, si dà un’occhiata allo specchio e si trascina un po’ stanco fino alla metropolitana.
La stazione di Washington Square è poco frequentata, e Deepak trova sempre posto a sedere, ma è pronto a cederlo alla prima passeggera che sale, quando il convoglio si riempie alla stazione della 34th. Quando si svuota, sulla 42nd, Deepak si rimette a sedere, apre il giornale e legge le notizie fino a 116th Street. Poi si fa a piedi i settecento passi che lo separano da casa. Percorre questo tragitto mattina e sera, con il sole dell’estate e le piogge d’autunno, e le bufere di neve che imperversano sotto i cieli invernali.
Saluta la moglie alle 19:30 e cena con lei. Una regola a cui Lali e Deepak sono venuti meno solo una volta in trentanove anni. Lali allora ne aveva ventisei, e suo marito le teneva la mano in ambulanza mentre le contrazioni aumentavano. Quello che doveva essere il più bel giorno della loro vita si era trasformato in un dramma di cui non avevano mai più riparlato.
Un giovedì sì e uno no, Lali e Deepak si concedono una cenetta romantica in un grazioso ristorante a Spanish Harlem.
Deepak è affezionato alla routine che regola la sua esistenza quasi quanto ama sua moglie. Ma quella routine sta per avere fine proprio questa sera, mentre lui si siede a tavola per la cena.
*
Il volo Air India era appena atterrato su una delle piste del John Fitzgerald Kennedy. Sanji si alzò, prese la borsa dalla cappelliera e si affrettò verso la scaletta, ben contento di essere il primo a sbarcare. Percorse a grandi passi i corridoi dell’aeroporto, arrivando quasi senza fiato al controllo passaporti.
Un agente poco cordiale gli chiese la ragione del suo soggiorno a New York. Sanji rispose che si trattava di un viaggio di studio ed esibì la lettera della zia che gli faceva da garante. L’agente non si prese la briga di leggerla, ma alzò la testa per esaminare con attenzione il giovane che aveva di fronte. Ci fu quel momento di incertezza in cui, solo a causa del proprio aspetto, qualunque straniero può ritrovarsi in una saletta per essere interrogato e poi rispedito nel paese di origine. Ma alla fine l’agente si decise a timbrargli il passaporto, e dopo aver scarabocchiato la data di scadenza del suo permesso di soggiorno in territorio americano gli intimò asciutto di proseguire.
Sanji recuperò la valigia dal nastro trasportatore, superò i controlli doganali e andò dritto al punto di incontro dov’erano in attesa gli autisti di limousine. Individuò il tizio che reggeva un cartello con il suo nome scritto a mano. L’autista gli prese il bagaglio e lo accompagnò alla macchina.
La Crown nera procedeva regolare sulla 495, scivolando nel traffico scorrevole dell’ora serale. Sanji, affaticato dal lungo viaggio e cullato dal sedile morbido, moriva di sonno, ma ci pensò l’autista, desideroso di fare conversazione, a tenerlo sveglio. I grattacieli di Manhattan si stagliavano contro il cielo in lontananza.
«È qui per affari o per svago?» domandò l’autista.
«Una cosa non esclude l’altra» rispose lui.
«Preferisce il tunnel o il ponte?»
L’autista gli ricordò che Manhattan era un’isola, quindi bisognava scegliere come arrivarci. E gli assicurò che la vista dal Queensboro Bridge valeva ampiamente la breve deviazione.
«Viene dall’India?»
«Sì, da Mumbai.»
«Chissà, magari andrà a finire che farà l’autista anche lei, come me. È il lavoro che fa la maggior parte degli indiani che arrivano qui. Sui taxi gialli per cominciare, poi i più svegli passano a Uber, e una manciata di eletti arriva al volante di una limo come questa.»
Sanji lanciò un’occhiata alla targhetta fissata al portaoggetti. Accanto alla foto dell’autista c’erano il suo nome, Marius Zobonya, e il numero di licenza, 8451.
«A New York non ci sono dottori, insegnanti e ingegneri polacchi?»
Marius si grattò la testa.
«Non che io sappia. Ora che ci penso, però, il fisioterapista di mia moglie è slovacco» disse poi.
«La notizia mi riempie di gioia, dal momento che detesto guidare.»
L’autista non replicò, e Sanji controllò i messaggi sul cellulare. Il programma di quel soggiorno a New York si preannunciava fitto di appuntamenti. Tanto valeva liberarsi subito degli obblighi familiari. Le usanze imponevano che ringraziasse la zia che gli aveva così gentilmente fornito una lettera di raccomandazione. Gentile davvero, la zia, specie tenuto conto che non l’aveva mai incontrata prima.
«Siamo lontani da Harlem?»
«Harlem è grande» rispose l’autista. «Est o Ovest?»
Sanji recuperò la lettera e controllò l’indirizzo sulla busta.
«Dovrei andare al 225 East, 118th Street.»
«Diciamo un quarto d’ora» valutò l’altro.
«Ottimo, facciamo tappa lì, allora. Al Plaza andremo dopo.»
La limousine percorse la FDR Drive lungo l’East River, poi proseguì lungo la Harlem River Drive fino a un palazzo in mattoni rossi degli anni Settanta.
«Sicuro che è qui?» chiese Marius, dubbioso.
«Sì, perché?»
«Be’, perché Spanish Harlem è il quartiere portori...