Gli appassionati del Sol Levante sanno bene che il periodo migliore per visitare il paese è in primavera, quando fioriscono i sakura, i ciliegi giapponesi.
Nelle isole subtropicali di Okinawa, dove abbiamo condotto il nostro studio per Il metodo Ikigai,1 la fioritura comincia a gennaio, ma nelle grandi metropoli il fenomeno è osservabile dalla fine di marzo alla metà di aprile, mentre nella fredda isola di Hokkaido bisogna aspettare maggio.
Tutti gli anni i giapponesi seguono con estremo interesse le previsioni sul momento in cui il sakura mostrerà i suoi petali bianchi. Non è solo una questione di bellezza, ma anche di simbologia, come vedremo in questo capitolo. Il cosiddetto “fronte del sakura” avanza da sud a nord e ogni città ha un albero di riferimento che annuncia l’inizio della fioritura, diventata ormai una festa in onore della natura a cui partecipa l’intera popolazione.
In Giappone si contano novantasei alberi di riferimento – o “indicatori” – che segnano l’inizio del kaika. Quello di Kyoto, per esempio, si trova nel giardino dell’ufficio meteorologico locale. Tutte le mattine un dipendente va a controllare se le gemme si sono aperte. Il giorno in cui si schiudono, la notizia si sparge in tutto il paese.
Hanami
Non appena si avverano le previsioni sulla fioritura, o sakura zensen, i giapponesi accorrono in massa nei parchi per il rito dell’hanami, che tradotto alla lettera significa “guardare i fiori”.
Se visitassimo un giardino in quel periodo, vedremmo intere comitive di impiegati sotto i ciliegi in fiore, famiglie che passeggiano entusiaste e coppie di innamorati che si scattano foto con il sakura sullo sfondo.
È una celebrazione della natura e della vita che rinasce, insieme alle speranze. Un rito così antico che veniva descritto già nelle cronache del terzo secolo d.C.
La festa continua dopo il tramonto con lo yozakura, o “notte dei ciliegi”. Quando si fa buio, la gente accende le lanterne tradizionali che vengono appese ai rami degli alberi, creando un’atmosfera magica, come in un film dello studio Ghibli.
I gruppi di amici e le coppie si siedono sotto il sakura notturno con un bicchiere di sakè e qualcosa da sbocconcellare mentre si godono il momento, senza dubbio un’esperienza Ichigo-ichie, visto che la fioritura dura al massimo un paio di settimane. Per rivederla, se avremo la fortuna di esserci ancora, dovremo aspettare un anno intero.
Il sakura è la prova tangibile che le cose più belle della vita sono fugaci e non possono essere rimandate.
La festa dei ciliegi in fiore inizia ufficialmente con il kaika, termine che descrive le prime gemme. Nel giro di una settimana il fiore si schiude del tutto, raggiungendo il mankai, ovvero “il momento esatto in cui il fiore del sakura è completamente aperto”.
I petali cominciano a cadere una settimana dopo, ma la pioggia o le raffiche di vento possono addirittura accelerare il processo, come durante il nostro viaggio a Kyoto.
I giapponesi però apprezzano anche questa fase, tanto da avere una parola, hanafubuki, per indicare una tormenta di petali di sakura: l’istante sublime che racchiude la bellezza e la poesia dell’effimero.
La magia del kaika
Nel nostro libro Shinrin-yoku, parliamo dell’incredibile storia di Hikari Oe. Figlio del premio Nobel per la letteratura Kenzaburo Oe e nato con un grave handicap, scoprì la musica durante una passeggiata nel parco con i genitori, quando sentì il canto di un uccello e si mise a imitarlo.
Siamo davanti a un tipico caso di kaika, l’istante in cui dentro di noi comincia a fiorire qualcosa di cui, fino ad allora, ignoravamo l’esistenza.
C’è sempre tanta magia nella nascita di una nuova passione, anche quando avviene in luoghi poco poetici come la piscina di un albergo.
Dan Brown, per esempio, racconta che l’idea di scrivere non lo aveva mai sfiorato, finché non trovò un libro abbandonato su una sdraio da un altro ospite dell’hotel in cui alloggiava.
Era in vacanza con la moglie e si stava annoiando a morte, ma quel romanzo, La congiura dell’Apocalisse di Sidney Sheldon, gli salvò le ferie.
Tornato a casa, decise che anche lui avrebbe scritto un thriller e ci si dedicò anima e corpo, in preda al kaika. Anni dopo, Il codice da Vinci diventava un bestseller facendo di lui un milionario.
Il kaika è ben visibile all’inizio delle storie d’amore. Come il fiore di ciliegio si apre dando avvio alla primavera, così una persona, che per noi non esisteva fino a un attimo prima, ci sorprende occupando all’improvviso il centro della nostra vita.
Nei giardini misteriosi dell’amore, questa fioritura può dipendere dai fattori più improbabili. Cos’è che ci fa innamorare di una persona?
Quando chiediamo agli altri di raccontarci quell’istante indimenticabile in cui nasce un nuovo mondo, riceviamo risposte come queste:
- «La prima volta che ho sentito la sua voce mi ha lasciato senza fiato.»
- «Aveva uno sguardo timido ma anche profondo, e desideravo conoscere il suo mondo interiore.»
- «Mi ha fatto innamorare per la delicatezza con cui ha raccolto le cose che avevo appena rovesciato.»
Sono tutti istanti di Ichigo-ichie, attimi unici che, se sappiamo coglierli e apprezzarli, possono illuminare il resto della nostra vita.
La formula del mankai
Quando il kaika ha il potere di trasformarci, proviamo il desiderio di convertirlo in mankai. Vogliamo cioè che la passione nata dentro di noi maturi raggiungendo la pienezza. Ecco alcuni esempi:
- La persona innamorata che decide di annaffiare il giardino della relazione, nei giorni belli e anche in quelli meno belli, per non farla appassire.
- Lo scrittore in erba che, dopo aver avuto l’idea per un libro, rispetta un orario quotidiano di lavoro fino a completarne la stesura.
- La tenacia di un imprenditore che non vuole che il suo progetto sia come un fiore che dura un solo giorno, e cerca continuamente nuovi modi per migliorarlo e innovarlo.
Partire da una vocazione o da un’idea appena accennata per arrivare all’eccellenza, passando quindi dal kaika al mankai, è come correre una maratona. A tale proposito si cita spesso la regola delle diecimila ore di Malcolm Gladwell.
Nel libro Fuoriclasse. Storia naturale del successo, questo giornalista nato in Inghilterra dimostra che il successo si ottiene dopo essersi impegnati per quel totale di ore: «il numero magico della grandezza», lo definisce. La regola si applica a personaggi molto noti, per esempio:
- Bill Gates cominciò a programmare i computer all’età di dieci anni, quando andava a scuola a Seattle. Diecimila ore più tardi riusciva a imporsi nel mondo dell’informatica.
- I Beatles accumularono le diecimila ore necessarie per l’eccellenza nei due anni passati a suonare otto ore al giorno nei locali di Amburgo, per poi tornare in patria e sfondare con Love Me Do.
La conclusione dello studio di Gladwell è che non basta essere dei geni: per consentire al talento di svilupparsi in tutto il suo splendore, ci vogliono fatica e costanza.
Forgiatori di spade
La cura del dettaglio e la pazienza dei giapponesi emergono nelle discipline più disparate. Uno dei casi più noti è il ristorante di sushi di Jiro, che pur trovandosi nella stazione della metropolitana di Ginza, a Tokyo, è considerato il migliore al mondo. Uno degli apprendisti dello chef ha dovuto esercitarsi per vari decenni prima di riuscire a preparare un buon tamago (frittata per sushi).
Per molte di queste arti non esiste una scuola che ne insegni i segreti; il sapere viene trasmesso dal maestro all’allievo. Vale in particolare per i forgiatori delle katana, le tipiche spade giapponesi.
Oggi nel paese ci sono trecento maestri in attività, ma solo trenta si dedicano a tempo pieno alla fabbricazione delle spade. Ognuno di loro prende sotto la sua ala una cerchia di apprendisti, perché l’arte non vada perduta. Torna alla mente il Medioevo, quando in una città come Barcellona, per esempio, si contavano venticinque armaioli.
Non si impara a forgiare spade leggendo un libro o frequentando un’accademia. Per apprendere il mestiere, bisogna lavorare sotto la guida di uno dei trecento maestri per almeno dieci anni. Ci si mette di meno a laurearsi!
Perché è così difficile realizzare una katana? Non scenderemo nei dettagli, ma vi basti sapere che ottenere un acciaio di prima qualità è complicato quanto preparare una buona frittata per il sushi, se non di più.
Uno degli aspetti fondamentali è il basso tenore di carbonio, necessario a conservare le proprietà dell’acciaio. Le lame migliori ne contengono solo l’1-1,2 per cento, ma è molto difficile azzeccare la quantità. I maestri riconoscono il momento in cui viene raggiunto il giusto livello grazie al loro intuito, dopo aver lasciato per tre giorni il pezzo nella fornace, a una temperatura tra i 1200 e i 1500 gradi.
La spada tradizionale giapponese è un simbolo di forza, tenacia e semplicità, perché nelle sue linee non c’è niente più del necessario. Per questo è importante procurarsi il materiale migliore e poi temprarlo con il martello per ottenere la maggiore densità possibile.
L’insegnamento che ci danno i forgiatori di spade – considerati patrimonio nazionale in Giappone – è quello di eliminare il superfluo fino ad arrivare all’essenziale: qui risiede la nostra bellezza e il nostro potere. E ci possiamo riuscire solo con pazienza e perseveranza.
Dopo aver ricevuto alcune critiche, per esempio da parte di Daniel Goleman, secondo cui l’impegno non garantisce nulla perché in alcuni campi servono doti innate e straordinarie, Gladwell ha dichiarato: «La regola delle die...