Dopo il lungo inverno, finalmente la primavera era tornata sul Monte Arngor.
Fuori della sala grande, Eragon era intento a strappare erbacce e radici da alcuni appezzamenti di terra lungo il margine della foresta. Una volta ripuliti, nei campi avrebbero piantato ortaggi, verdure, bacche e altre erbe utili, come il cardo che i nani e gli umani usavano fumare con la pipa, e l’epilobio che serviva ai draghi per favorire la digestione.
Si era tolto la camicia e si godeva il sole di mezzogiorno sulla pelle, un piacere da cogliere al volo, giacché il tempo spesso era ancora freddo e nuvoloso. Saphira si crogiolava lì accanto su un letto di erba schiacciata. Prima che lui cominciasse, la dragonessa aveva dissodato la terra con gli artigli per facilitargli il compito.
Con Eragon c’erano alcuni nani: due maschi e tre femmine, tutti appartenenti al clan di Orik, il Dûrgrimst Ingeitum. Mentre lavoravano, ridevano e cantavano nella loro lingua, ed Eragon si unì al coro meglio che poteva. Nel tempo libero si era sforzato di imparare l’idioma dei nani, come pure quello ancora più ostico degli Urgali. Come l’antica lingua gli aveva insegnato, le parole erano potenti. A volte in senso letterale, a volte in senso figurato, ma in entrambi i casi Eragon voleva conoscere e capire il più possibile, tanto a proprio vantaggio quanto per coloro di cui adesso era responsabile.
All’improvviso gli sovvenne un ricordo: Si trovava in una piccola radura erbosa alla periferia di Ellesméra, circondato da pini svettanti dalle forme armoniose cantate dagli elfi. Davanti a lui, un trionfo di fiori che crescevano seguendo fluidi percorsi in quell’oasi verde al centro della foresta ombrosa. Le api ronzavano tra la profusione di corolle e le farfalle svolazzavano come petali sollevati dal vento. Il suo corpo proiettava l’ombra di un drago, screziata dai mille riflessi delle sue squame rosso rubino.
Ed era tutto buono. Ed era tutto bello.
Eragon scrollò il capo nel tornare in sé, spruzzando un ventaglio di goccioline di sudore. Da quando gli Eldunarí gli avevano aperto le menti per condividere le loro memorie con lui, aveva cominciato a sperimentare lampi di ricordi che non gli appartenevano. Le visioni improvvise erano sconcertanti, tanto perché giungevano inaspettate, quanto perché gli facevano cogliere appena qualche sprazzo della sconfinata riserva di conoscenze ora immagazzinata nella sua testa. Per riuscire ad assimilarle tutte ci avrebbe messo una vita intera.
Non aveva fretta. Apprendere era uno dei suoi massimi piaceri, e aveva ancora così tanto da imparare sulla storia, su Alagaësia, sui draghi e sulla vita in generale.
Quel particolare ricordo apparteneva a un drago di nome Ivarros che, Eragon sapeva, aveva perso il corpo durante un’insolita e devastante tempesta di fulmini prima della Caduta dei Cavalieri.
Le immagini della foresta alle porte di Ellesméra lo indussero a fare una pausa per ricordare il periodo in cui lui stesso aveva vissuto nella città elfica. Una fitta di nostalgia gli strinse il cuore nel pensare ad Arya, ora regina del suo popolo nell’antica foresta, la Du Weldenvarden. Qualche volta avevano parlato attraverso gli specchi divinatori che lui custodiva nella sua stanza, ma erano entrambi molto impegnati con i loro doveri e le conversazioni erano sporadiche e frettolose.
Saphira lo scrutò da sotto le palpebre cascanti. Poi soffiò col naso, emettendo un piccolo sbuffo di fumo che si disperse sul terreno.
Eragon sorrise e sollevò di nuovo la vanga. La vita era bella. L’inverno era passato. La sala grande era stata completata, e il tetto sigillato. Altre stanze stavano per essere ultimate. Tre degli Eldunarí impazziti erano stati guariti dai talenti speciali di Elva e quindi spostati dalle grotte sotterranee nella Sala dei Colori.
La bambina, l’erborista e il gatto mannaro erano partiti due settimane prima. Sebbene non fosse troppo dispiaciuto di vederli andare via (la loro presenza era sempre piuttosto inquietante), Eragon era orgoglioso del tempo passato con Elva. Aveva lavorato con lei ogni giorno dal suo arrivo, addestrandola come Brom e Oromis avevano fatto con lui. La piccola aveva inoltre trascorso lunghe ore con Saphira, Glaedr e molti altri draghi… quelli sani di mente, ovvio. Quando era arrivato il momento di congedarsi, Eragon aveva già scorto in lei un notevole cambiamento. Elva appariva più calma e rilassata, e le sue risposte erano meno taglienti.
Non gli restava che sperare che i miglioramenti durassero nel tempo.
Quando aveva chiesto ad Angela dove avessero intenzione di andare, l’erborista gli aveva detto: «Oh, verso qualche costa lontana, suppongo. Un posticino tranquillo e isolato dove non dovremo aspettarci sgradite sorprese».
Nel corso degli ultimi mesi, Eragon aveva fatto di tutto per ottenere ulteriori risposte dall’erborista, su svariati argomenti, ma era stato come cercare di trapassare un muro di granito con un fuscello. La donna aveva deviato, parato, neutralizzato ogni suo affondo come una spadaccina provetta. L’unica novità che era riuscito a estorcerle era stata la storia di come lei e Solembum si erano conosciuti, e in effetti quella era stata la serata più divertente.
Una piccola macchia rosa nel suolo rimestato attirò la sua attenzione. Eragon abbassò la vanga e si accovacciò per guardare meglio: era un lungo lombrico ad anelli che strisciava sulle zolle di terra umida.
«Vieni qui» disse, rammaricato di avergli distrutto la casa. Gli mise la mano davanti e se lo fece salire sul palmo. Poi sollevò il verme dalla zolla, lo portò a una decina di passi di distanza e lo depositò su uno spiazzo d’erba secca, dove avrebbe potuto di nuovo scavarsi un tunnel sotto terra.
All’improvviso risuonarono delle urla dalla sala grande. «Ebrithil! Ebrithil!» L’elfa Ästrith emerse da sotto l’arco buio, coperta di polvere e detriti, con il braccio destro sanguinante e un’espressione sconvolta.
Eragon si sentì accapponare la pelle, mentre il vecchio istinto entrava in azione. Scattò verso il punto dove aveva lasciato la vanga, la raccolse e corse verso Ästrith, che stava gridando: «Il tunnel che stavamo scavando è crollato. Due…».
«Quale tunnel?» chiese Eragon, rientrando nella sala con lei. Dietro di loro, Saphira si alzò e li seguì con il suo passo molleggiato.
«Quello dell’ultimo livello. I nani stavano cercando di riaprire un ramo secondario che hanno scoperto ieri. Il soffitto è crollato e due di loro sono rimasti intrappolati sotto la frana.»
«Hai avvertito Blödhgarm?»
«Ci incontriamo giù.»
Eragon annuì, borbottando.
Attraversarono di corsa la sala grande e si precipitarono lungo la scala che portava alle gallerie sotto la fortezza. Non appena varcarono la porta in fondo, l’aria gelida del sottosuolo artigliò la pelle nuda di Eragon, che si pentì di non essersi rimesso la camicia. Pazienza.
In silenzio, percorsero di gran carriera i tornanti che scendevano nelle viscere del Monte Arngor. Le lanterne erano appese alle pareti a intervalli regolari, ma distanti; ombre nere e dense si raccoglievano negli spazi fra le pozze di luce.
Con un angolino della mente, Eragon avvertì la presenza sollecita di Saphira. Come posso aiutarvi? Eragon percepiva la sua frustrazione: le gallerie erano troppo strette per un drago adulto come lei.
Resta pronta. Potrebbe servirmi la tua forza.
A mano a mano che si inoltravano nelle profondità della vecchia miniera, Eragon e Ästrith udirono voci concitate echeggiare tra le pareti di roccia in una cacofonia confusa. Una nuvola di polvere aleggiava ancora nell’aria nei pressi della sezione crollata, dove tre fuochi fatui fluttuavano sotto il soffitto, un’ulteriore fonte di illuminazione, sebbene tremula e incostante.
Quattro nani emersero dalla foschia di polvere. Eragon li conosceva tutti. Avevano scavato tra le macerie, ammucchiando i frammenti di roccia ai lati della galleria nel tentativo di liberare i fratelli rimasti sepolti dalla frana.
Ästrith indicò un’enorme lastra di pietra caduta di traverso che ostruiva il passaggio. Diverse fenditure, sottili e dritte come frecce, la dividevano in più sezioni. «Ho fratturato la roccia, Ebrithil» disse l’elfa, «per poter spostare i macigni, ma se uno viene rimosso, gli altri crolleranno e io non sono abbastanza forte per sostenerli tutti insieme.»
Il caposquadra, un nano dalla barba folta di nome Drûmgar, annuì. «L’elfa ha ragione, Jurgencarmeitder. Ci serve il tuo aiuto, e quello dei draghi.»
Eragon appoggiò la vanga alla parete e chiuse gli occhi per un istante, mentre espandeva la mente in cerca dei nani intrappolati… Ecco. Una decina di passi più avanti… una singola coscienza, fievole e tremolante come una candela nel vento.
Non erano due i nani rimasti sotto la frana?
Eragon non esitò un secondo di più. Percepiva la vita che abbandonava lo sventurato. «Fatevi indietro» ordinò agli altri.
Ästrith e i nani corsero a mettersi al riparo. Eragon attinse energia dal suo legame con Saphira e, attraverso di lei, dagli Eldunarí nella Sala dei Colori, e pronunciò una sola parola magica: «Rïsa».
La parola era semplice, ma non il suo intento, ed era l’intento che guidava l’evocazione di un incantesimo.
Scricchiolii, gemiti e stridii riverberarono nella galleria, mentre il cumulo di pietre crollate si sollevava dal terreno. Il costo in termini di energia fu immediato e devastante; non fosse stato per la forza dei draghi, Eragon sarebbe svenuto e avrebbe perso il controllo dell’incantesimo.
Una gonfia nuvola di polvere soffocò l’aria della galleria, mentre Eragon rimetteva a posto le pietre nello squarcio del soffitto. Tossì, suo malgrado, poi disse: «Melthna».
Al suo magico comando, tutte le pietre che aveva tenuto sospese aderirono alle pareti in alto e si fusero alle ossa del Monte Arngor. Un’ondata di calore, talmente intenso da scottargli le guance e strinargli i peli del petto, emanò dalla volta ormai tornata integra.
Eragon esalò il respiro che aveva trattenuto e concluse l’incantesimo. Grazie, disse a Saphira e, per estensione, anche agli Eldunarí.
Quando la polvere si depositò, la tremula luce dei fuochi fatui rivelò le forme schiacciate dei due nani, circondate da copiosi rivoli di sangue.
Drûmgar e i suoi compagni accorsero dai loro fratelli caduti. Eragon li seguì lentamente, ancora sotto gli effetti debilitanti del sortilegio che aveva compiuto.
I nani cominciarono a lamentarsi e a strapparsi la barba e i capelli, le lugubri grida di dolore echeggianti nella miniera. Eragon si sentì stringere il cuore. Ancora una volta espanse la mente in cerca di segni di vita da parte dei due corpi straziati.
Niente. Erano morti entrambi.
Aveva fatto del suo meglio, ma non era stato in grado di salvarli. Cadde in ginocchio, battendo le palpebre per ricacciare indietro le lacrime improvvise. I nani vittime della frana si chiamavano Nál e Brimling; anche se non li conosceva bene, li aveva visti spesso intorno al falò la sera, sempre pronti con una canzone o una barzelletta, allegri e pieni di vita.
Ästrith gli mise una mano sulla spalla, ma fu un ben misero conforto.
Eragon chinò la testa e lasciò che le lacrime gli rigassero il volto. Malgrado tutti gli incantesimi che aveva imparato e i poteri acquisiti da quando era diventato un Cavaliere dei Draghi, e nonostante tutta la forza dei draghi, certe cose erano ancora al di là della sua portata.
Era in grado di sollevare enormi cumuli di pietre con una sola parola, ma non di evitare la morte. Nessuno poteva.
Il resto della giornata passò in un’atmosfera grigia e tetra. I nani ricomposero i cadaveri, li lavarono, li rivestirono di mantelli eleganti, ne unsero le barbe e li prepararono per la tumulazione nelle tombe di pietra, com’era previsto dalla loro tradizione.
Eragon aiutò Ästrith e Blödhgarm, arrivato troppo tardi nel tunnel, a mettere in sicurezza quel ramo della miniera per evitare ulteriori cedimenti. Poi, stanco e addolorato, si ritirò nel suo rifugio in cima alla fortezza e si sdraiò accanto a Saphira per una tormentata ora di sonno.
Si sentiva ancora stordito, affranto e indolenzito quando sopraggiunse la sera. Gli elfi cercarono di consolarlo con alcune frasi sagge e illuminanti, ma i loro ragionamenti obiettivi non servirono ad alleviare la sua pena. Nemmeno gli altri umani, tra cui il messo personale di Nasuada, tale Marleth Guadostorto, erano di umore migliore. La maggior parte di loro aveva lavorato fianco a fianco con i nani per tutto l’inverno, e la perdita di Nál e Brimling li aveva colpiti ancora più di Eragon.
Il dolore però non gli impedì di ricordare i suoi doveri. Passò tra i nani sconsolati, mormorando parole di incoraggiamento e di conforto. Hruthmund e Drûmgar lo ringraziarono e lui ricambiò con la promessa che avrebbe partecipato ai funerali previsti per l’indomani.
Al calare della notte, Eragon si ritrovò attirato verso ...