Il risolutore
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Il risolutore

  1. 496 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il risolutore

Informazioni su questo libro

Col tempo sarebbe giunto a pensare di poter fare tutto ciò che voleva senza doverne rispondere a nessuno, e avrebbe finito col prenderci gusto. Due vite. Più nomi di quanti un uomo possa ricordare. Un bagaglio pieno di segreti inconfessabili. Per oltre vent'anni, la storia di Gian Ruggero Manzoni - pronipote di Alessandro e cugino dell'irriverente Piero - è stata una messinscena dai toni tragici, un buco nero da cui nessuno sarebbe potuto uscire vivo. Figuriamoci raccontarla. Fino all'incontro con Pier Paolo Giannubilo, un'onda d'urto da cui è nato questo romanzo, il ritratto impietoso e intimo di un uomo qualunque con un cognome fatale che ha saputo fare di sé, del bambino Palla di grasso bullizzato dai coetanei a Lugo di Romagna, un'inspiegabile leggenda. Dalla militanza nella Bologna del '77, segnata dall'amicizia con Tondelli e Pazienza e dal clima libertino del Dams, al reclutamento nei Servizi, dalle missioni under cover in Libano a quelle nei Balcani in fiamme, passando per ingaggi da killer, prodezze erotiche e sogni d'artista affascinato dalle avanguardie degli anni Ottanta: Ruggero firma ogni suo gesto con l'inchiostro dell'eccesso, dannato e insieme eroe, fuori da ogni schema e per questo irresistibile, sempre disposto a tutto pur di restare umano. Con struggente lucidità Giannubilo ci racconta ciò che dell'altro gli fa più paura come se si stesse guardando allo specchio, mettendo a nudo le contraddizioni che rendono unica una vita. Nelle sue pagine la grande Storia abbraccia la vicenda avventurosa di un irregolare fino a rendere impossibile riconoscere dove finisca l'una e inizi l'altra. Ed è questo il punto esatto dove si fa letteratura.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2019
Print ISBN
9788817109178
1

Di tutte le cose visibili e invisibili

Alle 3 del mattino del 7 luglio 2013, all’età di sessantadue anni, un anno dopo la diagnosi di leucemia mieloide acuta che l’aveva scaraventata in un vortice di protocolli chemioterapici destinati a fallire uno dopo l’altro, mia madre entrò in coma, cadendomi fra le braccia.
La nostra famiglia era riunita in uno spazioso appartamento al centro di Pescara, prestatoci da una coppia di amici. Sempre meglio che aspettare la fine facendo i turni al suo capezzale in una camera asettica dell’hospice, la dépendance dell’ospedale riservata ai pazienti terminali.
Elena si era svegliata alle 2 in preda a lancinanti dolori al capo. «Un’emorragia cerebrale o interna» ci aveva anticipato il primario di Ematologia: e la roulette della sorte era stata benevola, risparmiandoci gli orrendi scenari visivi che in genere si accompagnano alla seconda. Ripeteva con un ritmico piagnucolio monotòno: «È troppo forte… Aiutatemi… È troppo forte…». E a ogni suo lamento mi montava dentro una biliosa estraneità nei confronti di tutte le cose visibili e invisibili.
Quell’anno di trincea, una kafkiana catena di dilazioni burocratiche e coincidenze sfortunate che avevano fatto perdere tempo preziosissimo per il successo delle cure, ci aveva ridotti tutti e quattro a stracci umani. Il personale sanitario ci aveva messi sull’avviso fin dal primo giorno di ricovero: i leucemici ti si attaccano addosso come piovre, e ti prosciugano. Alla fine del percorso, la sensazione era proprio quella, di siccità assoluta.
In mattinata, dopo che un banale intoppo mi aveva impedito il ritiro di un documento in un ufficio dell’ospedale, mi era venuta una crisi nevrastenica. Le gambe mi traballavano e avevo dovuto accovacciarmi sul linoleum del corridoio; mi ero preso la faccia tra le mani e avevo bestemmiato Dio per la prima volta in vita mia. Un bestemmione a freddo, pronunciato con premeditazione e convincimento, come se avessi preso la mira e lanciato un sasso contro l’Onnipotente per colpirlo dritto sulle gengive.
Mia sorella Genny la strattonava implorandola di svegliarsi; io la puntellavo dietro le spalle per tenerla ritta – pesava come una statua in marmo – e imprecavo. Mio padre assisteva ai piedi del letto, nella tacita fissità di un altorilievo. Poi Elena iniziò a rantolare e vomitare spruzzi d’acqua, infine svenne. Chiamammo il 118 e la trasferimmo nel reparto di cui era diventata un’habitué.
La sistemarono in un’infermeria che puzzava di disinfettante acetoso. Aveva un volto così cereo che sembrava illuminato dall’interno, come un paralume di carta.
Feci chiamare il cappellano, ma non sapendo se sarebbe arrivato in tempo, le impartii un’improvvisata estrema unzione con le parole di cui disponevo.
Le stemmo accanto a turno fino alle 11. Spirò, com’era giusto che fosse, in presenza di Genny. La figlia femmina che per non lasciarla mai un momento sola aveva rinunciato eroicamente a tutto: distrazioni, lavoro, pasti, sonno.
Le rare volte che il suo fisico gracilino non doveva gestire la situazione con l’energia di un cavallo da tiro (credo sia una prerogativa femminile), le rare volte in cui si fermava, Genny ripeteva lo stesso mantra straziato: «Sta succedendo davvero? Mamma morirà?», poi si asciugava una lacrima. Io abbassavo vilmente lo sguardo a terra (credo sia una prerogativa maschile), seguendo la traiettoria di mio padre. Miliardi di pensieri affastellati nella scatola cranica. Bisogno di razionalizzare, di venire a patti con la realtà. Ossia con l’ineluttabilità del fatto che l’unica persona, l’unica, che aveva e avrebbe fatto per amor mio qualunque cosa – e io per lei – stava per andarsene per sempre.
Contro il parere della psicologa di corsia, le tenemmo nascosto fino all’ultimo che era spacciata. L’avevamo persuasa, o chissà, ci eravamo illusi di esserci riusciti, che sarebbe tornata in reparto per un’altra terapia, e che poi, ripulito il sangue fino all’ultima goccia, avrebbe finalmente avuto il trapianto che attendeva da un anno, e che sapeva essere la sua unica chance.
Fra me e mia sorella, lo staff medico aveva selezionato il donatore più in carne. Era una responsabilità tremenda e alle soglie del fantascientifico – dare la vita a chi l’aveva data a me colonizzando il suo DNA col mio. Per sei mesi vissi autoconfinato sotto una campana di vetro, perché il donatore è uno: avviata la trafila, non è più possibile sostituirlo. Qualora non fossi stato in perfette condizioni fisiche al momento del trapianto, avrei condannato Elena a morte certa.
Ciclo di chemio dopo ciclo di chemio, la sorte già segnata, lei mi supplicava a sguardi dal lettino, ancorandosi alla mia mano: Non permettere che io muoia. Non lasciarmi morire. Non voglio morire… La pressione psicologica era così schiacciante che il batticuore a 100 mi cessava a stento nel sonno. Nelle ore vigili, invece, trovavo sollievo e oblio soltanto in una canzone. Un pezzo di Nick Cave & the Bad Seeds al quale da due mesi ero attaccato come a un amuleto. In modalità repeat sull’iPod o sul pc, Jubilee Street mi trasmetteva un rassicurante messaggio da fine delle ostilità: arrenditi, come andrà o non andrà non dipende più né dalla tua volontà né dalla scrupolosità con cui assolvi i tuoi doveri… La mia devozione a quella ballata triste e alle eroticissime sequenze del video me ne aveva fatto sviluppare una visione trascendente e un’imbarazzante dipendenza.
Non avevo altro da leggere con me in quei giorni che Poesie e altre poesie di Valerio Magrelli e un volumetto di prose autobiografiche di Gian Ruggero Manzoni edito da Scheiwiller nel 1991, Il dolore: il diario di un giovane alle prese con l’agonia di un padre-maestro di vita e paradigma di rettitudine che ingaggia un duello con se stesso per non lasciarsi travolgere dagli eventi. Me lo portavo dietro come un I Ching da cui trarre oracoli o una coperta di Linus.
Avevo fatto la conoscenza di Manzoni diversi anni prima, nel 2004, quando aveva tenuto un reading di poesia nella mia città, Campobasso, accompagnato dalla sua donna di allora. Conservo un ricordo prodigiosamente plastico di Ester quella sera: total black, silhouette da magazine di intimo femminile, capelli neri lisci a mezza schiena, portamento da amazzone, sguardo impenetrabile di un siberian husky. «Un’ex studentessa di Manzoni all’Accademia di Urbino» mi aveva anticipato un mio conoscente che era stato suo compagno di corso. «È ricca sfondata, e qualche anno fa ha girato un porno su cui all’università si favoleggiava a tutto spiano.»
Dopo la lettura fui invitato alla cena organizzata in onore dell’ospite e mi fecero sedere accanto a lui a capotavola. Sotto lo sguardo sempre più svagato della bella e misteriosa Ester, che sembrava non vedesse l’ora di ripartirsene e consultava l’orologio ogni cinque minuti, Manzoni concionò dall’istante in cui attaccò a divorare l’antipasto della casa a base di insaccati e formaggi locali fino a quando non mandò giù l’ultima briciola del suo cheesecake. Parlò di calcio e Motomondiale, di gastronomia padana, di Chiesa, di sesso, degli inciuci e dei fatui pateracchi che inquinavano il mondo dell’arte italiana, e concluse con una lunga tirata d’effetto sulla decadenza politica e civile del Paese, la cui rotta sciagurata poteva essere invertita (e qui calò il gelo) solo con «contromisure drastiche, se necessario anche di stampo autoritario».
Su di lui sapevo solo ciò che mi aveva raccontato il tizio del pettegolezzo a luci rosse. Scrittore e artista poliedrico, nobiltà decaduta, posizioni vagamente fasciocomuniste, un arresto per motivi politici nel ’77, voci intorno a una sua presunta attività di informatore per le Forze armate italiane. Cosa significasse nel concreto il termine «informatore» lo ignoravo del tutto. E non immaginavo nemmeno lontanamente la mole di enormità di cui, lavorando a questo romanzo, sarei venuto a conoscenza. Io e un frate-confessore del monastero di Camaldoli, unici depositari delle sue rivelazioni.
A pelle non mi fidavo per niente del soggetto, a maggior ragione dopo quell’ultima sparata sulle «contromisure drastiche». Cos’era, insomma: un provocatore a cui piaceva calarsi nel ruolo del duro? un convinto fascistoide da cui prendere le distanze? un miles gloriosus plautino un po’ cazzaro da osteria? Però ne ero ammaliato. Tutti, a quella tavola, lo eravamo. Era impossibile restare indifferenti all’avvolgente eloquenza barricadera delle filippiche con cui, mentre mangiava come un lupo, ci arringava, al suo disinvolto sfoggio di cultura enciclopedica e alla sua esuberante aneddotica autobiografica. Sembrava un generatore automatico di fatti intriganti, e aveva sempre la battuta pronta. E poi, vivaddio, era imparentato con Alessandro e Piero Manzoni, sui quali spesso e volentieri apriva parentesi (per impressionare il suo pubblico) una più gustosa dell’altra.
I versi che aveva recitato prima in sala erano maschi e sentenziosi, in perfetto accordo con la sua possanza michelangiolesca. E la lentezza dei movimenti e dell’eloquio – che si doveva, appurai in seguito, alla dura malattia che lo affliggeva, il morbo di Crohn – promanava la spavalda sicurezza in se stesso di una vecchia gloria calcistica a un incontro fra scapoli e ammogliati. Insomma, la rappresentazione di sé che ci offriva era quella di un battitore libero allergico al buon senso comune. Una figura di testa d’uovo appartenente a una razza estinta, primonovecentesca. Un intellettuale d’altri tempi, polemico col «pensiero debole dell’establishment» e «le élite intellettuali radical chic», a cui dava addosso con sfrenato sarcasmo. E anche quella iattanza da combat-poet alternativo mi sapeva un po’ di furbata per fare scena. Così, quando la serata finì e me ne tornai a casa, non ero ancora venuto a capo del mio dubbio. Avevo trascorso quelle ore in compagnia di un vero outsider o di un imbonitore da convito esperto nel far presa su un uditorio di provinciali?
Il mio ultimo pensiero era stato per il generoso décolleté di Ester.
Tra il nostro primo incontro e il successivo, nell’estate del 2008, erano intercorsi quattro anni, durante i quali lo avevo perso di vista. Ritornava dalle mie parti, nel paese di mia madre, Santa Croce di Magliano, per due giornate di prove teatrali di una sua riscrittura di Macbeth che sarebbe andata in scena a Campobasso. Il regista, un mio amico d’infanzia, mi aveva invitato a unirmi alla compagnia l’ultimo pomeriggio delle prove – gli avevo promesso una recensione sul quotidiano per cui scrivevo – e avevo accettato.
Con Manzoni non c’era più l’enigmatica Ester, ma una donna minuta e allegra di nome Carla, meno giovane e scenografica dell’altra, e che a differenza dell’altra familiarizzava con tutti.
Dopo le prove, che si tenevano in una megapalestra scolastica costruita coi fondi speciali stanziati dal governo per i centri del cratere dopo il terremoto di San Giuliano di Puglia, ci spostammo ai tavoli all’aperto di un locale, dove tirammo le 3 sotto la volta stellata mangiando tranci di pizza rossa con salsiccia e bevendo Tintilia.
Manzoni mi rivolle seduto al suo fianco, e per la prima volta ci trovammo a parlare a tu per tu. A marzo era uscito Corpi estranei, il mio romanzo d’esordio, la storia vera ai confini della realtà di un bambino nato nel ’32 in Abruzzo da una prostituta e seviziato per anni dalla nonna fattucchiera e lo zio calzolaio, amanti incestuosi, con un macabro rito vudù eseguito con aghi e chiodi.
«Ho trovato la tua intervista a Unomattina sul tuo sito. Trama da brividi – mi sono ripromesso di comprarlo, ma tra uno spostamento e l’altro…»
«Be’, te ne faccio inviare una copia dall’editore.»
«E sarebbe un regalo graditissimo. Anche mia nonna paterna era una strega, sai? Magia bianca, però. Nonna Olimpia. Un giorno, ne sono arcisicuro, ti racconterò di lei.»
Gli piacevo. Accorciammo rapidamente le distanze. Gli offrii una sigaretta e lo invitai a venire a fumare con me alla ringhiera del belvedere, affacciato su un orizzonte brunastro di colline. Eravamo tutti e due un po’ brilli.
«Sto sbattutissimo» sospirò. «Non ho più il fisico per certi tour de force. Ieri, cinque ore di autostrada. Domattina, altre cinque. Due giorni fa, la riunione della Fondazione Ad Studia Manzoni…»
Mi raccontò qualcosa sull’attività di quell’istituzione, della quale andava molto fiero, il più antico ente privato benefico a fini pedagogici riconosciuto in Italia dal ministero della Pubblica istruzione, creato da un abate della sua famiglia nel Seicento per sostenere studenti bisognosi con i proventi di alcuni terreni agricoli che i Manzoni hanno da sempre in comunione.
Quando esaurì l’argomento, gli rivolsi senza troppi giri di parole la domanda che mi frullava nel cervello fin dal tardo pomeriggio: le cose che si dicevano sul suo conto erano vere o leggende metropolitane?
«Dipende quali…» non si scompose. «Ne girano così tante.»
«Mi riferisco… ai Servizi segreti, naturalmente.»
Con una scioltezza innaturale, confermò che sì, era stato arruolato nell’intelligence, in passato: lo sapevano tutti. Sì, aveva pure ucciso, anticipò la domanda successiva leggendomela in faccia, e non una sola volta. «Perché in missione è come essere in guerra. Esegui degli ordini. Però questo sono in pochi a saperlo…» E a un certo punto, dopo avermi menzionato alla rinfusa azioni in Libano, conflitti a fuoco contro i cetnici in Bosnia, il Mossad, Praga ai tempi della cortina di ferro, non so a che punto del nostro botta e risposta, buttò lì con inquietante nonchalance delle affermazioni che mi fecero andare di traverso il vino pietroso con cui stavamo pasteggiando.
Aveva chiuso, riassunse, la sua «carriera» nei Servizi con un’operazione fra le più difficoltose della NATO – «Però questo lo dico a te: e qui lo dico e qui lo nego, intesi?» – che se divulgata avrebbe messo in imbarazzo più di una diplomazia, e scoperchiato un vaso di Pandora. «Una vicenda che, per quanto mi sia sforzato, non sono mai riuscito a metabolizzare.»
La piega presa dal dialogo mi aveva mandato un po’ in confusione. Lo pregai istintivamente di proseguire, e spiegarmi meglio. Ma gli altri si erano già alzati dai tavoli: era giunta l’ora dei saluti. «Troveremo un’altra occasione, per approfondire» mi assicurò sorridendo e battendomi una vigorosa pacca sulla spalla. «Restiamo in contatto. E fammi mandare il tuo libro: una promessa è una promessa.»
Guidando alla volta di casa, mi domandavo se l’indomani non avrei trovato una sua e-mail di scuse per essersi fatto prendere la mano sotto l’influsso del nostro robusto vitigno, a cui non era abituato, e aver giocato a impressionarmi con una montatura da blagueur. Servizi segreti? Spionaggio internazionale? Ma su… E sempre che ci fosse del vero in ciò che mi aveva detto, neanche mi conosceva: perché mai sarebbe dovuto venire a scodellarle proprio a me quelle cose?
Manzoni ripartì per Lugo di Romagna. Un mese e mezzo dopo, mi spedì l’ultimo numero di una rivista che dirigeva e un caloroso biglietto di auguri natalizi vergato a mano, in cui elogiava il mio romanzo e si riprometteva di farlo inserire nel cartellon...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il risolutore
  4. Palla di grasso
  5. 1. Di tutte le cose visibili e invisibili
  6. 2. Commutazione
  7. 3. Space Oddity
  8. 4. Il risolutore
  9. 5. Dead man Zenica
  10. 6. Ester
  11. 7. Nel covo della Tigre
  12. 8. Le Dionisiache
  13. 9. Eredità di sangue
  14. 10. Superficie vergine
  15. Con queste mani
  16. Nota dell’autore
  17. Copyright