La luna di Oriana
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La luna di Oriana

  1. 336 pagine
  2. Italian
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La luna di Oriana

Informazioni su questo libro

Lo sbarco sulla Luna, la realizzazione di un grande sogno che infuocò l'immaginario mondiale e segnò i confini di un'epoca. Fu Oriana Fallaci, sempre testimone in prima linea della Storia, a raccontare agli italiani la corsa americana allo spazio, inviata da "L'Europeo" a Cape Kennedy, dove i razzi alti come grattacieli si preparavano a lanciare l'uomo nel futuro. La giornalista intervistò scienziati, medici, scrittori, fisici e tecnici, esplorando da terra lo spazio, vivendo fianco a fianco con i primi astronauti, "queste creature di fantascienza che dalla provincia volano direttamente nel cosmo", per rivelare dettagli, curiosità e aneddoti al pubblico che la leggeva da casa. Una raccolta di articoli, mai apparsi prima in volume, in cui Oriana non racconta solo la Luna, ma quegli eroi dello spazio che furono suoi amici, le missioni indimenticabili, la speranza di trovare vita su Marte, così come avevano immaginato scrittori visionari prima che lo spazio, l'ultima frontiera, diventasse realmente raggiungibile. Una testimonianza sull'avventura più grande del secolo, narrata dalla viva voce di una donna che ne fu parte, e non solo come spettatrice.

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Ubriachi di Luna

L’uomo sulla Luna

Houston, luglio 1969
Ora che lo spettacolo paradossale è finito, il dramma concluso, e i confini della nostra intelligenza e della nostra responsabilità si sono allargati fino al Mare della Tranquillità, ci sentiamo come assuefatti all’idea di possedere la Luna e quasi sorridiamo delle nostre ansie e dei nostri timori: non era così difficile, dicono alcuni, si accende un fiammifero e via. Ci si abitua a tutto, anche al miracolo d’essere usciti dalla nostra prigione di azzurro per approdare a quell’isola brutta: presto ce ne scorderemo, come abbiamo scordato il miracolo del primo pesce che uscì dalle acque per approdare alla terra e diventare un uomo. Ripetere la sfida non ci sembra più un rischio blasfemo, e della meravigliosa avventura non resterà presto che una carnevalata intorno a due piloti cui abbiamo già regalato la patente di eroi, l’immagine sui francobolli, il nome nei libri di scuola, un posto nella storia. Forse il successo ci ha fatto perdere il senso delle proporzioni, forse ciò che è avvenuto è troppo grande per essere giudicato da noi: così come quel pesce non si rese conto di uscire dall’acqua per diventare uomo, noi non ci rendiamo conto di avere toccato un altro pianeta per diventare qualcosa che non sappiamo nemmeno immaginare. Il giudizio spetterà ai figli dei figli dei nostri figli. A noi contemporanei, a noi spettatori, resta solo da narrare ciò che abbiamo visto e udito ora con orgoglio ora con vergogna. Giacché siamo composti dell’uno e dell’altra, e anche nel viaggio alla Luna gli uomini hanno dimostrato la loro bellezza e la loro bruttezza, che è come dire la loro umanità. Ecco dunque la cronaca di quei due incredibili giorni e di quell’incredibile notte come li ho visti a Houston, Texas, dal momento in cui la prima astronave terrestre si posò sulla Luna, il 20 luglio 1969, fino al momento in cui ne ripartì, il 21 luglio 1969.

The Eagle has landed – L’Aquila è atterrata

C’era stata quest’ultima notte durante la quale neanche Armstrong e Aldrin e Collins erano riusciti a dormire bene e avevano sonnecchiato per poco più di quattr’ore: secondo i dati forniti dai cervelli elettronici che da bordo raccontano tutto al Centro Controllo. La notte fra sabato 19 luglio e domenica 20 luglio. I tre astronauti si erano svegliati alle cinque del mattino, ora di Houston, dopo avere orbitato l’altra faccia della Luna, ed era subito cominciato un dialogo tecnico, parametri e traiettorie e costanti, condotto dal Capsule Communicator che per il momento era l’astronauta Ron Evans, e dopo quel dialogo era seguita la lettura delle notizie terrestri, accolta con un distacco quasi sgarbato. «Buzz, tuo figlio Andy ha fatto il giro della NASA ieri pomeriggio e suo zio Bob l’ha accompagnato a visitare anche il laborato…» «Grazie» lo aveva interrotto seccamente Aldrin. Nessuna notizia sembrava interessarli, divertirli, commuoverli, nemmeno quella che in tutte le chiese del mondo si pregasse per loro o che Nixon avesse ordinato una funzione speciale alla Casa Bianca, o che la loro squadra preferita di baseball, la National League, si apprestasse a giocare a Washington con l’American League, o che il titolo di Miss Universo fosse stato vinto da una filippina di diciotto anni battendo Miss Finlandia e Miss Australia. S’erano decongelati un poco solo quando l’astronauta Ron Evans aveva raccontato la leggenda di Chan Go: «Attenti, la ragazza è cinese e si chiama Chan Go. Vive sulla Luna da quattromila anni, rubò a suo marito la pillola dell’immortalità. È facile trovarla perché se ne sta con un grande coniglio all’ombra di un albero di cannella». Con la sua voce di pietra, Aldrin aveva risposto: «OK, Ron. Cercheremo di trovare la ragazza con il coniglio».
Era arrivata questa domenica ma non una domenica come le altre, cioè spensierata, rilassata, festosa. Alle 8, anziché i soliti programmi a quiz, la televisione aveva cominciato a trasmettere servizi speciali che davano l’immagine della nostra galassia, della Via Lattea, del nostro sistema solare, mentre una voce leggeva la Genesi: «In principio Dio creò il Cielo e la Terra, e la Terra era vuota e senza forme, e l’oscurità era sospesa sul Cielo e la Terra…». Del resto molti, quella mattina, citavano la Genesi: preti cattolici e pastori presbiteriani, metodisti, episcopali. A Houston le chiese erano piene, impiegati della NASA scienziati astronauti: v’è un momento in cui la tecnologia non basta più a dare agli uomini fiducia in se stessi e la loro sapienza si disfà in debolezza. Li vedevi entrare e uscire dalle chiese, quegli uomini, tutti compunti, tutti tesi nell’ansia. L’angoscia era aggravata da un cielo livido che annunciava la pioggia e verso mezzogiorno c’era stato uno scroscio rabbioso, scalognatore. Nessuno si sentiva ottimista, tranquillo. Nell’edificio dove la NASA ospitava la sala stampa i giornalisti passeggiavano impazienti. Uno ripeteva: «Non la so scrivere questa cosa, non la so scrivere. Non è una storia da giornalisti, ci vorrebbe Omero». In città, le sole persone che dimostrassero serenità erano le mogli di Armstrong, Aldrin e Collins. Addestrate dai loro mariti, «la Luna è una normale conquista della tecnologia», erano giunte a quel giorno con la principale preoccupazione di apparire graziose in TV e una, la moglie di Aldrin, aveva fatto a tale scopo una cura dimagrante. Grazie a essa aveva potuto esibirsi in costume da bagno sui bordi della sua piscina, offrendosi alla folla e alle macchine da presa della CBS dinanzi alle quali aveva scherzato, sorriso, spiegato che i tre sarebbero allunati e tornati. Cosa di cui neanche von Braun sembrava sicuro. Nell’ultima conferenza stampa gli era sfuggita una frase: «Siamo abbastanza maturi da sopportare lo shock se la missione non sarà completata». Alla cafeteria della NASA, dove era sceso per mangiare un panino mischiato alla folla, von Braun era apparso cupo e aveva rifiutato di firmare una fotografia del Saturno.
E così giungemmo al pomeriggio fatale, quello in cui i due uomini del nostro pianeta avrebbero tentato di sbarcare sulla Luna. Erano due uomini che nessuno aveva scelto perché migliori degli altri e il loro unico merito consisteva nell’essere bravi piloti ma non migliori di altri. Umanamente non valevano granché. Privi di fantasia e di umiltà, prima della partenza si erano mostrati arroganti, durante il volo non si erano resi simpatici: mai una frase dettata dal cuore, un motto scherzoso, un’osservazione geniale. Avevano visto la Terra che si allontanava centinaia di migliaia di miglia e tal privilegio s’era risolto in un’arida lezione di geografia: «Vedo a destra la penisola dello Yucatán, a sinistra la Florida…». Qualcuno li aveva definiti Unmanned Crew, equipaggio senz’uomo. Unmanned è il termine che si usa per le astronavi che non hanno persone a bordo. Amareggiato e deluso dal loro silenzio, li perdonavi solo sapendo che avevano paura, ma neanche ciò bastava ad amarli mentre l’ora si avvicinava. L’ora era fra le tre e le tre e mezzo. Le due macchine straordinarie chiamate LM (N.d.R. Lunar Module, o LEM) e capsula Apollo si erano ormai staccate: l’Apollo orbitava la Luna con Mike Collins, il LM si abbassava sul Mare della Tranquillità con Armstrong e Aldrin. Ma non si chiamavano più Apollo e LM: il primo lo avevano ribattezzato Columbia, dal nome del razzo di Jules Verne, il secondo Eagle, cioè Aquila: simbolo amato dai militari. Nel distintivo fatto disegnare dai tre si vedeva un’aquila che scende con le ali spiegate e gli artigli spalancati fra i crateri della Luna. Osservandolo, alcuni avevano ricordato che l’impegno di sbarcare sulla Luna entro il 1970 era stato assunto da Kennedy dopo la crisi di Cuba, anzi dopo la Baia dei Porci, per scopi strettamente politici. C’era bisogno di una grossa impresa che restituisse prestigio e rispetto agli Stati Uniti e la Luna era apparsa la soluzione più facile e più clamorosa. Ventiquattr’ore avanti, in una trasmissione televisiva, lo stesso Johnson aveva confermato l’amara verità.
Poi, d’un tratto, scoppiarono le tre del pomeriggio. D’un tratto, come questo viaggio che avevamo atteso per anni e a cui, tuttavia, non eravamo ancora preparati. Sai, come quando nasce un bambino e per nove mesi lo si vede crescere nel ventre, si sa che dal ventre dovrà uscire, ma arriva il momento e ti coglie una specie di sorpresa, di panico, nasce il bambino, è appena nato il bambino e ci accorgiamo che non siamo pronti a riceverlo. Non successe nulla di straordinario che ci desse l’allarme, non suonò un campanello, non gracchiò un altoparlante per dirci che erano le tre, forse non guardammo nemmeno l’orologio. Ma all’improvviso ci accorgemmo che l’ora era giunta e tutto cambiò. Non ci importò più che la Luna rappresentasse un volgare scopo politico, non ci importò più che i due uomini scelti dal caso fossero antipatici. La Luna divenne qualcosa di religioso e i due uomini divennero qualcosa di santo: un simbolo di tutti noi, vivi o morti, buoni e cattivi, stupidi e intelligenti, noi pesci che cerchiamo sempre altre spiagge senza sapere perché. E ovunque passò come un brivido, lo stesso che in quel momento scuoteva chiunque ascoltasse una radio, nel mondo, o sedesse dinanzi a un televisore, o sapesse quel che stava accadendo. Le macchine da presa della TV erano puntate sul Centro Controllo dove si dirigono le operazioni di volo. Il Centro Controllo si affollò e dietro un vetro apparve von Braun, con il capo chino e le braccia conserte come se pregasse. Ai tavoli coi monitor e i cervelli elettronici gli ingegneri e gli astronauti e i tecnici si accomodarono meglio le cuffie. Ron Evans si alzò e lasciò il posto a Charlie Duke. Accanto a Charlie Duke soltanto Pete Conrad, il comandante del prossimo equipaggio destinato alla Luna in novembre. Immobili, tutti e due tirati. Nella sala stampa invece si raddoppiò il trambusto, spostare di sedie, squillare di telefoni, battere di telescriventi, urla isteriche. Chi chiamava Tokio, chi Berlino, chi Roma, chi Praga, chi Rio de Janeiro: «Press emergency, press emergency call! Chiamata stampa di emergenza! Emergenza!», oppure: «Il cavo! Il cavo!», altri defluirono verso l’auditorium.
C’era questo auditorium, che è immenso, e c’era questo schermo che è enorme: quattro metri per sei. Si fece buio, si accese lo schermo, e non vi apparve nulla per chi non sapesse ma vi apparve qualcosa di tremendo per chi sapesse: i numeri della conta a rovescio. Le ore, i minuti, i secondi. Le ore erano ormai a zero, i minuti erano dieci, i secondi spaccavano senza darti il tempo di leggerli: macchie luminose tremanti come le nostre mani, i nostri ginocchi. E l’audio martellò, nel silenzio, poi diffuse una voce che era la voce di Charlie Duke, un’altra voce che era la voce di Armstrong. Giungeva disturbata da sibili, fischi, quattrocentomila chilometri laggiù nel cosmo, ma si capiva tutto ciò che diceva, e quel dialogo, Dio quel dialogo, noi che lo udimmo non lo scorderemo mai. Ci saremmo molto turbati, più tardi, a vederlo uscire dal LM e camminare sulla Luna. Però mai quanto nei dieci minuti o dieci secondi che precedettero l’allunaggio. Se chiedi a chi c’era: «Tu hai pianto di più al momento in cui Armstrong ha allungato il piede o al momento in cui il LM si è posato?», la risposta è identica: «Al momento in cui il LM si è posato». Le tre e diciassette minuti e quaranta secondi del 20 luglio 1969, ora di Houston. Vogliamo riascoltare gli ultimi quattordici secondi prima che quel bambino nascesse?
Charlie Duke: «Aquila, qui Houston. Tutto pronto per l’atterraggio. Chiudo».
Neil Armstrong: «Roger. Capito. Pronto per l’atterraggio».
Charlie Duke: «Roger».
Armstrong: «Allarme 12. 12.01».
Charlie Duke: «12.01».
Armstrong: «Siamo pronti. Stai lì, pronti. 2000 piedi. 2000 piedi nell’AGS. 47°».
Charlie Duke: «Roger. Capito».
Armstrong: «47°».
Charlie Duke: «Aquila, siete perfetti. Siete sul go. Go!».
Armstrong: «35°… 750, si scende giù a 23; 700 piedi, 21 e giù. 36°. 600 piedi, giù a 19; 540 piedi, giù a 30… giù a 15; 400 piedi, giù a 9… 8, avanti. 350, giù a 4; 330, giù a 3 e mezzo. L’ago è tutto teso sulla velocità orizzontale… 300 piedi, giù a 3 e mezzo… giù 1 al minuto. 1, 1 e mezzo giù… vedo la nostra ombra laggiù… 50, giù a 2, 2 e mezzo. 19, avanti. Altitudine velocità 3 e mezzo, giù, 220 piedi. 13, avanti… 11, avanti… scende proprio bene, bene. 200 piedi, 4 e mezzo e giù. 5 e mezzo e giù. 170. 6 e mezzo e giù. 5 e mezzo e giù. 9, avanti. 5 per cento, quantità luce 705 piedi, tutto va bene. Giù a metà, 6…».
Charlie Duke: «60 secondi, Neil».
Armstrong: «Accese luci. Giù a 2, 2 e mezzo. Avanti avanti! Bene! 40 piedi, giù a 2 e mezzo… stiamo sollevando polvere… 30 piedi… 2 e mezzo giù… c’è un’ombra debole debole. 4 avanti… 4 avanti, stiamo piegandoci un poco a destra… 6 giù».
Charlie Duke: «30 secondi, Neil».
Armstrong: «Avanti… ci stiamo spostando a destra… contatto luce. OK. Chiudo i motori. Chiudo il controllo automatico. Chiudo il motore di discesa. Motori chiusi. Siamo sul 413».
Charlie Duke: «Ti leggiamo, Neil».
Armstrong: «Qui base della Tranquillità. L’Aquila ha atterrato».
Charlie Duke: «Roger. Tranquillità, ti leggiamo da Terra. C’è un bel mucchio di tipi qui che stanno per diventare blu. Ma respiriamo di nuovo. Grazie infinite».
Nell’auditorium, e anche nel Centro Controllo, le parole di Charlie Duke non le udì nessuno. Perché dopo il messaggio di Armstrong, «qui base della Tranquillità, l’Aquila ha atterrato», la tensione si ruppe e salì al cielo un applauso che era l’applauso più fragoroso e più lungo che avessi mai udito, e insieme all’applauso un concerto di singhiozzi, di urli, di esclamazioni dove il sollievo si univa alla gioia, la gioia allo stupore, lo stupore all’orgoglio, e ciò non soltanto nell’auditorium ma nei corridoi, nelle cabine radio, nelle stanze delle telescriventi, negli uffici, nello stesso Centro Controllo dove mi dicono che von Braun piangesse come un bambino. E piangeva Wally Schirra, e molti degli astronauti, e i direttori di volo. Il volto di Pete Conrad aveva il colore del gesso, quello di Alan Bean che scenderà con lui era terr...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. «Tu li conoscevi, e devi raccontarlo»
  4. Ubriachi di Luna
  5. Non siamo più prigionieri del nostro pianeta
  6. Quel sublime malanno terrestre chiamato fantasia
  7. Fonti
  8. Appendice
  9. Note alle fotografie
  10. Copyright