La vita quotidiana in Russia ai tempi della Rivoluzione d'ottobre
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La vita quotidiana in Russia ai tempi della Rivoluzione d'ottobre

La nascita di un mondo capovolto

  1. 304 pagine
  2. Italian
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La vita quotidiana in Russia ai tempi della Rivoluzione d'ottobre

La nascita di un mondo capovolto

Informazioni su questo libro

Il "monaco maledetto" Rasputin, lo zar Nicola II, Trockij, Stalin e Lenin; e poi la fine dell'aristocrazia, la breve estate della Russia borghese, la nascita del regime dei Soviet: tutto è già stato detto sugli uomini e sullo svolgimento della Rivoluzione d'ottobre. Niente sulle abitudini, i pensieri e le opinioni della gente, sulla vita di ogni giorno in un momento in cui, in realtà, il quotidiano viene spazzato via in nome di alti ideali, e la Russia imperiale rielaborata, rimessa in discussione insieme alla sua società e alle sue usanze. Come passavano il tempo le persone comuni, quali erano i vestiti all'ultima moda, le pietanze più raffinate, la vita culturale e i divertimenti fra le strade di San Pietroburgo? La rivoluzione, il razionamento, le esecuzioni pubbliche, la carestia e l'egoismo sembrano voler cancellare ogni traccia di tradizioni, ma lo storico Jean Marabini, grazie a informazioni e fonti di prima mano, riesce a restituire al lettore un fedele spaccato di vita del popolo russo, in cui gli intrighi politici e i tristi avvenimenti ben noti si intrecciano con storie di povertà e sofferenza, sangue e ferro, speranza e rinascita.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2019
Print ISBN
9788817109468
PARTE SECONDA

Sotto il potere dei Soviet

I

La grande sera

L’utopia spezza la storia

Il 6 novembre 1917, la vigilia della caduta del governo provvisorio e di quella «grande sera» che avrebbe infranto d’un sol colpo il vecchio mondo relegando i re alla loro funzione di attrazione per piccoli borghesi, gli abitanti della piazza delle Arti avevano applaudito al teatro Alessandro La Morte di Ivan il Terribile con la regia di Mejerchol’d. Un allievo della Scuola dei Paggi in uniforme di gala si irrigidiva sull’attenti ogni volta che la luce si accendeva davanti al palco imperiale deserto e mutilato delle sue aquile.
Su più di due milioni di abitanti, nessuno avrebbe previsto, nel corso di quell’ultima sera, che in meno di 24 ore, una terribile scossa sismica sociale avrebbe infranto tutto ciò che apparteneva alla storia fino allora nota, afferrando ognuno nella sua quotidianità, nelle sue occupazioni preferite, nelle sue abitudini d’altri tempi per precipitarlo in quello che era ancora l’uragano Utopia che spazzava via tutto al suo passaggio. Le case erano ancora tutte illuminate e il riscaldamento funzionava ancora anche se l’approvvigionamento era fortemente ridotto – pane, latte, zucchero erano razionati – ma tremila disertori si erano accampati, come dei barboni, nella stazione del Baltico. Abituati a simili contrasti, gli abitanti di quell’oasi di lusso che era ancora per un giorno il centro di Pietrogrado ignoravano che stavano ammirando per l’ultima volta le vetrine di diamanti e pietre preziose siberiane di Burchard, che assaporavano per l’ultima volta il cioccolato viennese di Krafft, che gustavano l’ultimo pasto tradizionale russo al ristorante dell’Orso e che non avrebbero più potuto farsi fare scarpe e stivali da Weiss, per duecento rubli. Quello che sembrava così semplice all’amatore di Avana che sceglieva fra cento varietà di sigari a venti rubli da Ten Cate o al frequentatore abituale di Voronin dove si disponeva di un lussuoso bagno individuale con piscina e sauna, sala da pranzo «alla romana», salottino per il riposo e cinque domestici, un massaggiatore, un pedicure e un cameriere, un maggiordomo e un finlandese incaricato della flagellazione che doveva seguire il bagno di vapore a 80° sarebbe diventato un lusso impossibile, come quello di posare per il fotografo d’arte fiorentino Avanzo che aveva chiamato il suo studio La tavolozza di Raffaello.

Gli automi per la strada

Sempre nel quartiere del centro, il panorama quotidiano pur avendo perso il lustro di prima della guerra aveva conservato le sue uniformi russe e il suo aspetto cosmopolita. Ogni sera verso le 17 le grandi prospettive e i dintorni della piazza del Palazzo si riempivano di uomini tetri, in uniforme, dall’espressione rassegnata e passiva con pesanti cartelle piene di documenti. Questi subalterni, che rappresentavano la fanteria del čin erano riconoscibili per la pelle color aringa affumicata: indossavano il berretto, pantaloni di lana di cattiva qualità, blu scuro, e una giacca militare verde cupo ed erano pronti a mettersi sull’attenti davanti ai loro superiori in qualsiasi circostanza. Sulla giacca e sulle spalline, abbastanza simili a quelle dei sottufficiali dell’esercito, portavano mostrine con le insegne imperiali che non erano ancora state abolite e che Stalin farà sostituire da semplici stellette rosse.
Passati automaticamente dal regime zarista al governo provvisorio, quegli «schiavi», quegli «automi», definiti tali da Custine nel 1839, nelle sue Lettere dalla Russia, continuavano a vivere in appartamenti-prigione e a lavorare in edifici amministrativi lugubri. Poco inclini all’iniziativa, all’ideologia, alla rivendicazione dei «diritti dell’uomo», all’arte e poco interessati a tutto ciò che non toccava direttamente il loro salario, la loro carriera e, per finire, le loro medaglie e la loro pensione, gli uomini di questa categoria che più tardi sarà impropriamente definita «nuova classe» erano però collettivamente invincibili e sopravvissero anche al proletariato.

La mostrina cambia, l’uniforme resta

Con l’uniforme imitata da quella dei funzionari ma in formato ridotto, con il cranio raso come una volta, anche i liceali rientravano nelle loro scuole-caserme. Quando ci si staccava dal paesaggio naturale russo, dall’«atmosfera cosmopolita» e lussuosa dei ricchi e dalla bellezza intrinseca della città e delle sue luci, il paesaggio umano sembrava tornare alla pesante atmosfera da dormitorio, da grigio ufficio amministrativo che accompagnava fin dal XVIII secolo la mobilitazione permanente di un popolo organizzato in «esercito civile». Completando questa uniformazione, i soldati, a mezza strada fra i ragazzi e i vecchi, rappresentavano il terzo elemento intermedio del puzzle di una società militarizzata, gerarchizzata, erede assai più di Pietro il Grande che di Lenin, e che il comunismo non potrà fare a meno di ereditare. Quarantasette anni dopo il 7 novembre 1917 le strade sovietiche continuavano a presentare lo stesso aspetto grigio, triste, monotono, dovuto a una popolazione che continuava a portare giacche verde scuro, pantaloni blu scuro, le stesse uniformi a metà fra il civile e il militare mentre i liceali, pur avendo adottato il fazzoletto rosso dei pionieri, e nonostante la spontaneità dell’infanzia, continueranno ad avere un’aria da soldatini orfani.
Quando i tram sparirono, quegli automi in uniforme dai riflessi condizionati continuarono la loro traiettoria abituale dalla casa-dormitorio al ristorante-mensa, all’ufficio-prigione, in mezzo alla carreggiata, fra i binari abbandonati, tanto era vivo fra quei precursori di Pavlov l’«istinto» del tram che aveva contribuito alla Rivoluzione di Febbraio e di cui quella d’Ottobre voleva liberarsi.

Verso il regno dei «cafoni»

La rivoluzione non riuscì dunque a cancellare l’uniforme dalla vita russa ma ebbe facilmente ragione dell’aspetto cosmopolita, capitalistico, pubblicitario della società senza rendersi conto che distruggendo i vizi del capitalismo rischiava anche di far perire o almeno di «addormentare»1 per un lungo periodo l’anima infinitamente più complessa di tutto un popolo preso nel suo complesso e non solo di alcune sue classi, le sue ricchezze mistiche come la sua accumulazione artistica e intellettuale, la femminilità e la civetteria delle sue donne come la leggerezza sbarazzina della sua gioventù, l’esperienza dei suoi vecchi come la raffinatezza delle sue élites, e l’ardire creativo e gratuito dei suoi artisti. Come nei momenti più avanzati della Rivoluzione francese, l’«intelligenza per l’intelligenza» diventò sospetta mentre la devozione rozza anche nei suoi istinti scatenati fu considerata rivoluzionaria. Era venuto il momento della dittatura del proletariato ed esso era il predestinato, il salvatore, l’eletto anche se stuprava, uccideva, rubava: la sua qualità di lavoratore era un passaporto per l’impunità e per un’aureola da santo. In questo periodo tumultuoso che Gor’kij definirà «il regno del cafone» si sarebbe potuto gridare «Abbasso l’intelligenza!».
Gli antiquari scomparvero, come l’umorismo, la galanteria, il balletto russo, l’eleganza, la musica di Stravinskij. Non pochi artisti e poeti consapevoli di quanto c’era anche di evidentemente grandioso e smisurato in una rivoluzione, nelle speranze e nelle possibilità di sviluppo a lunga scadenza che presupponeva cercarono di servirla o di viverci dentro ma molti dei primi saranno costretti all’emigrazione e molti dei secondi al suicidio.

La Belle Époque ghigliottinata

L’esecuzione della Belle Époque commerciale e pubblicitaria – rimpianta da alcuni – non ebbe gli stessi pericolosi effetti a lungo termine anche se, come nella parabola della pagliuzza e della trave, le abitudini hanno più peso, nella vita quotidiana, dell’educazione e della cultura.
La Banca dell’Impero aveva cominciato col cambiare nome e venne confiscata il 27 dicembre. Il Café de Paris chiuse, come la Dacia di Ernest, il ristorante Albert con la sua bellissima vista sulla prospettiva Nevskij, il Leinner dove si beveva birra a fiumi e tanti altri. Che cosa avrebbero potuto fare quei locali, una volta scomparso il loro pubblico?
Questa sparizione non avvenne comunque da un giorno all’altro ma a poco a poco, in forma progressiva e inesorabile, nella misura in cui nelle condizioni estreme in cui il Paese si trovava non si avvertivano più i bisogni di quelli che erano tempi felici per alcuni, per altri di totale incoscienza. Il nuovo catalogo dei bisogni istituito in base a un denominatore comune, strumento sicuro ma non unico per giungere a una civiltà di massa, non richiedeva più ad esempio l’uso delle lingue straniere perché quello che era necessario era insegnare alla maggior parte della popolazione a leggere e scrivere in russo. Scomparve dunque – per fortuna – quella specie di «franrusso», forma degenerata del francese di Voltaire, che nel XVIII secolo era usato dagli aristocratici ed era ormai diventato il gergo dei giovani snob di Pietrogrado frequentatori di Flemming o del Circolo del velocipede.
Il lusso, la gaiezza, la gratuità, l’intelligenza, alcune libertà essenziali scomparvero in questo processo che rispondeva alla logica impietosa e cieca che si proponeva di cancellare d’un sol colpo il passato in nome dell’avvenire, di distruggere i beni attuali in nome della prosperità futura e che in questo caso colpiva indistintamente il superfluo come l’essenziale, liberando un popolo di alcuni suoi vizi ma privandolo anche di alcuni suoi valori che dovrà poi cercare con molta difficoltà di ricreare talvolta invano molto più tardi.
Del resto la fine della Bella Époque non coincise solo con quella del capitalismo ma anche con quella di un certo tipo di individuo che lasciò il posto all’uomo-massa che costituisce la potenza materiale delle nazioni. Contrariamente a quanto aveva progettato, la Rivoluzione russa non avrebbe provocato la caduta immediata del capitalismo ma la sua trasformazione al servizio della civiltà di massa anche se quest’ultima avrebbe dovuto conformarsi all’ideale, al denominatore comune del comunismo.
Davanti a questo tragico errore non è poi tanto importante che i «piccoli cantori di San Giorgio» celebrassero il 6 novembre i loro ultimi vespri alla chiesa di Santa Caterina. Ma vogliamo ricordare, per lo stato civile che continuava a segnare nascite e morti, che Grundwald vendette la sua ultima pelliccia a 15.000 rubli alle 17,45 e che le vetrine dei librai Millier e M.O. Wolf caddero definitivamente nell’oscurità alle 18.

La pubblicità si spegne

Questi ultimi fuochi della secolare San Pietroburgo si aprivano ancora un varco nella nebbia gelida di quest’ultima sera di novembre che soffiò su tutte le candele, fece sparire per i buongustai tutti i dolciumi di Andreev e per i ghiottoni i piccoli pâtés di carne di Filipov. Ancora un breve istante per i pietroburghesi che mettevano la bellezza della loro città al di sopra di tutto e il vaporetto2 della banchina Mojka partì ancora alla volta dei siti incantevoli di quella Venezia nordica. Per l’ultima volta alle porte dei grandi alberghi i berretti dei fattorini, arancioni, rossi, azzurri, balzavano ancora sulle punte delle dita come nei quadri di Chagall.
Le insegne dei negozi rivelavano che il commercio di lusso era quasi sempre straniero, si trattasse del pasticciere Dominique o di prodotti come i kimono giapponesi che furoreggiavano nei grandi magazzini. Invece i celebri magazzini Eliseev, che erano russi, si perpetueranno sotto le spoglie di magazzini GUM. Il mondo occidentale si manifestava sia nella forma «a credito» di Singer sia in quella «fuori serie» di Rolls Royce.
Prima che su tutto ciò calasse la «cortina di ferro», anche la pubblicità faceva parte del quotidiano. Osserviamo per un istante questa forma di cultura ancora balbettante e qui nata morta, trascinata nel fiume lavico di un terremoto sociale che riguarda più gli specialisti di scienze umane che gli archeologi e gli storici, perché ovunque, tranne che in Russia, essa crebbe e si sviluppò in forme gigantesche, velenose, dando il tono alle civiltà occidentali. «Sognate una crociera sui battelli di lusso della Compagnia americano-norvegese? I viaggi Benner, 42 Nevskij, possono consegnarvi un ultimo biglietto col timbro del 7 novembre 1917.» «Fate fatica a radervi? Il rasoio Apollon vi farà le guance di un dio di Prassitele.» «Avete mal di denti?» Il dentifricio antisettico di origine francese del «benedettino di Soulac» non guariva dall’alito cattivo – nel 1917 non si osava ancora parlarne – ma dalla gengivite. Infine per i calvi c’era la tintura del dottor Richard che faceva rispuntare capelli e barbe.
Domani queste piccole miserie non verranno più rivelate ma questa pubblicità ancora timida ci permette di comprendere meglio perché ancor oggi in Russia si prova una sensazione di ritorno all’indietro, come se ci si potesse ritrovare un passato fissato al tempo di quel 7 novembre ma ancor vivo.3 Esso infatti continua a vivere nel presente con tutto un popolo, nei suoi usi e nei suoi costumi e ne accompagna la vita quotidiana conferendole uno stile speciale. Lo stile di cinquant’anni fa, dell’ottimismo totale ed esasperante, del sentimentalismo eccessivo, del senso soffocante della famiglia, dell’ideologia magniloquente della ricchezza per tutti, della pace per tutti, della gloria, della bandiera, virtù del passato che implicano anche una serie di vizi del passato: il conformismo, il puritanesimo, la museificazione, l’assenza di sensualità e di senso critico, il cattivo gusto, la fuga nel ripiegamento su di sé, l’infantilismo, l’irresponsabilità e infine la consegna, ovunque accettata, dei destini del Paese alla burocrazia o a un capo.
Altrove la pubblicità che era una modesta lucertola si è fatta grande come un dinosauro, qui si è rimasti fermi al 1917, ai tempi dei nostri nonni, dei loro costumi provinciali e puritani. La lucertolina non è cresciuta. Dal punto di vista dello sviluppo della cultura dell’immagine siamo sempre a Lilliput.

I giornali requisiti all’alba

Come potremo immaginare, a questo punto, il sonno beato degli innamorati che sarà guastato in serata, nell’oscurità profonda di quella prima mattina grigia del 7 novembre e quello delle persone «perbene» che ancora ieri al risveglio leggevano la «Malenkaja Gazeta» («Il Piccolo Giornale») con i suoi titoli a caratteri cubitali che chiedevano «un pogrom immediato contro gli ebrei e i bolscevichi»? Altri, insonni, avranno pensato ansiosamente alla partenza annuale d’inverno per la «Côte d’Azur»4 mentre la cameriera ancora insonnolita faceva i primi passi nella casa, accendeva il samovar e la stufa olandese di porcellana, preparava sui vassoi i vasi di marmellata di kljukva5 e di lampone e i panini, gli ub uločki della prima colazione.
Rientrando a casa all’alba nella camera «calda» che occupava all’hotel San Remo sulla pro...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La vita quotidiana in Russia ai tempi della Rivoluzione d’ottobre
  4. Cronologia della Rivoluzione russa
  5. Introduzione
  6. PARTE PRIMA. La caduta di San Pietroburgo
  7. PARTE SECONDA. Sotto il potere dei Soviet
  8. Copyright