Pesciolino
eBook - ePub

Pesciolino

  1. 432 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

«Sai chi sono?» mi chiese. Si scostò i capelli dagli occhi. Ero troppo piccola, non potevo saperlo. «Sono tuo padre. » («Manco fosse Dart Fener» commentò mia madre in seguito, quando mi raccontò la storia.) «Sono una delle persone più importanti che ti capiterà di conoscere» disse. Non è stata semplice la vita, per Lisa Brennan-Jobs, nata alla fine degli anni Settanta in una fattoria nel cuore della Silicon Valley da una madre che insegue sogni hippies e da un padre che, prima di cambiare per sempre il mondo, sbarca il lunario vendendo apparecchiature per telefonare gratuitamente (e illegalmente) e che la riconosce solo dopo il test del DNA. Per lei quello con Steve Jobs, che ai suoi occhi di bambina era una figura tanto mitica quanto evanescente, resterà per sempre un rapporto complesso e tormentato, fatto di incomprensioni e complicità, di nomignoli affettuosi e lunghi silenzi, di provvisori riavvicinamenti e gesti fortemente simbolici ma silenziosi: tra tutti, l'aver ribattezzato "Lisa" il primo computer proprio in onore della figlia, come Jobs confessa a Bono Vox durante una cena in Costa Azzurra. Fino al toccante racconto degli ultimi giorni vissuti insieme, con Lisa che nelle sue frequenti visite inizia a portare via da casa del padre oggetti senza alcun valore materiale, ma che le parleranno per sempre di lui. Pesciolino è la storia di una bambina in cerca della propria identità, in costante equilibrio tra due genitori all'opposto e i loro mondi; ed è un ritratto di Steve Jobs intenso ed emozionante, onesto e spietato e quindi lontano da ogni cliché, una visione intima dell'uomo dietro il mito.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2018
Print ISBN
9788817105163
eBook ISBN
9788858694268

Pesciolino

f006-1
La casa successiva in cui andammo ad abitare è il posto in cui avremmo vissuto più a lungo nel corso della mia infanzia, sette anni: un bungalow su Rinconada Avenue, sempre a Palo Alto, l’unica casa dell’isolato, con tre camere da letto, due bagni e un garage staccato che mia madre avrebbe trasformato in studio artistico. Era una vera casa, dipinta di giallo pallido con finiture blu e una porta azzurra. La facciata era simmetrica, con un vialetto di cemento che tagliava in due il prato e aiuole di terriccio sotto due delle finestre, dove mia madre avrebbe coltivato degli impatiens multicolori. Un corbezzolo cresceva su un lato del vialetto, con una corteccia dai rilievi serpeggianti e frutti che – allora non lo sapevamo ancora – alle prime piogge autunnali sarebbero maturati e caduti sul prato per poi scoppiare liberando una sostanza gelatinosa, viscida e arancione, che non sarebbe mai più venuta via dalle nostre scarpe. La porta laterale si apriva su una fitta pergola di glicine che durante la fioritura sapeva di sapone e di caramella e attirava le api.
Prima del trasloco un uomo che lavorava per mio padre alla NeXT come supervisore agli impianti ci diede una mano a sistemare la casa. Era uno spilungone che doveva piegarsi in due per parlare con me e che mi disse che potevo scegliere la forma del lavandino del bagno e il tipo di linoleum per il pavimento. Rideva forte, e aveva un prominente pomo d’Adamo che saltellava su e giù in modo inquietante. Sotto la sua direzione gli interni della casa furono completamente ridipinti, i pavimenti di legno furono rifiniti con un bel mordente biondo, i bagni e la cucina furono foderati di linoleum, il lavandino che avevo scelto io fu installato regalmente in mezzo alla parete e le tendine alla veneziana vennero appese alle finestre.
Mia madre comprò un’enciclopedia con un cardo dorato stampato sulla costa, e ogni volta che sorgeva una domanda di qualunque tipo correva allo scaffale e prendeva il volume corrispondente, infilando il segnalibro dorato alla pagina giusta per leggere ad alta voce la parte che ci interessava.
Aveva anche una cabina armadio. Non molto grande, forse non abbastanza per corrispondere alla definizione di “cabina armadio”, ma, siccome era abbastanza spaziosa da poterci entrare girandosi di qua e di là, è così che la chiamavamo. C’erano barre per gli appendiabiti e scaffalature metalliche per i vestiti. Inoltre, mia madre aveva un bagno tutto suo, piccolo, con un lucernario.
Un giorno, mentre eravamo nel suo bagno, mi fece vedere il suo nuovo portafoglio.
«È di Neiman Marcus» disse. Lo osservai alla luce del lucernario: sfumature di pelle grigia realizzate con strisce cucite insieme verticalmente, più scure al centro che ai bordi e rugose al centro, con il filo tirato per formare un’arricciatura. Era la pelle più morbida che avessi mai toccato, e sembrava cera sotto i polpastrelli.
«È pelle d’anguilla» mi disse. «Non è terribile? Anguilla!»
«Sembra seta» dissi io. «O burro.»
«Lo so. E guarda qui.» Mi mostrò la chiusura metallica, delle dimensioni di una moneta da dieci centesimi. Capivo che era un magnete: trovava da solo la strada per chiudersi.
Per quanto potessi ricordare, mia madre non aveva mai posseduto un portafoglio. Quei lussi – il portafoglio, il lucernario, la cabina-armadio, più un nuovo forno a microonde che faceva girare il piatto mentre lo cuoceva – indicavano un grosso cambiamento nella nostra vita: noi due stavamo entrando in un nuovo, più squisito reame. Venne fuori che mio padre aveva aumentato il valore degli assegni, per comprendervi una quota maggiore di affitto e di mantenimento. Ben presto avrebbe accettato anche di pagare la psicoterapia di mia madre, una volta la settimana. Lei non poteva ancora permettersi di cambiare il divano, ma lo fece rivestire con una fantasia floreale più delicata.
Mio padre venne a trovarci, qualche volta, subito dopo le ristrutturazioni. Lui e mia madre sembravano a loro agio, mentre scherzavano ammirando la casa, apprezzando la tinta dei muri e i nuovi punti luce in stile industriale (due barre metalliche bianche su una piastra increspata bianco-ghiaccio, lampade che di solito venivano installate all’esterno ma che stavano benissimo anche dentro). Quando i miei genitori erano insieme, dentro di me qualcosa andava a posto con un piccolo scatto, come la chiusura magnetica del portafoglio di mia madre.
Qualche volta, durante il primo anno che passammo nella casa nuova, quando intorno a noi tutto era ancora intatto e perfetto, mia madre sarebbe uscita dalla porta principale per fermarsi a guardarla trattenendo il fiato e mettendosi una mano sul cuore per la bellezza del parallelogramma dorato creato dalla luce che scintillava sul muro sopra la bocchetta per la ventilazione.
Nel corso degli anni passati in quella casa mia madre mi raccontò varie storie su mio padre e sulla propria famiglia, quando le venivano in mente o quando gliele chiedevo io. Mi disse che lui era stato talmente timido e impacciato, alle superiori, che quando provava a dire qualcosa o a raccontare una barzelletta nessuno lo ascoltava. Le aveva regalato un aquilone e un paio di sandali. L’estate in cui avevano vissuto insieme, in fondo a Stevens Canyon Road, nella casa con le capre, avevano dormito sotto le trapunte cucite dalla nonna di mia madre, che veniva dall’Ohio, e per un po’ avevano mangiato dei piccoli hot dog in barattolo, molto economici.
A un certo punto di quell’estate, mi disse, gli erano rimasti solo tre dollari, e allora erano andati sulla spiaggia e lui li aveva gettati in mare.
«Io ero terrorizzata» mi disse. «Ma poi lui vendette delle altre blue box e così avemmo di nuovo un po’ di denaro.»
La storia dei miei genitori non sarebbe completa se non parlassi della disastrata vita familiare di mia madre, e di come, quando arrivarono in California, quando lei aveva dodici anni, sua madre si ammalò di una malattia mentale. I suoi genitori, Jim e Virginia, avevano portato la famiglia a ovest quando il datore di lavoro di mio nonno, il Dipartimento della Difesa, l’aveva trasferito da Dayton, nell’Ohio, dove mamma era nata e dove vivevano entrambe le sue nonne, a Colorado Springs e poi a Omaha, nel Nebraska, e infine in California. Qui, a Virginia fu diagnosticata la schizofrenia paranoide, e i genitori di mia madre divorziarono.
Mia madre parlava dell’Ohio come di una sorta di paradiso perduto: era là che le sue nonne avevano cucito le trapunte e gliele avevano regalate, e l’avevano lasciata giocherellare con la pelle del dorso delle loro mani. Una delle due aveva una fattoria e un pollaio dove al mattino mia madre correva qua e là per raccogliere le uova. Tutto ciò accadeva prima che sua madre impazzisse. Ogni volta che mi indicava qualche bel paesaggio dall’aria grandiosa – una luce dorata e polverosa su una palazzina di mattoni con delle colonne, o dei grandi alberi – ricordava la bellezza dell’Ohio.
In California, Virginia non fece altro che starsene seduta in salotto, al buio, ubriaca, fumando, unica cosa visibile di lei la punta della sigaretta, aspettando che le figlie tornassero da scuola. Mia madre era di poco più grande di me quando Virginia cominciò a sputarle addosso tutto il suo disprezzo, forse perché mia madre, sensibile, radiosa e con un animo da artista, le ricordava un po’ se stessa. Quando mia madre compì dodici anni, Virginia l’accusò di usare il registratore solo perché le ricordava un pene, e disse ai vicini che faceva sesso con i cani.
Quando mamma incontrò mio padre, alle superiori, a colpirla furono soprattutto i suoi occhi gentili, mentre all’epoca quelli di sua madre erano ridotti a due tizzoni scuri e pieni d’odio.
«La terza volta che andai a casa di Steve, sua madre mi prese da parte e mi disse che nei suoi primi sei mesi di vita aveva avuto paura di perderlo perché la sua madre biologica aveva chiesto di riaverlo, e lei non osava più avvicinarsi a lui. All’epoca non avevo la più pallida idea del perché mi stesse dicendo quelle cose» mi raccontò mia madre. «Ero solo una studentessa delle superiori, e in realtà lo conoscevo da poco tempo.»
Mi raccontò quella storia come se la trovasse significativa, ma io non ero sicura di sapere cosa dovesse significare.
Poi si innamorarono. Mio padre scriveva lunghe lettere a Virginia e gliele lasciava sulla soglia di casa. In quei fogli, le diceva che era crudele e la supplicava di non essere più tanto cattiva con mia madre. Mio padre era un po’ il suo salvatore, allora, e lodava sempre il suo talento, la sua bellezza e sensibilità, e si prendeva cura di lei quando sua madre si comportava in modo pazzo e violento. «Sei la persona più creativa che abbia mai conosciuto» le diceva.
Poi i miei genitori presero insieme l’LSD. Per lui era la prima volta, per lei no. La droga ci metteva un po’ a fare effetto, mi raccontava, e così si gironzolava un po’ qua e là finché a un certo punto ci si accorgeva che il mondo non era più normale e che il trip era cominciato. L’idea di mia madre che assumeva droghe mi metteva in imbarazzo, ma allora lei disse: «Non preoccuparti, Lisa. L’ho fatto raramente, ed erano altri tempi». Disse che lui era terrorizzato all’idea che la droga potesse farlo impazzire, e aveva promesso di dirgli di non farlo più nel caso l’avesse visto strano. Tutto ciò era successo all’epoca in cui mio padre aveva detto a mia madre che un giorno sarebbe diventato ricco e famoso e si sarebbe perso nel mondo.
«Cosa intendi con “perso”?» le chiesi. Mi sembrava di vederlo confuso in una gran folla di gente.
«Voglio dire che avrebbe perso la sua bussola morale» disse. «Avrebbe venduto il suo carattere, la sua anima, per il potere, per i soldi, per un guadagno terreno. Si sarebbe distorto, perdendo la connessione con la sua anima.»
Accanto alla casa in cui avevano vissuto insieme, l’estate prima che lui andasse al college, c’era un bungalow dove viveva una coppia di ragazzi sui vent’anni, figli di famiglie ricche, che non facevano altro che drogarsi e starsene seduti aspettando la morte dei loro genitori per poter incassare l’eredità. Una cosa che fece moltissima impressione ai miei genitori: l’idea che qualcuno potesse sprecare così la sua vita.
Anni dopo, lei mi avrebbe raccontato questa storia per spiegare come mai mio padre non mi aiutava con i soldi, ripetendomi la storia di quei pigri, perduti figli di buona famiglia che loro avevano visto e spiegandomi che non avrebbero mai voluto vedermi diventare così.
«Quando hanno divorziato i tuoi genitori?» mi chiedevano gli altri bambini.
«Non sono mai stati sposati» rispondevo io. Mi piaceva dirlo: di solito stupiva e disarmava l’interlocutore. Mi dava una sorta di distinzione. Invece di un papà che per un po’ era stato lì e poi se n’era andato, la mia era una storia a rovescio: due genitori che passavano più tempo insieme adesso che non al tempo della mia nascita.
E così, nel weekend, quando non era via, mio padre veniva a prendermi per portarmi a pattinare: solo me, mentre mia madre restava a casa a dipingere e ci salutava con la mano mentre ci allontanavamo. Lui mi chiamava sempre Small Fry. «Ehi, Small Fry, andiamo a divertirci. Quello che viviamo è un tempo preso in prestito.»
Io davo per scontato che Small Fry significasse Patatina, come le patatine fritte che restano in fondo al sacchetto, fredde e crostose; e pensavo volesse chiamarmi come qualcosa di piccolo, o stortarello. Solo più tardi avrei imparato che fry è anche una parola antica per indicare quei pesciolini piccoli che di solito si ributtano in mare perché abbiano il tempo di crescere ancora un po’.
«Okay, Patatone Grosso, andiamo» gli dicevo io una volta messi i pattini. A volte si preoccupava di essere troppo magro. «Dicono che dovrei mettere su un po’ di peso» mi diceva.
«E chi lo dice?» chiedevo.
«Le persone con cui lavoro» rispondeva lui, ritto in mezzo alla stanza con i pattini ai piedi. «Voi che ne dite?» Altre volte si preoccupava di aver messo su pancia, e ci chiedeva anche di quello.
Spesso andavamo a pattinare alla Stanford University. Quel giorno l’asfalto era ancora bagnato dalla pioggia recente.
Le palme che davano il nome a Palm Drive crescevano nel terriccio fra il marciapiede e la strada, con le radici che serpeggiavano sotto il vecchio asfalto corrugandolo tutto, con altri strati di asfalto messi sopra in modo caotico e disordinato che però non riuscivano a tenerle giù, ogni strato spaccato verso l’alto. Molleggiavamo sulle ginocchia per assorbire i colpi. Alcuni rami caduti dagli alberi bloccavano il transito, e noi dovevamo passare sulla terra e sulle radici con i nostri pattini. Le fronde cadute lasciavano sul tronco un segno a forma di pesce, uno sopra l’altro.
«Mi sarebbe piaciuto essere un nativo americano» mi disse, guardando le colline dietro l’università, che da lontano sembravano levigate e incontaminate. I fili d’erba, di un verde al neon, spuntavano dalle strisce di terra due o tre giorni dopo la prima pioggia un po’ forte, e vi rimanevano per tutto l’inverno.
«Andavano a piedi nudi, sai» disse. «Proprio su quelle colline. Prima che tutto ciò esistesse.» Dalle lezioni a scuola, sapevo che avevano lasciato delle tracce nei punti in cui avevano macinato le ghiande su lastre di pietra per farne farina. «Adoro le colline quando sono verdi,» disse «ma mi piacciono ancora di più quando sono gialle e secche.»
«A me piacciono di più verdi» dissi io, che non capivo come a qualcuno potessero piacere quando erano morte.
Raggiungemmo l’Oval e poi il quadrangolo di Stanford, con i suoi sentieri coperti, ombrosi, fatti di esagoni di cemento nei toni della terr...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Pesciolino
  4. Hippy
  5. Ancore di salvezza
  6. Spassiamocela
  7. Pesciolino
  8. Scappata di casa
  9. Piccola nazione
  10. Capacità spendibili
  11. In volo
  12. Coda
  13. Ringraziamenti
  14. Copyright