Io e Silvia stavamo insieme da un anno, ma eravamo giovani e senza soldi, quindi non avevamo mai fatto una vacanza insieme.
Ci vedevamo varie volte a settimana. Di solito il lunedì, il giovedì e la domenica, giornata settimanale delle coppie.
Quando ci siamo conosciuti i social network non esistevano ancora, così era stata una conoscenza vissuta tutta dal vivo, con gli imbarazzi, gli sms e le telefonate.
Eravamo entrambi della provincia di Modena, stavamo a Vignola, un posto tranquillo in cui sembra ancora adesso di essere lontani dal mondo. Ci abitano quasi soltanto anziani, con il loro dialetto, le loro storie, le loro paure. Quando eravamo piccoli, non sapevamo niente di Bologna, di Milano, di Roma. Il nostro mondo era Vignola, e basta.
Al massimo qualche paese più in là, ma il cerchio era molto stretto.
Quando Silvia prese la patente, andammo una sera a Bologna e ci sentimmo come degli stranieri. Forse perché eravamo andati fin là per mangiare cinese.
In ogni caso, ce l’avevamo scritto in fronte che venivamo dalla provincia. Sembravamo sempre vestiti peggio degli altri, più brutti, più poveri, meno scaltri, meno contemporanei. Chissà, magari era una nostra impressione o forse era proprio così.
All’epoca ero all’ultimo anno di liceo scientifico, lei anche, ma in un’altra sezione. Invece del latino, della biologia o della filosofia, in testa io avevo il database completo di tutte le ragazze della scuola. E in più quello delle ragazze extra scuola, quello delle tipe con i fidanzati tamarri, e quello dei fratelli tamarri con le sorelle fighe.
Avevo un talento naturale.
Era come se in testa avessi un radar speciale.
Fin dalla prima superiore mi ero costruito tutto un catalogo.
Mentale ovviamente.
Quando stai in prima sei il classico sfigato e le ragazze vanno con quelli più grandi.
Quando stai in quinta, vanno con quelli più grandi comunque e anche le più piccole non scelgono te, quindi rimani sempre uno sfigato.
A quel tempo non ne capivo il senso, ma adesso guardando delle vecchie foto ho capito tutto.
Marco, anonimo ragazzino di provincia, Converse ai piedi come tutti, polo di una taglia troppo piccola, con le maniche lunghe che lasciano i polsi scoperti, capelli incollati, occhiali da vista e apparecchio ai denti dalla prima alla quarta.
Ero quella cosa là.
Sembra un classico.
Di carattere ero mite, silenzioso, educato e un po’ troppo conciliante.
Oggi basta aprire i giornali per leggere di mille casi di “bullismo”, in cui i potenti si rifanno sui più deboli. Anni fa invece non se ne parlava, ma col senno di poi, facendo due conti con i miei ricordi, sono stato bullizzato anche io.
Niente di che, qualche schiaffetto, qualche moneta sottratta, qualche umiliazione pubblica, ma ho retto e non mi sono mai lasciato destabilizzare.
La più figa della scuola era Sara.
Si diceva che frequentasse brutta gente, ovvero quei ragazzi che all’epoca per tutti erano come dei re.
Adesso vivono di spaccio e parlano sempre in dialetto.
Sara aveva le tette enormi, era la più sviluppata della scuola. Passeggiava in quei corridoi con un portamento da camionista, ma allo stesso tempo di una finezza innata. Un passo dopo l’altro, un’anca che oscillava a destra e poi a sinistra, e a noi sembrava Madre Natura.
Andava malissimo a scuola, aveva anche ripetuto un anno in prima.
Si legava i capelli in una coda molto stretta, che le tirava la pelle all’indietro e dava l’idea che si fosse fatta il lifting già a sedici anni.
Due dita di trucco sugli occhi e vestiti provocanti.
Lei non ci guardava neanche, tirava dritto e faceva finta di non sentirci.
Eravamo in tanti a sbavarle dietro, tutti praticamente.
Io scrivevo il suo nome sui muri dei bagni, sui banchi, chiunque in classe sapeva della mia passione.
I famosi bulli di cui sopra una volta mi portarono di peso da lei. Faccia a faccia.
Apposta per farmi fare una figura di merda davanti a tutti e specialmente davanti a lei.
Era l’intervallo, quei quindici minuti per mangiare due patatine o fumare le prime sigarette in cortile.
Erano in quattro, mi acchiapparono e mi spinsero avanti mentre Sara passava. Lei si fermò, mi guardò e non disse niente.
Gli altri gridavano: «Diglielo, Marco, diglielo».
Stavo per esplodere dalla vergogna.
Ero spacciato. Per lei sarei rimasto solo quel ricordo.
Il ricordo di un grande sfigato.
Sara alzò le sopracciglia come a dire: “E quindi?”.
E basta, io non aprii bocca e lei se ne andò con quel suo culo fasciato dai jeans.
Avevo dei gusti un po’ pornografici, ma a quell’età è normale, credo.
I miei innamoramenti erano sempre legati a qualche aspetto superficiale, puramente estetico.
Le combinazioni possibili erano tantissime.
Biondina, bassina, occhioni azzurri.
Rossa, lentiggini, minigonna.
Alta, labbroni, tette.
Che poi non erano neanche veri innamoramenti, solo quello che noi chiamavamo “il picchio”.
Un picchio in testa che ti massacrava.
Dalla mattina alla sera, un pensiero costante.
Una volta persi la testa per un anno intero per una ragazza che si chiamava Miriam.
Occhi chiari, pelle chiara, un metro e cinquanta, si vestiva come una bomboniera.
Per me era un angelo.
Tentai in circa 550 modi di farmi notare, ma niente. Sembravo invisibile.
Il fatto è che io volevo chiederle di vivere con me per tutta la vita, quindi architettai un piano per ritrovarmi da solo con lei.
Avevo studiato tutto.
Lei prendeva ogni giorno lo stesso autobus per venire a scuola, una volta individuati gli orari giusti dovevo solo presentarmi alla fermata con qualche minuto di anticipo per riuscire a parlarle.
C’era un dettaglio che avrebbe garantito il successo di tutta l’operazione: la mia amata maglietta dei Nirvana, quella nera con il logo giallo.
Mi stava benissimo, ma proprio bene, era la mia preferita.
Ci misi un po’ a convincermi che poteva funzionare, dopodiché finalmente scelsi la mattina giusta.
Era un lunedì di maggio, mi svegliai un’oretta prima per poter fare tutto con calma.
Aprii l’armadio ma la maglietta non c’era, mia madre l’aveva messa a lavare.
Operazione saltata.
Due giorni dopo, la maglietta era tornata al suo posto, perciò ci provai, ma di Miriam nessuna traccia.
Non la vidi né alla fermata del bus, né a scuola, chissà perché.
Allora rimandai.
E finalmente arrivò il momento giusto.
La scorsi da lontano, era sola, con lo zaino in spalla più grande di lei.
Respiravo al doppio della velocità normale, nella mia testa fece capolino la possibilità di mollare. Ma questi sono i momenti in cui devi metterti in gioco, devi saltare, e se cadi hai perso tutto.
Andai dritto verso di lei, con lo sguardo fiero, mi avvicinai e: «Ciao, io e te dovremmo vivere insieme tutta la vita, se ci prendiamo un caffè te lo spiego meglio».
La sua risposta cambiò la mia esistenza, mandò all’aria un intero anno di appostamenti e di reperimento materiale.
«No, grazie.»
Bene. Era una bella giornata.
Quel giorno bigiai, non ero dell’umore di andare a scuola.
Mi sentivo in lutt...