7.04
Biip-bii-bii-biiip-biiip-ting!
Quando lunedì mattina il telefono suona per avvertirmi che mi è arrivato un messaggio, sono ancora in quello stato confuso tra il sogno e la veglia in cui puoi tranquillamente convincere te stesso di qualsiasi cosa. Tipo che un Mick Jagger adolescente ti sta aspettando sul vialetto per portarti a scuola. O che la tua serie di libri preferita è finita con una conclusione davvero soddisfacente, invece che con quella che l’autore ha provato a far passare come una conclusione soddisfacente.
O che la notte scorsa tu e il tuo ragazzo non avete avuto il peggior litigio della vostra storia – anzi, mi correggo: l’unico litigio della vostra storia.
O che non è stata tutta colpa tua.
Biip-bii-bii-biiip-biiip-ting!
Ma è stata colpa mia.
Mi scuoto dalla trance e scatto per raggiungere il telefono, rovesciando il bicchier d’acqua sul comodino. Che inzuppa la pila di libri di scuola e di fogli accanto al letto, infradiciando il saggio di inglese su Re Lear su cui ho passato l’intero weekend per un po’ di crediti extra. Era la mia unica speranza di trasformare la mia A incerta in una A solida prima che i voti del primo trimestre siano definitivi.
Sblocco lo schermo del telefono al volo.
Per favore, fa’ che sia lui. Per favore, fa’ che sia lui.
Non ci siamo più sentiti dopo che me ne sono andata come una furia da casa sua ieri sera. Una qualche ingenua parte di me pensava che avrebbe chiamato, che non volesse lasciare le cose come stavano. Un’altra parte di me, invece, più delirante, pensava che avrebbe imboccato una stradina sconosciuta, un vicolo, percorrendolo al doppio della velocità della luce per battermi sul tempo, e che sarebbe stato davanti alla porta di casa mia con la chitarra, pronto a suonarmi una dolente ballata d’amore dal titolo Sono un idiota, ti prego perdonami che chissà come aveva scritto lungo la strada.
(Okay, si trattava di una parte di me veramente delirante.)
In ogni caso, nessuna di queste due cose è successa.
Le mie dita esitano ad aprire il messaggio e quasi collasso di sollievo quando vedo il nome di Tristan. Due volte.
Mi ha mandato due messaggi.
Il primo dice:
Non riesco a smettere di pensare a ieri sera.
Oh, grazie Dio! Anche lui sta di merda.
La cosa mi rende talmente felice che vorrei piangere.
Un attimo, però, così suona male. Non è che la disperazione di Tristan mi renda felice. Ma sapete cosa intendo.
Vorrei afferrare Ippopotamo (l’ippopotamo imbottito che ho da quando avevo sei anni) e ballare il valzer con lui per tutta la stanza mentre At Last di Etta James suona piena di pathos sulla colonna sonora della mia vita. (Gli anni Sessanta furono davvero il decennio migliore per la musica.)
Ma poi vedo il secondo messaggio e nella mia mente Etta si blocca con uno stridio.
Dobbiamo parlare.
Okay, respiri profondi.
Non saltare a conclusioni. Potrebbe essere una buona cosa. Potrebbe essere un: “Dobbiamo parlare così che io possa scusarmi a profusione per tutto ciò che ho detto ieri sera e confessare il mio imperituro amore per te mentre passo le dita tra i tuoi capelli e un quartetto ci suona una serenata. O forse un sestetto. Sai quanto adoro il suono del trombone”.
Bleah! Questo suona folle perfino a me.
Siamo onesti: da quando “dobbiamo parlare” è presagio di qualcosa di buono? È il segnale universale di rovina incombente.
È così. Sta per lasciarmi. Ieri sera ho detto solo cose sbagliate. Ho avuto una reazione esagerata. Mi sono trasformata esattamente in ciò che Tristan odia.
Una drama queen.
E in realtà quello che è successo ieri non era chissà cosa. Non so cosa mi abbia preso. Mi sono solo, diciamo… imbestialita. Ho dato la colpa allo stress. Stress violento. Unito alla fame. È stato un momento di stressante, imbestiaffamata debolezza. E ora probabilmente la nostra storia è finita. La cosa migliore che mi sia mai capitata (Okay, l’unica cosa che mi sia mai capitata) e l’ho mandata a farsi benedire.
Immagino fosse solo questione di tempo. Voglio dire, Tristan è Tristan. Stupendo. Divertente. Affascinante. E io sono… me.
No. Stop. Basta autocommiserazione.
Posso sempre rimediare. Non mi ha ancora lasciato. Posso ancora salvare la nave. Devo salvarla. Tristan è tutto per me. Lo amo. L’ho amato fin dal nostro secondo appuntamento, quando mi ha portato al concerto della sua band e l’ho visto cantare sul palco. Trasudava sesso e poesia.
Si può trasudare poesia?
O sesso, per quel che vale?
Vabbe’. Un litigio non fa rottura.
Persevereremo. Our hearts will go on!
Mando a Tristan un rapido messaggio di risposta. Vi infondo nonchalance e libertà di spirito. Sono Ellison Sparks, senza drammi dal 2003!
(Okay, tecnicamente sono nata prima di quella data, ma i primissimi anni nella vita di chiunque sono, per loro stessa natura, drammatici.)
Buongiorno! Non vedo l’ora di vederti!
Premo “invio” con gesto plateale. Poi trovo Ain’t No Mountain Eigh Enough nella mia playlist Psych Me Up, Buttercup e alzo il volume a livello esplosivo!
È quasi impossibile sentirsi giù quando Marvin Gaye e Tammi Terrell fanno il tifo per te da bordo campo. È come se questa canzone fosse stata scritta specificamente per evitare una rottura. È l’Inno dei Salvatori di Relazioni.
Salto in bagno, appoggio il telefono su una mensola e canto a squarciagola mentre faccio la doccia.
«Ain’t No Mountain High Enough… To Keep Me From Getting to You, Babe…»
Ripesandoci, questa canzone potrebbe anche essere l’Inno degli Stalker.
Ma non importa. Funziona. Mentre esco dalla doccia e afferro l’asciugamano, ho davvero il fegato di pensare: “Oggi sarà una buona giornata. Lo sento”.
7.35
Perché dobbiamo scegliere come vestirci ogni giorno? Perché non possiamo semplicemente vivere in uno di quei dozzinali film di fantascienza dove tutti indossano la stessa tuta spaziale al neon e a nessuno pare importare che tutti sembrino dei cloni?
Argh.
Fisso disperata il mio armadio. Oggi è il giorno della foto per l’annuario e devo anche tenere un discorso davanti all’intero corpo studenti per le elezioni d’istituto. Rhiannon, candidata con me, mi ha mandato un messaggio ieri sera per ricordarmi di «avere un’aria vice-presidenziale».
Ora devo trovare un outfit che non solo ricordi a Tristan che è follemente innamorato di me, ma anche che faccia sì che ogni membro del penultimo anno – o almeno una schiacciante maggioranza – voglia votarmi, e dev’essere qualcosa che non mi imbarazzi del tutto davanti ai miei nipotini tra cinquant’anni quando mostrerò loro la mia foto sull’annuario.
Quindi, insomma: niente stress.
Tiro fuori i pantaloni attillati fortunati da una gruccia nella sezione jeans dell’armadio e mi sposto sul rosa. Il mio guardaroba è organizzato per tessuto, colore e stagione. Questo dovrebbe teoricamente rendere la scelta dei vestiti più efficiente, secondo un articolo che ho letto sulla rivista «Getting Organized» due anni fa (sono abbonata da quando avevo dieci anni). Ma oggi penso che nemmeno un personal stylist potrebbe aiutarmi a scegliere la cosa giusta da mettere.
Scelgo una camicetta rosa confetto, abbottonata al colletto, stile conservatore-ma-non-del-tutto-puritano con un cardigan blu scuro dalla sezione autunnale. Poi affronto lo specchio.
Be’. Mica male.
Forse non ho bisogno della tuta spaziale al neon dopotutto.
Mi asciugo e stiro i capelli fino a che non sono (relativamente) domati, ristampo il mio saggio di inglese e prendo la borsa.
7.45
Di sotto il Circo della Famiglia Sparks è in piena attività. Mio padre sta provando a mangiare il porridge giocando contemporaneamente a Words With Friends sul suo iPad: di solito, l’esperimento finisce con lui che indossa la maggior parte del porridge.
Mia madre, la fenomenale agente immobiliare, stamattina è lei stessa un numero da circo. Sbatte credenze e cassetti in cerca di Dio solo sa cosa.
E al centro della pista c’è mia sorella di tredici anni, Hadley, che si infila in bocca cucchiaiate di cereali a palate tra una pagina e l’altra del romanzo per ragazzi al momento in testa alla classifica dei bestseller. Ha questa ossessione di leggere di ragazzi alle superiori. Ho provato a dirle che quattro anni sono già abbastanza. Perché mai ci si dovrebbe voler immergere prima?
Hadley solleva la testa dal libro con ansia appena entro in cucina e chiede: «Ha chiamato?».
Alzo gli occhi al cielo. Perché, oh, perché le ho raccontato della lite? È stata una momentanea mancanza di giudizio. Ero un piagnucoloso ammasso di emozioni e lei era… be’, era lì. A far capolino dalla sua stanza me...