Lo spazzacamino cantava, percorrendo le strade. Così si faceva riconoscere dai clienti, e anche si divertiva. Teneva sempre per mano una bambina bruna, coi capelli neri e ricci, che lo guardava con adorazione: quando lui lavorava, lei sedeva quieta presso il camino o nelle cucine delle case, con un suo pupazzo. Lui aveva una decina d’anni, occhi cilestrini, fini capelli chiari e una carnagione pallida. Diceva a tutti che lei era la sua sorellina minore, e la proteggeva con estrema attenzione. «Si chiama Lena» ripeteva volentieri «e non parla. Si è presa uno spavento da piccola, e poco dopo nostra madre è morta. Papà non sappiamo dov’è, così me la tiro dietro io.» La bambina faceva di sì con la testa, gravemente, e poi abbassava gli occhi.
I due bambini venivano dalle valli del Ticino ogni autunno, migravano verso Sud come le rondini, e giravano in terra lombarda. Arrivavano, lui puliva i camini, lei lo attendeva silenziosa, e poi se ne andavano altrove. Le donne li conoscevano, e li aspettavano ogni anno.
Gli davano qualcosa da mangiare, tenevano Lena al caldo mentre lui si arrampicava diligente su per i camini. La più affezionata era Imelda di Varese. Era una bella donna, un po’ massiccia, dalle guance rosse e dai modi spicci. Non aveva potuto avere dei figli, questo era il suo cruccio segreto. Così per lei l’arrivo di Johann e Lena era il momento culminante della festa d’autunno. La cucina brillava come un gioiello, ogni casseruola e ogni tegame era splendente, sotto il camino in attesa erano allineati scovoli e scopini pulitissimi. E quando le sembrava giunto il momento, lei infornava, infornava: biscotti e ciambelle, dolci allo zenzero e piccoli deliziosi bignè, perché – prima di sposarsi – Imelda era stata cuoca di fino in una grande famiglia milanese. Come avrebbe voluto tenerli con sé! Tutti e due, coccolarli e vestirli, mandarli a scuola e preparare squisiti pranzetti al ritorno! Spazio ce n’era in abbondanza, in casa; e il marito Gelmino era uno di quegli uomini robusti e pacifici, che dicono sempre di sì alle mogli (a parte quel paio di volte l’anno in cui arrivava il cugino Ireneo da Praga, e allora erano sbronze colossali).
Ma in quel novembre del 1924 il tempo era stato particolarmente inclemente, con neve precoce sulle cime e tanto freddo. Imelda si sentiva malinconica e inutile; e quando succedeva, intensificava la produzione di torte e biscotti. Un profumo di vaniglia e spezie circondava in quelle occasioni la sua casa come una bella nuvola grassa, e torme di ragazzini annusavano l’aria e convergevano sicure verso la sua cucina.
Imelda cuoceva e distribuiva, ottenendo in cambio visi felici e sorrisi soddisfatti, ma poi tutti tornavano dalle loro mamme. Così la sua malinconia non si attenuava: lei aspettava il suo spazzacamino. E quando i due bambini arrivarono, la sua gioia non conobbe limiti. Li abbracciò espansiva e si dedicò subito alla realizzazione di una quantità di nuovi luccicanti biscotti, in un’esplosione scintillante di forme e gusti felici, sicché ci mise un po’ di tempo ad accorgersi che dai due visetti che la fissavano trasudava una repressa, remissiva malinconia. Invano dunque gli aveva preparato la sorpresa di un buon letto soffice con la trapunta colorata di sua mamma, col conforto dello scaldino di braci rosseggianti, invano aveva preparato un bel discorso affettuoso e materno per offrire loro la fine del faticoso vagabondare, un tetto e una casa accogliente? Perché quei sospiri trattenuti, quei musi lunghi? Ma Imelda era furba abbastanza per saper aspettare. Gelmino, severamente ammonito, era tornato a casa pieno di buoni propositi, e il cibo fu superbo, compresa una croccante frittata con le patate. E quando il caldo e il sonno cominciarono ad agire, seppe farli parlare: perché scoprì in quel momento che anche Lena parlava, e non era affatto bloccata nel silenzio.
Lena era un’orfana, l’unica sopravvissuta di una famiglia armena di Smirne. Durante l’incendio della città, nella confusione della gente in fuga, intrappolata tra le fiamme ed il mare, aveva perso la mano di sua madre ed era stata trascinata via dalla folla. Un marinaio italiano l’aveva raccolta da terra e portata con sé. Sulla nave non poteva tenerla, e l’aveva ceduta a uno svizzero, che l’aveva a sua volta affidata a un orfanotrofio di Lugano. Ma lei aveva tante paure nel cuore, non sopportava né mura né disciplina: e allora aveva seguito, d’istinto, lo spazzacamino bambino – di poco più grande di lei, ma già esperto della durezza del mondo – che le aveva sorriso come suo fratello Bedros, che una volta le aveva promesso di non lasciarla mai.
Purtroppo adesso qualcuno si era accorto che non erano fratelli, e loro avevano paura. Può questa storia finire come un racconto di Natale, anche in questi tempi bui? Sì: Imelda li tenne con sé, tutti e due, e gli insegnò operosi mestieri. Fece di loro, con antica pazienza, due grani del sale della terra.
La sofferenza dei bambini suscita commozione, empiti di solidarietà, riflessioni, che sembrano a volte fin troppo compunte e seriose, eccessive: e tuttavia è vero che la vista di un bambino terrorizzato, denutrito, preso in mezzo a guerre e combattimenti, smuove qualcosa dentro di noi, ci interroga, ci coinvolge.
Il chiacchiericcio enfatizzante dei giornali poi spegne l’attenzione, in un sovrabbondare di immagini e parole in continua evoluzione emotiva, tenute a livello altissimo per un paio di giorni e poi velocemente cacciate nell’oscurità, dimenticate: sicché, se un lettore è genuinamente interessato a un argomento, non gli sarà facile continuare a saperne qualcosa. Passata la prima ondata, sembra che a nessuno importi più conoscere l’esito delle storie che riempivano le prime pagine.
Questo è certo un dato negativo, di una superficialità banale, che molti biasimano, pur essendo magari poi ghiotti di foto strappalacrime, di notizie strappacuore. Eppure noi siamo già meglio dei nostri bisnonni. Spesso sentiamo elogiare il buon tempo antico, come i cibi di una volta o le verdurine dell’orto vicino; ma spesso e volentieri dimentichiamo quanto la società di cent’anni fa fosse rigidamente divisa in classi che si frequentavano ma non si mescolavano quasi mai (aldilà delle convenzioni romantiche degli amori folgoranti fra principi e povere pulzelle). Era una questione di reciproca utilità: intorno alle case signorili gravitavano mille mestieri, ciabattini e sarte a giornata, lavandaie e levatrici... Le vite si intrecciavano per necessità, non per piacere o per riposo condiviso.
E verso i reietti, i più poveri, c’era l’oblio: erano invisibili. Ma in modo particolare lo erano gli ultimi fra i reietti, i loro bambini; e fra questi, ultime erano le bambine. Matilde Serao, che fu grande scrittrice oltre che giornalista eccezionale, dedicò a loro nel 1883 un libretto di racconti, Piccole anime, di straordinaria tenuta espressiva. Sono racconti brevi, di un realismo incisivo e potente, che donano la visibilità dell’arte ai piccoli personaggi di cui nessuno si occupava, alle umili vite spezzate delle bambine sfruttate e derelitte, abbandonate come merce scadente – e soprattutto sempre affamate.
La rappresentazione del tema della fame raggiunge effetti di straordinaria drammaticità nella descrizione dei corpi delle bambine protagoniste di racconti come Una fioraia e Canituccia: inconsapevoli vittime, che non sanno neppure concepire un altro modo di esistere. Sugli ambienti di sfondo, sordidi e oscuri, dove si svolge la battaglia per la sopravvivenza della miserabile plebe napoletana, nei bassi maleodoranti dove la vita di un bambino conta ben poco, emerge la pietà materna dell’autrice verso quei corpicini femminili disincarnati, ma anche la sua volontà di testimonianza e di rappresentazione.
La piccola fioraia muore quando – dopo tanto elemosinare col suo mazzetto di fiori sgualciti in mano – riceve un soldo e si compra un panino caldo, ma nell’ebbrezza del cibo attraversa la strada di corsa e viene investita da una carrozza. E la sua immagine si trasforma: gli occhi “troppo grandi, dalla palpebra bigia, incavernati, profondi” diventano “grandi occhi meravigliati e dolorosi che guardavano il cielo”: un agnello sacrificale, una piccola Madonna pascoliana.
Navigavano sull’acqua i materassi.
Poi, gonfi d’acqua, ruscellando sprofondavano.
Il servizio di chicchere appeso all’alzatina
fece un suono disuguale di campane
prima di immergersi.
Tutte le cose del piccolo mondo,
la tazza portata dal nonno dall’Australia,
la foto dell’alpino, il matrimonio,
il rastrello appena fatto da Remigio,
tutte le cose approdarono pacificate
all’ordine oscuro della morte.
Ma del sandalo bianco di Linetta
non si trovò il compagno.
Certo alla sua bella scarpetta
non rinunciò volentieri la bambina;
ecco, già l’angustiava
presentarsi tutta sporca di fango
senza decoro alla barca dei morti.
Così si tenne stretta
in mezzo all’acqua la seconda scarpetta,
per non mostrarsi a Dio maleducata.
Vajont. Memoria di una morte per acqua
Incedeva su tacchi vertiginosi, le gambe sottili che sparivano nei pantaloni corti, o si intravedevano nei camicioni di garza leggera. Le unghie delle mani, laccatissime in un qualche improbabile rosso acceso, apparivano pericolosamente lunghe: e completava la scenografia della vamp senza un pensiero al mondo la chioma biondissima giù per le spalle e la voce cinguettante, tutta tenuta su toni sovracuti.
Ma Katerina, la farfalla di Grecia, era anche una donna angosciata e malinconica. Conduceva, a casa in Atene o d’estate nelle isole, una vita effimera, che le piaceva e in cui s’era accomodata a meraviglia, ma non perdeva occasione per raccontarsi, a chi la voleva o poteva ascoltare, in una delle diverse lingue che conosceva. Una sera in cui non trovò altri – magari più interessanti – ascoltatori, si confidò perfino con me. Parlò con stanco entusiasmo del suo periodo in America in una prestigiosa università, del suo bel titolo di studio, della sua specializzazione a Parigi, dei suoi sogni di carriera. «Lo racconto a tutti, sai» mi disse, «perché mi faccio un po’ schifo, e parlandone mi consolo. Erano così belli quegli anni all’università, mi sentivo importante, ho preso anche un sacco di borse di studio.»
Aveva un marito, grosso e rubicondo, raffinato pasticciere, e due figlie di primo letto, di cui parlava ogni tanto con una certa malinconia, come se non le sentisse tanto vicine, e questo la facesse soffrire. Ogni tanto la sua voce acutissima si sentiva da oltre il muro, mentre lanciava a qualcuno insulti terribili, di solito in greco, come se solo la sua lingua materna le permettesse di dimostrare con piena soddisfazione la potenza della sua ugola.
Ma poi si rasserenava improvvisamente, e tutto taceva di colpo. Ogni problema di soldi (e negli ultimi anni ne aveva parecchi), ogni litigio coi vicini, ogni questione d’amore, tutto Katerina riusciva a buttarsi dietro le spalle con una bella risata e un sorso di vino: e passava oltre senza sforzo apparente, dondolando sui tacchi e scuotendo i capelli, pronta a nuove feste e a nuovi amici.
Avevo sentito la sua voce un paio di giorni fa, squillante come al solito, ma con una sfumatura nervosa che mi colpì. E ieri Katerina è morta, in due ore, di un attacco di asma fulminante. Si è sentita male al ristorante, e non aveva con sé le sue medicine. Ma invece di andare all’ospedale ha voluto tornare a casa, dove si sentiva protetta: e là è svenuta e non si è più risvegliata.
E allora noi che restiamo ti diciamo addio, farfalla di Grecia: la tua partenza è stata così immediata che non ci sono stati preparativi, né lamenti. Sei passata a camminare sui prati dell’infinito, capelli al vento, senza cedimenti fisici, senza stanchezze. E noi ti facciamo compagnia con affettuoso rimpianto.
Conosco Venezia da sempre. Mi ci portarono per la prima volta i miei zii, che andavano “all’isola”, che per loro significava solo “San Lazzaro degli Armeni”, il monastero in mezzo alla laguna davanti a San Marco.
Per arrivare all’imbarcadero di San Zaccaria, oltre il Ponte dei Sospiri, bisognava attraversare la città, e strada facendo ogni pretesto fu buono, in quella lontana mattina di maggio, per farmi vedere un campo, una vera da pozzo, la differenza fra le finestre gotiche e quelle rinascimentali: zio Wart, eruditissimo, non lesinava né spiegazioni né dettagli. Fu così che Venezia mi si stampò nella mente attraverso mille visioni fugaci che si sovrapponevano nella memoria.
Ma tutto si ricompose quando lessi – molti anni dopo – un racconto che mi parve stupendo. Stava in un libro di Anna Banti che mia madre aveva letto e lasciato in giro per la casa, di cui mi piacque molto il titolo, semplice ma abbastanza enigmatico: Le donne muoiono. Mi domandai perché proprio le donne morissero, e poi mi tuffai nel libro. C’erano quattro racconti, uno più bello dell’altro; ma quando finii il terzo, Lavinia fuggita, avvenne, come per incanto, che Venezia mi diventasse reale, che i frammenti di immagini che avevo in mente si componessero in una realtà più vera del vero. La mia Venezia, piena di angoli e di rii, di echi sonori e di fruscio di acque, di gente che chiacchiera e cammina su e giù per i ponti, di vecchi zii in ciabatte di velluto e zie con cappellini rococò, che mi offrivano il tè in salotti pieni di mobili laccati.
Quante volte ho riletto, da allora, la storia dell’orfana Lavinia, la ragazza piena di ingegno, maestra concertatrice all’Ospedale della Pietà, il celebre orfanotrofio e conservatorio musicale, dove insegnò e compose per quasi quarant’anni Antonio Vivaldi. Note e melodie urgono dentro di lei, che non si limita a dirigere il coro ma scrive musica propria, e infine sostituisce in gran segreto un suo spartito all’...