Io ero arrivata per prima, ma dopo un po’ c’eravamo tutti, tutti più qualcun altro. Non pioveva da settimane. Stavamo bene. Così decisi che quell’estate, di tutte le estati, doveva essere indimenticabile. Il trofeo della memoria. La conchiglia nel cassetto, pronta a collegarsi col passato in uno sciacquio telefonico. L’estate che ogni bambino ricorda quando non è più un bambino, eppure la sua memoria è inchiodata là, parziale, incompiuta, frammentaria, beffarda: non mi riavrai, non mi riavrai.
Non ti riavrò, mi dissi, ma per adesso non ti ho ancora creato: quindi sei mia.
«Oggi che cosa fa il gigante?»
Siamo seduti in cerchio, io e Guido, o meglio, lo saremmo se ci fossimo tutti, lo saremo quando ci saremo tutti. Adesso facciamo uno spicchio, io e lui e basta. Guido è sempre il primo ad arrivare la mattina, la sua nonna è una di quelle vecchie con la gonna rimboccata sotto le mutande – un galleggiante, un sedere posticcio – che bordeggiano a dieci metri da riva con l’acqua a mezza coscia perché fa bene alla circolazione. Eccola là: ha il cappello di paglia con la tesa sfilacciata, il vestito blu a pallini infagottato sui fianchi, e naviga dondolando, come una papera. Da qui non riesco a vedere, ma so che il solco tra i seni a cono del costume imbottito è pieno di rughe ripiegate con ordine, di una pelle bruciata, e che tra una piega e l’altra si celano i pendagli di una catenina d’oro, medaglie o piccoli oggetti che non sono mai riuscita a vedere bene, tanto affondano nella carne asciutta. La nonna di Guido è buona, lo lascia stare, gli compra i bomboloni e la frutta candita, gli dà un sacco di soldi per la sala giochi. «Nonne così non ne fabbricano più, Guido» dico soprappensiero tornando a guardare lui, e lui mi fissa strano, senza capire, e poi dice, impaziente: «Va bene, ma il gigante che cosa fa?»
Non ho ancora deciso. Può anche darsi che oggi il gigante non faccia niente. Succede. Intanto stiamo qui, noi due, nel nostro posto dietro le cabine, solenni come due capi indiani immersi in un silenzio mistico, a goderci la solitudine mentre la spiaggia si riempie molto piano e molto piano prende colore.
Lui tace e costruisce un cumulo di sabbia con le mani, poi lo disfa, poi lo rifà. Aspetta.
Passa Luciano, ci guarda, sorride, si ferma: «Oggi cosa fate?»
Gli sorrido in risposta, lo guardo di sotto in su. Luciano è bello. Ha denti molto bianchi in una faccia molto scura, un po’ da pellerossa, con gli zigomi in fuori. Zigomi, zigomi, è una parola che ho imparato da poco, mi piace il suono che fa. Capelli nerissimi. Alto, muscoloso ma non troppo. Quella pancia così piatta, segnata da tante cicatrici. Dice che l’hanno operato da piccolo, ma io preferisco pensare a oscuri regolamenti di conti, lame che scintillano alla luce dei lampioni, gemiti soffocati, sangue nero sulle mani. Sono sicura che vince sempre lui, e il fatto che sia qui ne è la prova. Ha le gambe sottili, peli che si arricciano, non troppi. I piedi magri, unghie di madreperla. Così vicini alle mie mani, adesso.
«Aspettiamo gli altri» dice Guido.
«E poi andate a fare i soliti guai?»
Luciano ci prende in giro, per essere una banda siamo molto ordinati, non diamo fastidio. Altrimenti non sarebbe così gentile. Dei bagnini è quello che ci tratta meglio, per gli altri siamo trasparenti, lui no, ci saluta sempre, esistiamo, ogni tanto paga il ghiacciolo a tutti. Io lo adoro. Ecco che va via con un ultimo lampo di sorriso, portando due lettini di legno, uno per braccio, senza sforzo apparente. Prima di uscire sul moscone a volte dà una mano con i lavori ordinari, anche se lui è il bagnino del salvataggio, non uno di quelli che ramazzano la sabbia, sistemano gli ombrelloni e puliscono i bagni con la canna dell’acqua. Lui è un essere superiore, una divinità marina che ogni tanto si degna di scendere a terra e camminare fra noi. Guardo il gonfiore tenero dei bicipiti, la curva delle spalle che si sciolgono nei fianchi.
«È forte, Luciano, eh?»
Guido è piccolo, ma non tanto. I nostri sguardi s’incrociano, il suo ha una scintilla di beffa che si spegne subito, a comando. Aspettiamo.
Arriva Nina, di corsa. Lei corre sempre, è il suo modo di stare al passo con noi, con quelle gambe minime, quel suo aspetto elfico. Filippo la chiama Legolas perché ha i capelli biondi lunghissimi, il genere di capelli mantello che non si scompongono mai quando si muovono, i capelli che vorrei avere io. Mi ricordo una fiaba ma non il titolo, comunque c’era un principe che voleva sposare la più bella delle principesse, e allora grazie a un mago prendeva un pezzo di ciascuna, i capelli d’oro della principessa d’Inghilterra, gli occhi neri come il carbone della principessa di Portogallo, la pelle d’ambra della principessa d’Africa, la bocca di rosa della principessa di Spagna, e poi metteva tutto insieme e veniva un vero orrore, perché i capelli d’oro non stavano bene con gli occhi neri e con la pelle d’ambra facevano un contrasto terribile, anche la bocca di rosa non c’entrava niente, e allora il principe chiedeva al mago di rimettere tutto a posto e sposava la principessa di Spagna con la sua bocca di rosa, che era tanto simpatica anche se aveva una gamba più corta dell’altra. Quello che la fiaba non dice è come sono rimaste le varie principesse mentre il mago si prendeva la loro parte migliore, se al posto di occhi e bocche è comparso un vuoto o se le parti mancanti sono state sostituite da pezzi di ricambio, un naso troppo grande, occhi troppo vicini, capelli ispidi. C’è sempre qualcosa che le fiabe non dicono.
Comunque, io vorrei i capelli di Nina, ma se li avessi sarei diversa, non sarei io, forse sotto capelli diversi avrei anche pensieri diversi, e allora non so se alla fine lo farei, questo cambio prodigioso. E Nina è tanto carina così che sarebbe un peccato farla a pezzi come una bambola vecchia. Arriva e senza quasi doversi chinare mi dà un bacio sulla guancia. Poi si lascia cadere a terra, vicino a me, troppo vicino, con tutto lo spazio che c’è, la pelle della sua gamba contro la mia. Cerca un contatto. Glielo concedo. A volte, quando è sera o notte e siamo ancora insieme e siamo seduti da qualche parte per le ultime parole, mi si rannicchia in braccio. Ha sempre un buon odore di testa pulita e pelle di bambino piccolo, latte e lacrime, immagino, una miscela così, potrebbero farci un profumo e io lo comprerei subito, non per usarlo, no, solo per aspirarlo dal collo della bottiglietta e cercare di ricordare com’ero. All’età di Nina venivo già qui in vacanza, ma dovevo sempre stare nel raggio dell’ombrellone, ero come un cucciolo legato, se andavo troppo oltre uno strattone della corda mi strappava indietro. Adesso è diverso.
«Cosa facciamo?» chiede, fiduciosa.
«Aspettiamo gli altri» risponde Guido per me.
Eccoli, gli altri.
Mi alzo, Guido e Nina con me. «Oggi andiamo fino al molo e ritorno.»
«Ma è lontanissimo» dice Asia con una smorfia. Ha gli occhiali di plastica trasparente a fiorellini rosa, elastici rosa a strizzarle le codine, il costume rosa. Non le si vedono gli occhi, ma li so scuri, lampeggianti.
«L’ha detto il gigante?» chiede Roberto.
Non dico di sì, non dico di no. Mi limito a guardarli uno per uno, alta fra i piccoli, a parte Filippo e Roberto.
«Se camminiamo molto piano non ci stanchiamo. Vero?» dice Nina, e m’infila una mano nella mano. Piccola, calda, asciutta.
«Io sto vicino a te» dice Roberto, e mi prende l’altra mano con la sua. Grossa, calda, umida.
«Dopo una mareggiata ci sono sempre un sacco di cose interessanti» dice Filippo, e fa per avviarsi. Si dovrà pur partire.
«Lo diciamo alle mamme?» chiede Asia, ancora indecifrabile dietro gli occhialetti. Forse spera di essere salvata da un saggio diniego adulto, troppa strada, fa troppo caldo, stai qui con me, da brava. Ma sa che alla fine si pentirebbe di essere rimasta indietro, da sola, sotto il disco dell’ombrellone, a consumare una mattina infinita e vuota.
«Chi vuole lo dice. Noi intanto andiamo avanti» taglio corto.
Nessuno sceglie la fuga. Andiamo.
«Cinque anni» dice Filippo, e spinge via con un legnetto il mozzicone col segno rosso delle labbra di una donna. «Vent’anni.» E dà un calcio al sacchetto stracciato di nylon, è di un supermercato, sono rimaste solo due lettere del nome, il resto l’hanno mangiato i pesci. «Cinquecento.»
«Cinquecento cosa?»
«Cinquecento anni. Quella lattina ci mette cinquecento anni a degradarsi.»
È affascinante, penso. Allora si potrebbero mettere i messaggi in lattina, trovando il modo di chiuderla bene. Invece che in una bottiglia. Come se mi leggesse nel pensiero, Filippo dice: «Eh, no. Anche mille. Una bottiglia di vetro ce ne mette anche mille. Erano pazzi, tutti quei naufraghi. Nemici dell’ambiente.»
Un po’ in anticipo, penso io. E immagino che arrivi qui, proprio qui, la famosa bottiglia di mille anni con dentro un messaggio scritto in latino. Per decifrarlo bisognerebbe lanciare un messaggio dall’altoparlante: “Uno che sa il latino è desiderato in direzione”. E quello che sa il latino si alza di scatto dalla sdraio e si avvia correndo perché la sabbia scotta, e tutti lo guardano, convinti che debba fare da interprete per un uomo antico venuto da una dimensione parallela che vuole affittare un ombrellone e due lettini in prima fila per una settimana.
Poi ripenso alle lattine di cinquecento anni, e dico: «E il tetano?»
«Cosa?» dice lui.
«Il tetano. Secondo te dopo cinquecento anni i batteri del tetano su una lattina sono ancora vivi?» Penso che quello che ha buttato la lattina in mare, immagino un ragazzo sgradevole che l’ha lanciata da una barca, potrebbe contagiare un bambino fra cinquecento anni, uno del futuro che le malattie non sa nemmeno che cosa sono perché sono state tutte debellate, come il vaiolo, la mamma ha il tondino della vaccinazione sul braccio e io no perché non si fa più, e invece zac, il bambino del futuro con la sua tuta verde acido tocca questo strano cilindretto di latta antica e si taglia e muore dopo due giorni in preda a tremendi spasmi muscolari senza nemmeno sapere perché. Io conosco gli effetti di un sacco di malattie. A casa della nonna c’è l’enciclopedia medica, tre volumi, A-Ferro, Ferro-Pine, Pine-Zu. A leggerla c’è da spaventarsi. Perché l’epilogo è quasi sempre lo stesso: “e poi sopraggiunge la morte”. Anche alla voce morbillo, o influenza. Ci sono un mucchio di complicazioni impreviste nei malesseri più semplici.
«Un cotton fioc dura tra venti e trent’anni.» La voce di Filippo mi riporta qui. Siamo sani, siamo vivi. È chiaro che sul tetano non sa rispondere.
Camminiamo, adesso siamo davanti alla spiaggia non libera e gli orrori per terra non ci sono più. In compenso ci sono i piedi intricati delle persone della prima fila, che stanno praticamente in acqua e alzano gli occhi dal giornale e ci guardano con astio perché diamo fastidio, siamo troppi, facciamo ombra, siamo intrusi. Presi uno alla volta saremmo innocui; così, tutti quanti, diventiamo sospetti, pericolosi. Ci piace, è uno dei motivi per cui stiamo insieme, suppongo. E poi se siamo insieme i nostri adulti ci lasciano andare dappertutto. Si fidano del mucchio.
Cammina cammina, finalmente la scatola grigia del molo si comincia a vedere tra il rosa madreperla della gente che marcia come noi, avanti indietro, avanti indietro. Avranno la molla? Guardo le schiene di chi ci precede, mi volto a controllare quelle di chi ci ha incrociato. Niente. Chissà perché vanno. Chissà perché andiamo. Non me lo ricordo più. Lo ammetto, ad alta voce.
«Al mare si fa così» semplifica Nina, che mi ha lasciato la mano e saltella e mi urta cercando di evitare le onde che le agguantano le caviglie. «Si fa la passeggiata, poi il bagno, poi la doccia.»
«Si torna alla pensione, c’è il pranzo, il sonnellino» continua Asia.
«Io non dormo, io sono grande» la interrompe Roberto.
«E poi si torna in spiaggia, si fa il bagno, merenda, a casa, la doccia vera con lo shampoo e tutto, la cena» conclude Nina. Lei non è in albergo, è una da appartamento, come me.
«E dopo? Voglio dire, stasera che cosa facciamo?»
«Andiamo a mangiare il gelato al Nuovo Fiore» propone Guido.
Il Nuovo Fiore è lontano, lontanissimo. Nella calca del passeggio, dovendo stare tutti insieme come un branco, non si arriva mai. Ma proprio per questo possono succedere un sacco di cose, strada facendo, andata e ritorno. Quindi è una buona idea, anche se non è venuta a me.
«E il gigante cosa dice?»
Ha parlato Asia. Per farlo si è fermata, e ci fermiamo tutti. Facciamo cerchio attorno a lei. Ci guarda di sotto in su, piccola. Oggi la mamma le ha fatto otto codini. Ha la testa divisa a zigzag come se fosse una bambina nera, e questi otto grumi di capelli ricci, scuri, che si aprono come fiori sopra gli steli di elastico colorato.
Aspettano tutti, in silenzio.
«Oggi il gigante è in vacanza» dico io. «Quindi facciamo quello che vogliamo. Quindi possiamo andare al Nuovo Fiore come dice Guido.» Lui mi sorride, illuminato.
Riprendiamo a camminare verso il molo che è la nostra destinazione. Arrivati là, lo toccheremo, ci volteremo e torneremo indietro, come se fosse un gioco. Ma piano, perché la st...