«Aiutati che Dio t’aiuta» è uno dei detti che più mi piace, insieme a: «Se aspetti la manna dal cielo, stai fresco». Ma quello che mi si addice maggiormente è: «Il Signore manda il freddo secondo i panni».
Finché ho allattato, sono stata fortunata. All’alba delle loro vite, i nostri figli sembravano in sintonia con le mie esigenze. Persino con i miei ritardi.
C’erano giorni in cui rientravo trafelata dal lavoro, con il seno dolorante per via della montata lattea, e non li trovavo in lacrime o intenti in qualche capriccio: il più delle volte dormivano. Li svegliavo, li sfamavo e, quando tu eri fuori per lavoro, li portavo a passeggiare a Villa Chigi, con un panino in mano.
Mi chiamavano la Signora dal tiro a quattro. Mi vedevano uscire di casa con Luca nell’inglesina; Andrea seduto sul seggiolino; Federica che mi camminava a fianco e Guido che mi aiutava a spingere, le manine sopra le mie, a tenere ben saldo il manico sempre più pesante, a fare da timoniere.
Se è vero che il Signore manda il freddo secondo i panni, allora può darsi che mandi anche l’amore secondo la nostra capacità di meritarcelo. A volte mi domando cosa abbia fatto di così straordinario per aver meritato te.
Eppure eri anche capace di grandi sfuriate. Un carattere fumantino, terribilmente esigente. La mia presenza ti era indispensabile, perché la tua idea di moglie e di madre stava tutta nella costanza. Su questo eri inamovibile. Ricordo quando venivi in negozio per sincerarti che non mi lasciassi fagocitare dal lavoro e per strapparmi letteralmente dal bancone. «La famiglia prima di tutto» dicevi.
Soprattutto quando i figli hanno cominciato a crescere, ci tenevi che rientrassimo insieme a casa per il pranzo. «È a tavola» ripetevi spesso, «che tutto può accadere.»
È nello scambio, e nell’attenzione nei confronti di quello scambio, che prende vita una famiglia. Noi genitori abbiamo il compito di osservarli, questi figli che crescono e che qualche volta si nascondono al nostro sguardo solo per paura, o per qualcosa che sta a noi cercare di comprendere. «La tavola è la nostra occasione per farlo.» E se lo osservi per bene un figlio, se impari a decifrare il suo sguardo, non c’è nulla che possa davvero nasconderti.
Non abbiamo mai acceso la televisione quando si mangiava. Se la tavola era il luogo dove tutto poteva accadere, allora dovevamo lasciare che questo tutto accadesse. Senza timori. E dovevamo dare ai nostri figli la possibilità di esprimersi. Senza pregiudizi.
C’era chi non parlava mai e andava stimolato, come Andrea, o chi scherzava sempre, come Luca, scaldando l’atmosfera e, all’occorrenza, aiutandoci a stemperare i toni. Eravamo un’orchestra, fatta di risate e di scherzi, ma anche di discussioni e di pianti, e come in qualsiasi orchestra che si rispetti, una delle regole fondamentali era che nessuno doveva sentirsi escluso. Si doveva parlare. Ognuno aveva il compito di raccontarsi. I loro racconti, il loro modo di stare a tavola, e quindi al mondo, erano come una partitura per noi, dovevamo solo sforzarci di leggerla.
Per non arrivare in ritardo e permettere a quella tavola di animarsi, di attingere nutrimento dalla condivisione del tempo, quante corse fino alla fermata dell’autobus? Quante volte sono arrivata con il fiatone ai pranzi che preparavi per noi? Finché sia tu sia mia madre non mi avete ribadito una cosa semplicissima: «Franca, forse è ora che ti prendi la patente».
Imbranata com’ero, eri sempre in pena per me ogni volta che mi mettevo in macchina.
Un giorno Guido, che invece ha sempre avuto la passione per i motori (in fondo, se ci pensi, anche il suo nome lo suggerisce), mi ha fatto scendere dal sedile e ha parcheggiato al posto mio. Solo che all’epoca avrà avuto a malapena dieci anni. Un puffo poco più alto di me che mi dice: «Mamma, spostati, faccio io».
Del resto, quando si trattava di prendersi cura di me, li hai responsabilizzati tutti prima del tempo. «Mi raccomando la mamma» era la frase che dicevi ai tuoi figli ogni volta che ti congedavi da loro per lasciarli con me. Come se fossi io la più bambina di tutti.
Ancora mi prendono in giro quando mi ricordano alla guida. «Mamma, facevi le curve accompagnandoti con tutto il corpo!» E giù a ridere. Una cosa è certa: mi perdevo sempre.
Per telefonarvi mi fermavo nelle cabine o nelle farmacie. Qualche volta chiedevo indicazioni ai tassisti. Nei casi più complicati gli pagavo le corse per farmi guidare fino a casa. Non c’erano mica i navigatori o i cellulari: se ti smarrivi, dovevi affidarti al destino. Nel mio caso, a quell’angelo custode che ho sempre avvertito al mio fianco, e che mi fa trovare ciò che desidero nei tempi che ritiene più opportuni. Come le case che ho abitato, o le opere d’arte che ho acquistato. C’è sempre una ragione nascosta dietro un’attesa o un contrattempo. Alle volte persino dietro a un numero. Come quando dividemmo l’eredità della mamma in cinque parti e io scelsi a scatola chiusa tutto ciò che era stato contrassegnato con il numero tre, in virtù del fatto che ero la terza sorella. In quell’occasione scoprii di aver ricevuto ciò che avevo sempre desiderato, come la coppia di lampadari di Murano, che ora pendono dal soffitto del secondo piano, davanti alla vetrata del soggiorno, e mi sembrano ogni giorno più preziosi; o la tazza fiorata che mamma usava per fare colazione e che mi fa tornare bambina ogni volta che sorseggio una bevanda calda, tenendo tra le dita quella porcellana che mi parla di lei.
Le ragioni del caso sono sempre imperscrutabili, ma le coincidenze hanno qualcosa di rassicurante. Come quella sera in macchina, che mi ero persa di rientro dalla Contir, lo stabilimento fuori Roma che produceva per conto nostro le linee Fendi dell’abbigliamento. Fermai un taxi per chiedere di farmi strada.
Avevo pochi soldi in tasca – giro sempre con pochissimi contanti – e avevo paura che non mi bastassero per pagare la corsa. Una corsa che però mi apparve subito troppo lunga, quindi sospetta. Ci stavamo dirigendo verso zone a me sconosciute e fuori dal raccordo anulare, così smisi di seguirlo e ne cercai subito un altro.
Quando finalmente arrivai a casa, il secondo tassista mi comunicò l’importo della corsa. Era esattamente la cifra che avevo nel portafogli, non una lira di più. A riprova che il caso non è mai distratto, anzi, ci sono occasioni in cui ti accorgi che sa persino contare.
Io invece sì che ero distratta, ma non perdevo mai la calma. «Mamma, ti fanno il gesto delle corna!» mi facevano notare i nostri figli quando peccavo di leggerezza alla guida. E io puntualmente rispondevo: «Peggio per loro».
Non sono una donna che si scompone. Al conflitto preferisco di gran lunga il confronto, e quando questo non è possibile, mi arrendo subito. Agitarmi non fa bene al mio carattere. Sono di indole calma, pacifista.
Ricordo una volta in cui un cliente del negozio si inalberò perché non era ancora arrivato l’ordine che aveva pagato. Intervenni per calmarlo. Più lui si arrabbiava più io ero gentile, e il mio atteggiamento lo irritava ancora di più. Una rabbia innescata è come un fuoco che arde e ha bisogno di legna per montare. La mia calma lo faceva smontare, ma l’effetto era spiazzante.
«Mi viene voglia di darle uno schiaffo» mi confessò a un certo punto, tutto paonazzo in viso, le vene del collo che avevano cominciato a gonfiarsi.
«Se le fa bene, faccia pure» risposi. E lui esplose. Uscì sbraitando dal negozio, come se lo avessero derubato.
Anche tu ti infuriavi spesso per la mia incapacità di lasciarmi andare alle emozioni, questo mio bisogno di tenere sempre tutto dentro. Quello che forse non ci siamo mai detti apertamente era che io mi comportavo così anche per te. Perché alla guerra ci hai sempre pensato tu. E a me dispiaceva vederti arrabbiato, anche se così facendo forse peggioravo la situazione. Eri un uomo molto solare, ma quando ti infuriavi diventavi cupo come la notte. Non era difficile che accadesse, e ogni volta facevi sentire la tua voce e le tue ragioni senza mezzi termini. Se da una parte questo mi dava sicurezza, dall’altra sentivo di avere il compito di mitigare, di smussare gli angoli, di arrotondare le punte affinché nessuno ne uscisse ferito.
«Per quieto vivere» è la mia frase ricorrente. Neanche i nostri figli la sopportano più. Ma se tornassi indietro, rifarei esattamente le stesse cose. Eviterei le stesse guerre e non cambierei una virgola di come ho gestito ogni conflitto. Del resto anche questa è un’altra frase che ripeto di continuo. Forse perché davvero mi piacerebbe tornare indietro. Ma soltanto per rivedere te.
Mi hai amata così come sono: timida, introversa, calma fino a risultare irritante. E so che in fondo sei d’accordo con me: non ci si deve mai mettere alla pari con chi, preso dalla collera, cede alla violenza, anche solo verbale. È quello che dico sempre anche ai nostri nipoti, quando si inacidiscono e rispondono ai genitori come i nostri figli non hanno mai osato fare con noi.
Del resto abbiamo anche faticosamente cercato di mantenere con loro una certa distanza. Avevamo l’ingrato compito di educarli, non di farceli amici. Dovevamo mostrarci compatti, privi di dubbi, tenerli fuori da qualsiasi nostra discussione. La camera da letto era il nostro confessionale, l’arena di ogni controversia. Era lì che trovavamo un accordo prima di tornare ad affrontarli.
«Tanto hai sempre ragione tu» mi dicevi ogni volta che ti facevo cambiare idea su una punizione che avevi deciso di dare e che mi sembrava eccessiva, o su una decisione che credevo fosse stata presa senza i dovuti ragionamenti.
Eri un monolite, e le tue prese di posizione lo erano ancora di più. La maggior parte dei tuoi «no» era impossibile da trasformare anche solo in «forse». Ma io sapevo di avere un ascendente e mi bastava guardarti per capire se c’era una possibilità di esercitarlo. In caso contrario, era una battaglia persa che preferivo non cominciare neanche. Tranne quando in gioco c’è stata la tua vita, e allora mi sono scontrata con i tuoi no con una forza di cui non mi credevo neanche capace.
Ti ho sempre riconosciuto il ruolo del capofamiglia. Bada bene: il capo, non il padrone. Davanti ai figli non ho mai neanche azzardato a mettere in discussione la tua parola, a sminuirla in qualche misura. I miei rispettosi silenzi alimentavano la tua autorevolezza, e presumo sia stata proprio questa la nostra forza.
Ci sono state volte in cui mi è pesato assecondare le tue scelte di padre, non lo nascondo. Altre in cui riconoscevo l’importanza di mantenere la fermezza e soffocavo i miei istinti materni, come quando hai deciso di mandare Luca e Andrea in collegio.
Avevi scoperto che Luca marinava la scuola ed eri andato su tutte le furie. A ben donde, devo riconoscere. Poi c’era Andrea, che non era bravo nello studio. Accompagnare il fratello al convitto non gli avrebbe fatto certo male, ma l’idea che uscissero di casa, entrambi ancora adolescenti, così presto, mi rattristava molto. Non potevo sopportare il fatto che trascorressero la notte lontano da noi, in un posto più freddo e rigoroso, ma al tempo stesso non potevo non appoggiare la tua scelta.
Ricordo che portai in collegio le loro lenzuola, quelle con la bandiera americana: pensavo li avrebbero fatti sentire più a casa. E infatti così è stato. Quell’anno passò in fretta. La lezione servì, e il collegio li «raddrizzò».
Parlare con loro, ascoltarli. Intervenire per correggerli. Avevamo un decalogo comune. I figli sono testi scritti in lingue ibride che abbiamo il dovere di decifrare, e al tempo stesso pagine vuote che abbiamo il compito di riempire. L’hai sempre pensata come me.
Che parlare ai figli fosse importante a tutte le età me lo dimostrò anche Federica, che quando era piccola fece tesoro di un mio racconto e ci salvò da una tragedia.
Avrà avuto sette anni. Eravamo a Ostia, in un appartamento di mia sorella Anna: una vecchia casa con le persiane in legno che si aprivano solo nella parte inferiore, all’infuori.
Noi eravamo all’ultimo piano e io le facevo aprire dalla domestica solo quando uscivamo per andare al mare, perché erano pericolose. Non c’erano ringhiere ed era facile che un bambino potesse scivolare e cadere. Avendone quattro per casa, quelle portefinestre erano il mio incubo.
Si pranzava sempre fuori e per l’occasione riempivo un cestone di cibo e bevande da portare in spiaggia. Un giorno, quando eravamo già tutti sul pianerottolo pronti per uscire, mi ritrovai a rovistarci dentro in cerca delle chiavi che credevo di aver perso.
Mentre lo capovolgevo e svuotavo nella speranza di riuscire a trovarle, i bambini rientrarono in casa. La domestica aveva già aperto le finestre.
Qualche tempo prima avevo raccontato a Federica la storia di un bambino caduto dal terzo piano di un palazzo, che era rimasto appeso al filo dello stendipanni, e di una signora che per non farlo muovere di lì, prima dell’arrivo dei soccorsi, gli aveva raccontato una favola.
Quel giorno la storia del bambino appeso allo stendipanni si dimostrò infinitamente utile.
Quando Federica vide Luca sporgersi oltre la persiana, gli si buttò ai piedi per fermarlo. Lui le dava calci e si agitava come un volatile appeso al laccio, senza rendersi conto che era a un passo dal vuoto. La sorella lo tratteneva per le gambe, ma era una bambina e non avrebbe avuto la forza di resistere a lungo, così fece tesoro della storia che le avevo raccontato e cominciò a parlargli in modo calmo nel tentativo di distrarlo. Nel frattempo mi chiamava.
Quando finalmente trovai le chiavi, che erano finite sotto la fodera del cesto, e sollevai lo sguardo per rientrare in casa, la scena mi si parò subito davanti.
Ricordo di aver cacciato un urlo. Avevo la sensazione che il sangue fosse diventato colla e le gambe burro. Eppure nulla m’impedì quello scatto rapidissimo per correre da loro e afferrarlo.
Mentre riprendevo fiato con Luca tra le braccia, mi colpì la voce di nostra figlia: «Mamma» mi disse, «non potevo lasciarlo per venire a chiamarti. Mi sono ricordata della storia di quel bambino appeso allo stendipanni e ho cercato di tenerlo buono».
Quando nacque Luca, ci trasferimmo nella casa all’angolo con via Eleonora Duse, la stessa casa dove da bambina suonavo il campanello per fare gli scherzi.
Non era più una villa, era stata divisa in appartamenti. Ricordi il nostro? Con l’ascensore che arrivava direttamente in casa e gli armadi spaziosi che sembra...