Sulla strada verso casa già piangevo, guardandomi le punte consumate delle scarpe.
Lasciavo che il mento mi toccasse le clavicole perché i capelli potessero coprirmi il viso. Non volevo che qualcuno si accorgesse delle mie lacrime: ero forte, volevo continuare a mostrarmi tale.
A ogni passo mi facevo sempre più pesante, gravavo sulle ginocchia come se portassi un’altra me in braccio. Tutt’intorno era il cemento dell’abusivismo edilizio, facciate mai terminate lungo la discesa del ritorno da scuola, che adesso sembrava la salita dell’andata, talmente mi pesava il cuore.
Negli occhi, cascate di delusione e autocommiserazione per quell’incapacità di difendermi dalla vergogna, per non avere mai la risposta pronta, per arrivare a formularla sempre troppo tardi, ché il sangue mi bolliva fino al cervello e non c’era modo di sembrare migliori, ma solo inetti.
Con i piedi dentro alle scarpe di tela bianca, a ogni passo scivolavo sul ciottolato, bollente per il sole a picco, i calzettoni di cotone tirati fin sopra le ginocchia e il grembiule blu lungo fino ai polpacci, i primi a coprirmi le gambe, il secondo a nascondere le cicatrici e le croste che mi procuravo tutte le volte che uscivo di casa per giocare. Sulle spalle, uno zaino dell’Invicta fucsia e nero, carico di libri pieni di domande alle quali non sapevo rispondere, e un diario scritto fino alle ultime pagine di settembre, ché il futuro doveva ancora arrivare e già mi sembrava un inferno.
In lontananza suonavano le campane del convento a ricordarmi che piazza Dante, in cima alle mie preoccupazioni, sarebbe diventata un incubo da vivere tutti i giorni, escluse le domeniche, per i successivi cinque anni.
Mi sbottonai il grembiule all’ombra dei balconi di via degli Invalidi per prendere un po’ d’aria e scacciare dalla mia testa l’eco dolorosa della voce di Giulio e del riso sfottente degli altri compagni di classe. Provai a specchiarmi nel riflesso dei finestrini di alcune macchine parcheggiate a intralcio, per capire se le parole del bambino più bello della scuola fossero vere. Mi portai la mano alla bocca, un po’ per turbamento, un po’ per sentire con le mie stesse mani se fosse così evidente quello che, fino a prima di quel giorno, non era mai stato un difetto, ma che sulla bocca d’altri lo era diventato.
Arrivata davanti al portone di casa, mi allungai sulle punte dei piedi per suonare il campanello e, forse, trovare conforto nella voce di mia madre, nell’amore incondizionato, quello che sa mentire senza saperlo, perché l’amore è cieco, ma quello di una mamma di più.
Cupo sfondo sonoro della mia lentissima salita al secondo piano, il rimbombo della chiusura del portone si propagò nella tromba delle scale mentre io rimuginavo su quel gigantesco difetto, motivo di scherno per i miei compagni e dunque di disperazione per me. Quanto potere hanno le persone attorno a noi di decidere chi siamo e come dovremmo essere? Avrei voluto nascondere le mie apprensioni dietro un sorriso ma, da quando mi era volato via il numero undici della semiarcata superiore destra (così aveva detto il dentista alla mamma), per un calcio in bocca preso accidentalmente mentre guardavo mia sorella dondolarsi sull’altalena, avevo perduto l’abitudine di sorridere, anche se per finta.
A bocca chiusa, entrai in casa mentre mia madre finiva di affollare la tavola di cibo.
«Ciao, com’è andata?»
«Bene.»
«Cos’avete fatto oggi a scuola?»
«Niente.»
Cercavo di evitare la conversazione nel vano tentativo di non destare sospetti, ma sul volto le si leggeva l’espressione tipica di chi ha colto un problema, ma non indaga oltre, perché le polpette sul fuoco si stanno bruciando.
Messa in salvo dal piatto forte della mamma, mentre attraversavo il corridoio per andare in camera, incrociai la mia piccola figura nello specchio.
Mi avvicinai sempre di più alla mia gemella, fino a toccarla con la punta del naso per vederla da vicino e trovare una soluzione a quell’alone che sembrava disegnarle gli occhi, il naso e ancora giù, fino alla bocca.
Portai l’indice sulla lingua per inumidirlo con un po’ di saliva e iniziai a strofinarlo sul nero, sperando fosse solo una macchia, ma non cambiò nulla.
Lanciai lo zaino e il grembiule in camera, verso lo spazio, senza la preoccupazione di dove potessero atterrare, e mi infilai in bagno, chiudendo la porta a chiave.
Dentro all’armadio degli asciugamani, sul primo ripiano c’erano gli shampoo e le creme di mamma. Nello sportello sotto il lavandino di marmo, «che guai a te se lo bagni, ché il marmo poi si macchia e me lo rovini», c’erano tutti i prodotti di papà: il profumo Hugo Boss, la schiuma da barba e il rasoio blu.
Afferrai la lama dall’impugnatura con la stessa dimestichezza con cui impugnavo il coltello, cioè molto male. Salendo su uno sgabellino, mi avvicinai al grandissimo specchio nuovo di zecca di mamma e, con la paura negli occhi e il cuore che batteva come un martello pneumatico, appoggiai la lama alla sommità delle labbra e accarezzai la pelle dall’alto verso il basso per tre volte, prima a destra, poi a sinistra e infine in centro.
In piedi sul trespolo davanti allo specchio del bagno, da un’altezza non mia, mi venne da piangere di nuovo, stavolta per la paura d’aver fatto qualcosa di irrimediabile.
In lontananza, la voce di mia madre mi richiamava a tavola gridando: «Anna!!! Anna!!!». Dentro di me, quella di Giulio gridava: “Baffuta!!! Baffuta!!!”.
«Benedici, o Signore, questo cibo che ci siamo procurati usando dei tuoi doni e della tua grazia. Dona a tutti il pane quotidiano: specialmente ai poveri e ai bambini.»
«Amen.»
Io “Amen” lo dissi un filo in ritardo, ancora stupita e con la forchetta in mano, pronta ad addentare la carne alla pizzaiola della mamma di Egle.
Era la prima volta che andavo a pranzo a casa di estranei e non potevo immaginare ci si facesse il segno della croce prima di mangiare, visto che a casa mia non lo avevamo mai fatto… Quindi, quando il papà di Egle aveva iniziato a recitare la preghiera, io, per non essere da meno, con lo sguardo perso oltre la bottiglia d’acqua naturale, avevo giunto le mani al petto come tutti i commensali, ma senza mollare la forchetta, che a quel punto sembrava la spada nella roccia.
Rimasi in un malcelato imbarazzo per pochi secondi, con la bocca socchiusa. Non avendo nient’altro da dire, la riempii subito con la carne.
Ogni tanto lanciavo un’occhiata curiosa al capotavola e scorgevo nel suo volto i lineamenti di Egle, mentre Giada, la sorella più grande, era identica alla loro mamma, un’insegnante della nostra scuola.
Egle l’avevo conosciuta in classe. L’avevo vista arrivare con i suoi occhiali tondi, il grembiule blu e i capelli lisci e biondi avvolti in una fascia arancione, con dei giganteschi fiori sopra.
Aveva la pelle leggermente ambrata e dei denti bellissimi, grandi, bianchi, che quando sorrideva illuminavano l’aula e io volevo andare lì, dove c’era la luce, per starle accanto e poterla accarezzare, scambiare due parole, esserle amica.
Sentii da subito, per lei, una dolce ammirazione e una strana affinità, sebbene fossimo tanto diverse nei modi e nell’aspetto: io, un vanitoso maschiaccio, lei, una vanitosa femminuccia.
Da parte a parte dell’aula, sentivamo la presenza l’una dell’altra, il desiderio che tra noi ci fosse qualcosa di più del saluto del mattino e poi ognuna al proprio banco, io vicina a Tiziana – che piangeva per tutta la prima ora di lezione perché non voleva che la nonna andasse via dopo averla accompagnata – e lei accanto a Stefania, con l’apparecchio mobile ai denti, che ogni S pronunciata era un acquazzone. Sotto la pioggia lei e in una valle di lacrime io, non trovammo il coraggio di accorciare le distanze prima della fine di settembre, quando, durante l’intervallo, Egle si avvicinò al banco sul quale ero seduta, intenta a guardare fuori dalla finestra l’intera scuola che si svagava in cortile prima di ricominciare con le lezioni.
«Cos’hai fatto lì?»
«Mi sono tagliata.»
«Ma hai un baffo sì e l’altro no.»
«Mi sono tagliata male.»
«Perché l’hai fatto?»
«Perché non voglio i baffi.»
«Sei bella lo stesso.»
La guardai dritto negli occhi color miele, per dei lunghissimi secondi, pensando che lei non doveva preoccuparsi di nulla: era bionda dalla testa ai piedi ed era una delle bimbe più belle della scuola. Me ne innamorai presto, infatti, e decisi che sarebbe diventata la mia migliore amica. Per sempre.
La seguivo ovunque, durante la ricreazione le facevo da guardia del corpo, un po’ per gioco un po’ per gelosia. Le volevano bene in tanti e tutti volevano giocare con lei, mentre io l’avrei voluta tutta per me. Per questo provavo a starle accanto evitando che in troppi si avvicinassero, ma era una cosa stupida e io mi sentivo stupida. Mi avrebbe voluto più bene se fossimo state soltanto noi due? Cosa mi aspettavo da quella vicinanza? Che Egle mi vedesse davvero? O forse di essere luminosa come lei?
Dopo un po’ decisi, con tristezza, di guardarla da lontano e di non assillarla con la mia presenza a volte così violenta – violenta di baci, di abbracci, di parole parole parole.
Me ne stetti vicino a Tiziana, che ormai da piagnona si era trasformata nella simpatica cicciottella della classe, e a Valeria, che stava nel banco davanti al mio, era alta poco più del davanzale della finestra e rispondeva all’ironia brutale dei maschietti con un suggerimento materno che funzionava bene: «Nella botte piccola c’è il vino buono!». Quando toccava a me, io mi lanciavo in un meno convincente: «Donna baffuta sempre piaciuta», anche se ormai quasi non mi difendevo più, al massimo incassavo il colpo e speravo di dimenticarmene presto.
Ero impegnata a imparare l’italiano e la matematica. Io sono, tu sei, egli è, uno più uno uguale due e quindi noi siamo.
La maestra Pina ci diceva: «Partiamo dalle basi», ma io le basi le conoscevo già, sapevo leggere, sapevo scrivere e conoscevo le tabelline dell’uno, del due e del tre, ché il nonno, durante l’estate, giocava a insegnarmi un sacco di cose. Così a volte, durante la lezione, mi concedevo delle distrazioni, perché sapevo che quello che non avrei ascoltato non lo avrei comunque perduto. Quindi cercavo Egle, al secondo banco della fila destra, sperando di incrociare il suo sguardo, un tentativo di legame che quasi mai andava a buon fine, visto che lei era sempre concentrata a scrivere, a leggere, a fare qualsiasi cosa che non fosse ricordarsi che c’ero.
Una mattina entrai in classe per prima. Avevo percorso la salita di via Amedeo alla velocità della luce, superando le gambe giovani dei miei compagni di scuola e delle loro mamme – la mia non mi accompagnava mai, perché in casa eravamo troppi e lei non poteva seguirci tutti come un’ombra.
Sistemai lo zaino al mio solito posto, terza fila lato sinistro, guardando fuori dalla finestra gli altri bambini arrivare e riconoscersi e scambiare parole e figurine in cortile, prima del suono della campanella.
A rompere la calma dell’aula piena del mio solo silenzio furono i passi di Egle che, entrata in classe, come spinta dalla sorpresa di vedermi esclamò u...