I
Giovedì 10 agosto 2000, ore 6:00
Vidjaevo
In un leggero avvallamento tra le colline, circondata da pini e betulle e schiacciata tra laghi immacolati e il Mar Glaciale Artico, la sgraziata struttura di una guarnigione russa appare alla vista alle prime luci del giorno. L’alba è impietosa a Vidjaevo. La valle è ingombra di grigi caseggiati di cemento ormai cadenti per l’incuria, e le strade che portano alla piazza centrale sono piene di buche e crepe. Se c’è gente che vive in questo angolo sperduto della penisola di Kola è solo perché qualcuno glielo ha ordinato: gli unici civili che possono accedervi sono i familiari dei marinai e degli ufficiali, oltre a qualche centinaio di operai della regione, il cui contributo è fondamentale per i rifornimenti e per il buon funzionamento della base. Tutti sono muniti di documenti e di speciali pass che consentono loro di varcare le barriere di sicurezza e la recinzione perimetrale. A chiunque altro è severamente vietato l’ingresso.
Non ci sono bar né ristoranti a Vidjaevo, e neanche cinema o palestre. Non c’è neppure una chiesa o una scuola. Questo segreto e desolato avamposto si trova a nord del circolo polare artico, centotrenta chilometri a nordovest di Murmansk. Mosca dista quasi duemila chilometri e le comunità più vicine ruotano tutte attorno a basi sottomarine. Gli adolescenti di Vidjaevo vengono mandati a vivere presso i parenti in qualche città; gli anziani trovano rifugio in luoghi dove il clima è più clemente. Restano solo i sommergibilisti, le loro mogli e i bambini troppo piccoli per essere allontanati. Quanti vivono in paese affermano che sia una comunità senz’anima. Vidjaevo conta diciottomila residenti, ma nessuno la chiama casa.
Durante il lungo e brutale inverno, la base è spazzata dal vento artico. In alcuni punti lungo la costa vi sono corde tese ai bordi delle strade, per consentire ai pedoni di aggrapparsi durante le gelide burrasche. Nella Flotta del Nord, la struttura di Gremicha è nota come «base dei cani volanti», poiché è risaputo che gli animali domestici della cittadina vengono sbalzati in aria dal vento violento. La gente del posto resta saggiamente al coperto, oppure si aggrappa alle corde per strada.
Fondata nel 1968, Vidjaevo è una delle varie guarnigioni che la marina russa ha edificato nella penisola di Kola negli anni più intensi della Guerra fredda. Per decenni, le mappe della regione non hanno mostrato alcuna indicazione dei luoghi in cui sorgevano le basi per i sottomarini; anche il più attento esame della cartografia d’epoca sovietica rivelava soltanto una serie di fiordi e insenature, e una linea costiera poco meno che deserta. Solo i centri più grandi erano indicati sulle mappe, seppur con diciture misteriose che facevano pensare a insediamenti militari: Base-35, Severomorsk-7, Cantiere-35, Murmansk-60. Il ragionamento ufficiale era che chiunque avesse bisogno di consultare una cartina o di chiedere indicazioni per raggiungere quei luoghi non aveva diritto di andarvi. Per gran parte della sua breve storia, Vidjaevo ufficialmente non è esistita.
La località è stata battezzata in onore di Fëdor Vidjaev, un povero pescatore della regione del Volga divenuto una leggenda durante la Seconda guerra mondiale come impavido capitano di sottomarini. L’8 aprile 1942 la sua unità era stata gravemente danneggiata da un cacciatorpediniere tedesco e Vidjaev aveva cercato con fatica di risalire in superficie e tornare alla base; con i propulsori fuori uso, aveva chiesto all’equipaggio di cucire una vela e legarla tra il ponte e il periscopio alzato, ma la spinta non era comunque sufficiente a raggiungere la terraferma. Stava per ordinare ai suoi uomini di abbandonare l’imbarcazione, quando erano stati raggiunti da un’altra nave sovietica. A quella missione erano seguiti ulteriori incarichi in scenari di guerra, durante i quali aveva inanellato un successo dopo l’altro contro la marina tedesca; poi, nell’estate del 1943, il sottomarino Šč-422 di Vidjaev era stato affondato con tutto il suo equipaggio. Per gli abili propagandisti di Stalin, Vidjaev incarnava una leggenda: il giovane pescatore del Sud, la cui astuzia e il cui coraggio si erano rivelati decisivi nello sconfiggere i nazisti nel teatro dell’Artico.
La base di Vidjaevo è raggiungibile da un’unica strada isolata che avanza serpeggiando nella penisola di Kola. Le sole forme di vita che si incontrano lungo il tragitto sono le betulle nane; per gran parte dell’anno rimangono coperte dal ghiaccio e dalla neve, il cui peso arresta la loro crescita, ma il semplice fatto che riescano a sopravvivere in un clima come quello ha un che di prodigioso. La severa bellezza del territorio sembra enfatizzata dalla consapevolezza che, in fondo a quella strada, si trovano una base militare e un arsenale nucleare. Per ragioni di sicurezza, il percorso non è illuminato ed è privo di segnaletica: è solo una striscia di asfalto che si snoda tra i boschi. Alcuni pannelli catarifrangenti, inchiodati agli alberi a bordo strada ad altezza del petto, assistono chi guida lungo il sentiero pieno di buche.
Quasi tutte le notti la base è circondata da un silenzio spettrale. In città, l’unico rumore è l’occasionale latrato di un cane che cerca avanzi di cibo. Sui pontili, invece, il permanente ronzio dei generatori è punteggiato dal passo delle guardie, che camminano avanti e indietro cercando di scaldarsi. Quei soldati proteggono i sottomarini a ogni ora del giorno o della notte da tentativi di sabotaggio o operazioni di spionaggio.
Il 10 agosto quel silenzio si ruppe subito dopo l’alba, quando la base si animò all’improvviso. Nella caserma e negli appartamenti i marinai indossarono in fretta le divise e infilarono un cambio nelle sacche di tela. Pochi minuti dopo si riversarono sulle strade, camminando a grandi falcate per scrollarsi di dosso il freddo del primo mattino. Alcuni autobus e camionette li caricarono e li condussero al porto.
Tra quei militari svegliati di buon mattino c’era anche il ventiquattrenne Sergej Tylik. Come per molti ufficiali di marina, l’unica cosa più forte del suo odio per la vita alla base era il senso di conquista che provava ogni volta che prendeva il largo. Gli sembrava di vivere al confine tra due mondi molto diversi: da un lato c’era la vergogna di abitare in una guarnigione desueta e fatiscente di cui a nessuno sembrava più importare; dall’altro l’orgoglio di lavorare su uno dei migliori sottomarini nucleari russi. Gli ufficiali erano soliti scherzare sul motivo per cui amavano il duro lavoro a bordo del Kursk: «Sai perché ci piace tanto andare in perlustrazione? Perché almeno non siamo costretti a stare sulla terraferma».
Figlio di un sommergibilista, Sergej aveva passato l’intera vita sulla penisola di Kola. Per lui servire nella Flotta del Nord era stato come entrare in un’attività di famiglia. Da bambino era rimasto estasiato dai racconti degli ufficiali che si riunivano a casa sua. Quando il padre tornava da lunghi viaggi in mare, la madre portava Sergej al molo per accogliere il suo ritorno. I suoi primi ricordi risalivano proprio a quel luogo, quando, tutto imbacuccato per ripararsi dal vento gelido, scrutava ansioso l’orizzonte in attesa di scorgere qualche segno che preannunciasse l’arrivo del sottomarino.
Quella mattina Sergej rivolse solo un breve saluto alla moglie Nataša e a Liza, la loro bambina di nove mesi. Prima delle missioni più impegnative anche il commiato sarebbe stato più lungo, ma quella era solo un’esercitazione, sarebbe stato lontano da loro per meno di una settimana e il sottomarino non avrebbe neppure lasciato le acque nazionali.
Il principale motivo d’orgoglio di Sergej era ormeggiato, con aria imponente e minacciosa, al molo numero otto. In quegli anni la Russia non aveva molto di che accendere l’entusiasmo di un giovane, ma quel sottomarino era diverso. Con il suo enorme doppio scafo e le imponenti paratie di acciaio che lo suddividevano in una serie di compartimenti stagni, i progettisti ritenevano il Kursk inaffondabile.
Era il settimo esemplare del Progetto 949A Antej della marina russa, una classe di sottomarini ribattezzata Oscar II nella nomenclatura Nato. In qualunque modo li si chiamasse, si trattava della più imponente classe di sottomarini d’attacco mai realizzata. Gli Oscar II erano progettati per svolgere un ruolo molto specifico in combattimento: braccare e distruggere le portaerei americane e i relativi gruppi da battaglia. La loro arma principale era l’Ss-n-19 Shipwreck, un missile da crociera supersonico antinave studiato per volare così veloce e così basso da riuscire a superare perfino la migliore contraerea navale occidentale.
Poche altre imbarcazioni erano state costruite in una situazione di scompiglio simile: nel corso dei tre anni della sua realizzazione, infatti, la nazione che era destinato a difendere si era autodistrutta. Il Kursk era stato concepito in epoca comunista, il progetto era stato approvato negli anni delle riforme di Michail Gorbačëv e la sua chiglia era stata realizzata durante la presidenza di Boris El’cin; alla fine, il sottomarino era però entrato in servizio non nella Voenno-morskoj Flot dell’Unione Sovietica, bensì nella Flotta del Nord della Federazione Russa.
L’allestimento del Kursk era iniziato nell’estate del 1992, sugli scivoli di un cantiere navale a Severodvinsk (città sul Mar Bianco non distante da Arcangelo), con un riparo di tela a proteggerne la riservatezza dai satelliti spia americani. Il progetto risaliva alla fine degli anni Settanta, quando l’Unione Sovietica aveva concepito una nuova classe di giganteschi sottomarini d’attacco, al fine di assicurarsi la vittoria in un’eventuale futura battaglia navale. Il Kursk era un apparecchio impressionante, alto quanto un palazzo di quattro piani e più lungo di due campi da calcio; in immersione, aveva un dislocamento di oltre ventitremila tonnellate. Un’opera ingegneristica di simile portata andava al di là dello straordinario: sembrava un vero e proprio azzardo che qualcuno potesse progettare e costruire un sottomarino di quelle dimensioni.
Il tratto più distintivo del Kursk era il doppio scafo, realizzato in acciaio di altissima qualità: lavorando in uno dei territori più ricchi di risorse al mondo, gli ingegneri russi non avevano alcuna necessità di fare economie. Lo scafo idrodinamico esterno era realizzato in acciaio inossidabile austenitico, ad alto contenuto di nichel e cromo; dallo spessore di meno di un centimetro, non solo aveva un’ottima resistenza alla corrosione ma anche una scarsissima tendenza alla magnetizzazione, il che rendeva difficile rilevarlo nell’acqua. Lo scafo pressurizzato interno era molto più spesso (circa cinque centimetri di acciaio altolegato) e forniva all’imbarcazione incredibile forza e stabilità strutturale. I due gusci, separati da un’intercapedine di circa due metri, garantivano al Kursk molte più possibilità di sopravvivere a una collisione o all’attacco di un siluro.
Il design interno univa eleganza e attenzione ai dettagli. Rispetto alle precedenti generazioni di claustrofobici e rumorosi sottomarini sovietici, il Kursk era dotato di incredibili comodità, inclusi una zona relax dove i marinai potevano leggere o ascoltare musica, un piccolo acquario e una sauna.
In un freddo giorno del marzo 1995 si era tenuta una sobria cerimonia nel porto di Vidjaevo. Un prete ortodosso, padre Ioann, aveva percorso i ranghi dei marinai allineati sul molo. A ciascuno di essi aveva consegnato una piccola icona di san Nicola, patrono dei navigatori. Nella nuova Russia, dove la fede comunista era crollata e la religione cercava di riempirne il vuoto, anche un sottomarino nucleare aveva bisogno di essere battezzato.
Padre Ioann, con gesti solenni, aveva asperso la prua di acqua benedetta, mentre un diacono mormorava preghiere e bruciava incenso in una piccola coppa. Infine, dopo un giro guidato nel sottomarino, il prete aveva affidato al comando della flotta un’icona del XII secolo raffigurante la Madonna di Kursk. Con orgoglio e reverenza, quella reliquia medievale era stata posizionata vicino alla stazione di comando, perché proteggesse il sottomarino garantendogli viaggi sicuri in difesa della madrepatria.
II
Ore 8:00
Base navale di Vidjaevo
Qualunque osservatore incuriosito, in quel luminoso mattino di agosto, sarebbe rimasto colpito dal morale straordinariamente alto degli ufficiali e dei marinai, mentre dal molo salivano sulla passerella e poi scendevano dalle scale sotto i portelli del sottomarino. Cinque giorni costituivano la durata ottimale per un viaggio in mare, sufficiente a interrompere la monotonia della vita nella base, ma senza tenerli troppo a lungo separati dalle famiglie. I sommergibilisti indossavano la divisa estiva, con le camicie color crema come unico stacco cromatico dal nero di giacche, cravatte e pantaloni.
Varcando curvi le porte delle paratie e procedendo svelti nel dedalo di corridoi, i marinai scesero le strette scale che portavano al ventre del sottomarino a tre ponti. Raggiunte le rispettive cuccette, sostituirono le uniformi con delle tute da lavoro blu, che tutti gli uomini presenti a bordo – dal comandante in giù – avrebbero indossato per l’intera durata del viaggio.
Una volta ai propri posti, poco prima della chiusura dei boccaporti, i membri dell’equipaggio si legarono intorno alla vita le bombole d’emergenza, che contenevano una miscela di ossigeno ed elio, da utilizzare qualora un incendio o un incidente avessero messo a rischio la loro riserva d’aria.
Uno dei giovani ufficiali che quella mattina si dirigevano verso poppa era Dmitrij Kolesnikov, un uomo alto e massiccio dalla lunga falcata e la cui uniforme sembrava sempre troppo piccola di una taglia. Con i suoi capelli rossi e i quasi due metri di statura, Kolesnikov sarebbe spiccato anche in una folla numerosa. Tra gli ufficiali più popolari a bordo, la sua indole bonaria era stata temprata da un’avventurosa infanzia a San Pietroburgo e da un’insaziabile passione per le storie marinaresche. Fin dalla più tenera età non aveva perso occasione per esplorare i canali e le vie d’acqua della «seconda capitale» russa, e da adolescente sognava ormai di seguire le orme del padre e diventare un atomšik, com’era nota l’élite dei sommergibilisti nucleari.
Kolesnikov prestava servizio sul Kursk da cinque anni, ed era entrato a far parte dell’equipaggio subito dopo che il sottomarino aveva cominciato i pattugliamenti operativi. Avrebbe dovuto lasciare la marina all’inizio dell’anno, ma aveva deciso di prolungare la ferma nella Flotta del Nord soprattutto per motivi pensionistici: a marzo aveva sposato un’insegnante di San Pietroburgo, Ol’ga, e per la prima volta dal suo arruolamento aveva compreso a pieno l’importanza dei vantaggi economici riservati ai membri dell’esercito.
Un’altra figura che si aggirava per gli affollati corridoi, stringendo una ventiquattrore e dirigendosi verso la propria cabina privata nel compartimento tre, era Gennadij Ljačin, l’ufficiale al comando del Kursk. Con i suoi quarantacinque anni d’età, il capitano di vascello (o capitano di primo rango, secondo la gerarchia della marina russa) era un po’ più vecchio della media dei comandanti di sottomarino. Come ufficiale era molto stimato, ma i rapporti con il quartier generale erano a volte difficoltosi: in un’occasione aveva ricevuto un richiamo formale per essere stato scortese con un ufficiale in visita da Mosca, e le attese promozioni avevano tardato ad arrivare. La sua carriera era stata salvata dal grande successo di un pattugliamento nel 1999, quando Ljačin aveva condotto il Kursk nel Mediterraneo per spiare la Sesta Flotta statunitense, durante le ultime fasi delle guerre jugoslave. Era la prima volta da quasi dieci anni che un sottomarino russo riusciva ad aggirarsi tra i porti meridionali della Nato, e la Flotta del Nord, da tempo confinata nelle proprie basi a causa di drastici tagli al budget, era euforica. Il Kursk era rimasto in mare per tre mesi e, stando a quanto si vociferava nei circoli ufficiali, Ljačin aveva passato gran parte di quel tempo a sfuggire ai tentativi occidentali di individuare il suo sottomarino.
Dopo la missione, il capitano era stato convocato a Mosca per ricevere le congratulazioni dei vertici militari, ed era stato messo in lista per la più alta onorificenza nazionale, il titolo di Eroe della Federazione Russa. La missione del Kursk nel Mediterraneo non era stata particolarmente rilevante sotto il profilo dell’intelligence, ma aveva rappresentato un’importante iniezione di entusiasmo per la Flotta del Nord. Mosca voleva mandare alle proprie forze armate il messaggio che la lunga fase di declino e marginalità era giunta al termine, e l’impresa del Kursk era servita allo scopo alla perfezione.
Ljačin, uomo capace ma non altrettanto carismatico, era a suo agio nel ruolo di comandante. A Vidjaevo giravano molte voci sul suo conto; alcuni insinuavano che avesse il vizio di alzare il gomito, altri mormoravano dell’amicizia di sua moglie con un medico del posto, ma le persone più gentili e accorte si guardavano bene dal ficcanasare: tutti hanno un segreto in luoghi come Vidjaevo. D’altro canto i pettegolezzi erano un’attività ineludibile, q...