Il nome del figlio
eBook - ePub

Il nome del figlio

  1. 238 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Il nome del figlio

Informazioni su questo libro

Dare un nome, a qualcosa o a qualcuno, è sempre un gesto di responsabilità. Incalzata dalle settimane - e dagli ormoni - della gravidanza, e dopo avere deciso di chiamare il figlio come lo zio Frans, Marjolijn si imbarca in una ricerca sulla vita di Frans Julius Johan, eroe della resistenza olandese nonché autore, nel 1946, di un attentato. In punto di morte, infatti, lo zio aveva espresso il desiderio che un anello venisse tramandato al primo nipote che si fosse chiamato come lui, così, quando l'autrice rimane incinta, ecco che scatta la necessità di scoprire chi fosse e cosa avesse fatto veramente il mitico «cugino della bomba» - questo l'affettuoso appellativo che ricorre nei racconti ormai leggendari che circolano nella famiglia van Heemstra. La ricerca della futura mamma si trasforma in un'indagine sulla natura complessa dell'eroismo, in particolare nei tempi mai limpidi e lineari della guerra, che si snoda tra archivi polverosi pieni di rivelazioni e procede di pari passo con le variazioni emotive che accompagnano l'attesa di un figlio. Ne scaturisce un diario lungo nove mesi imbevuto di suspense e attraversato da squarci di tenerezza, come quella suscitata dalle conversazioni fra l'autrice e il suo compagno; ognuno con il suo personale modo di affrontare l'attesa, il passato, il peso della verità, e di dare un senso alla parola futuro.

Domande frequenti

Sì, puoi annullare l'abbonamento in qualsiasi momento dalla sezione Abbonamento nelle impostazioni del tuo account sul sito web di Perlego. L'abbonamento rimarrà attivo fino alla fine del periodo di fatturazione in corso. Scopri come annullare l'abbonamento.
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Perlego offre due piani: Base e Completo
  • Base è ideale per studenti e professionisti che amano esplorare un’ampia varietà di argomenti. Accedi alla Biblioteca Base con oltre 800.000 titoli affidabili e best-seller in business, crescita personale e discipline umanistiche. Include tempo di lettura illimitato e voce Read Aloud standard.
  • Completo: Perfetto per studenti avanzati e ricercatori che necessitano di accesso completo e senza restrizioni. Sblocca oltre 1,4 milioni di libri in centinaia di argomenti, inclusi titoli accademici e specializzati. Il piano Completo include anche funzionalità avanzate come Premium Read Aloud e Research Assistant.
Entrambi i piani sono disponibili con cicli di fatturazione mensili, ogni 4 mesi o annuali.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì! Puoi usare l’app Perlego sia su dispositivi iOS che Android per leggere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo — anche offline. Perfetta per i tragitti o quando sei in movimento.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Sì, puoi accedere a Il nome del figlio di Marjolijn Van Heemstra in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Letteratura e Letteratura storica. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2019
Print ISBN
9788817104951

Ancora 1 settimana

Sarà un bambino natalizio, è stata stabilita la data, e perfino l’ora in cui mi verrà messa la flebo per indurre il parto. «È il momento di andare a prenderlo» ha detto il dottor Dukhi alla nostra ultima visita. Quel verbo mi ha sorpresa: prendere. Avevo sempre avuto l’idea di portare il bambino. Metterlo al mondo, più che estrarlo dalla pancia.
È strano sapere così esattamente quando nascerà, assegnare una data all’inimmaginabile.
Invio per posta elettronica la foto di Jacoba a Herman. «Per la tua rete.»
Il giorno dopo mi risponde. «Un mio amico è archeologo. Ha scavato per quarant’anni in un antico sito in Siria, ha selezionato millenni di storia suddividendoli in tante scatole. Una volta gli ho domandato quale fosse la cosa più bella che aveva trovato. E lui mi ha risposto: talvolta uno scheletro è più di un ritrovamento archeologico, allora a un tratto in quelle ossa vedi l’uomo. E ti dà un motivo per andare avanti nel lavoro. Nel momento in cui puoi dire a quel teschio: ti salvo dal passato, ti riporto alla luce. Anche se sei stato mille anni sotto terra e tutti hanno dimenticato il tuo nome: io ti do un volto. Un abbraccio, H.»

Ancora 3 giorni

Cerco di ricostruire come sei arrivato qui, in questa piccola culla di plastica con le ruote. Tutto è cominciato con il catetere a palloncino («gonfiamo un palloncino all’altezza del collo dell’utero» suonava molto più carino della verità) in modo da rompere le membrane.
C’è stata una mezza giornata e poi una notte ad aspettare le acque.
Poi si sono rotte…
Ricordo un insieme caotico di immagini, suoni e odori. Grida dell’ostetrica, mie, di tuo padre, di altre donne in altre sale, grida dappertutto, e una sensazione spaventosa di qualcosa dentro che si spacca, come se dovessero spostarsi delle ossa per far passare la tua testa grossa, e c’era una luce soffusa che mi dava l’impressione di essere in un limbo, uno spaventoso mondo di ombre nel quale rischiavamo di sparire in ogni momento. Io avrei voluto che ci fosse luce, vedere, essere vista, ma ogni volta che stavo per chiederlo venivo trafitta da una nuova doglia e mi sentivo gemere e gridare, un suono profondo, incrostato, e nonostante le doglie provavo vergogna per quelle mie grida roche, questa non sono io, gridavo, non sono io, ma poi la vecchia furiosa che avevo in gola gridava più forte e qualcuno diceva: spingi ancora una volta ed esce, e lo ripeteva e lo ripeteva, fino a quando ho avuto l’impressione di non poterne più, e allora mi sono svuotata, come un uovo soffiato. E poco dopo eccoti sopra di me, violaceo, coperto dalla testa ai piedi da uno strato viscido, e la prima cosa che mi è venuta in mente è stata quella prugna troppo matura che una volta ho trovato sul fondo dello zaino dove mesi prima l’avevo dimenticata. Ricordo il volto sgomento di tuo padre e un riso improvviso, convulso – mio? suo? – perché era tutto così assurdo, questa creatura viola, questa prugna preistorica che doveva essere il sigillo del nostro amore. Poi quattro guanti di gomma ti sollevano sopra la mia pancia, verso il mio seno, e guardo la tua testolina, cerco di riconoscere qualcosa, di sentire qualcosa per quel viso vecchissimo, stropicciato e imbronciato che mi si avvicina dall’alto, un grumo sanguinolento, più pieghe che pelle. Con un suono succhiante i tuoi quarantotto centimetri umidi atterrano sul mio sterno e l’unica cosa che riesco a pensare è: e questo chi è? E subito dopo, la risposta: questa sono io.
Entrano i miei genitori; quando mi vede, mia madre scoppia a piangere, vede qualcosa che non va, lo capisco dal suo sguardo. Entra la pediatra, ispeziona le tue gambette da insetto, il tuo cranio, fa scorrere le dita sulla superficie della tua schiena e poi annuisce. Ti viene dato un voto. Sette su dieci, mi sembra. Non male, ma neanche bene. Troppo poco per quello che è appena successo. La pediatra mi guarda e in una frazione di secondo il suo volto si contrae.
Che aspetto orribile devo avere?
Per il momento, dice, dobbiamo rimanere in ospedale in osservazione. Ho tuttora la pressione troppo alta. Dice anche altre cose, vedo le sue labbra muoversi, ma non capisco più, sento soltanto il tuo pianto, il volto della pediatra si disintegra in chiazze, poi si ricompone, qualcuno parla di punti, qualcuno parla di una vacanza a Tenerife, e qualcuno dice che un figlio ti lascia una ferita dentro che guarisce molto lentamente.
Un figlio, una ferita, le parole mi echeggiano nella testa, che ora è totalmente vuota, rimbombano ai margini, urtano contro il mio teschio. Un figlio, una ferita.
«Come si chiama?» domanda qualcuno. E per poco non dico il nome che ti ho dato quindici anni fa. Quando eri ancora una chimera, una possibilità. Quando pensavo ancora che i miei eroi fossero eroi e che la storia si potesse tramandare senza impedimenti.
«Non lo so ancora» mormoro. Un’infermiera rotondetta ci spinge con tutto il letto fino all’ultima stanza in fondo al corridoio.
Nel parcheggio sotto la nostra finestra, tra le macchine c’è un alberello di Natale addobbato, ghirlande luminose si accendono e spengono nella neve bagnata. In corridoio passano avanti e indietro famiglie intere con giganteschi palloncini e vassoi pieni di cibo. Un profumo di pollo e aglio si mescola all’odore chimico della stanza d’ospedale e a una strana puzza dolciastra che mi ricorda uno zoo, la sezione dei rettili, anzi, no, delle scimmie. I visitatori nel corridoio parlano a voce bassa per non svegliare i bebè, ma le loro scarpe piene di pioggia producono schiocchi sonori come un branco di grossi bestioni in una palude.
Dietro ogni porta azzurra del lungo corridoio bianco c’è una puerpera.
Le puerpere. Soltanto ora che lo sono anch’io sento il suono strano di questa parola. Quasi fossero uccelli.
Cicogne grosse e zoppe sui loro letti candidi. Accanto a ciascuna un nido di plastica con le ruote con il loro piccolo appena sgusciato dall’uovo. La culla è più alta del mio letto, vedo solo il cocuzzolo della tua cuffietta da ospedale azzurra e rosa. Tu gemi. Un’ostetrica mi dice che hai la nausea e l’avrai ancora per un po’. Tra tutte le sensazioni che un parto avrebbe potuto causare, la nausea proprio non me l’ero aspettata. La nausea sembra non più di un piccolo malessere temporaneo. Conseguenza di una cozza non più freschissima o di un eccesso di alcol, non della grande violenza con cui nelle ultime ventiquattr’ore la creatura singola che eravamo è stata strappata in due pezzi separati.
Fuori si accendono i lampioni e per un istante penso di accendere la lampadina sopra il nostro letto, poi però mi sembra di turbare la nostra riunione crepuscolare. Sono contenta che in questi giorni faccia buio presto, perché non oso ancora guardarti in piena luce.
Tuo padre sta telefonando in corridoio.
Recita il tuo peso, la tua statura. «No» lo sento dire, «no. Non lo sappiamo ancora.»
La porta scorrevole si apre. È l’infermiera che vuole sapere se abbiamo già preso una decisione. Io scuoto la testa.
Annuisce paziente. Ma il sistema non lo è altrettanto.
Ogni persona deve essere registrata, definita, racchiusa in un nome entro tre giorni.
Prende una penna dal taschino e scrive in stampatello BABY su un modulo in bianco. Baby, così vieni registrato per ora, un nome generico con la maiuscola di un nome proprio. Guardo la tua testolina calva incrostata da resti di liquido amniotico e sangue, il nome Baby non ti si addice, somiglia troppo a qualcosa che esiste già da secoli. «Abbiamo ancora due giorni» dice l’infermiera «per trasformare Baby in un normale nome umano.» Mi misura la pressione e annuisce soddisfatta. «Sta migliorando.»

Ancora 2 giorni

Secondo l’orologio sono passate sei ore, ma dove siano rimaste non lo so. Ho dormito? Tu giaci sul mio petto e gemi, ti ho preso io dalla culla? Non oso muovermi. Perché non c’è nessuno qui con noi? Sono stata lasciata sola con un animale strano che potrebbe morire in assenza di assistenza professionale. È da irresponsabili, tu e io soli in questa stanza. Deve venire qualcuno in possesso dei diplomi giusti per farti smettere di piangere. Allungo la mano per premere il tasto rosso, per chiamare aiuto, tu però fai qualcosa, pigoli e gemi e poi ti sposti, o ti trascini, o una via di mezzo tra strisciare e trascinarsi, un po’ verme e un po’ talpa, e dalla mia pancia sali, gli occhi sono chiusi, e con le labbra sporte mi tasti la pelle, un centimetro alla volta, e continui a salire in direzione del mio seno. Io non ti aiuto, non chiedo aiuto, giaccio immobile a osservare le tue misteriose contorsioni. Non so da dove prendi la forza o il senso dell’orientamento, ma vai dritto al mio petto, affondando le tue piccole dita nella mia pelle, cerchi e alla fine trovi un appiglio e attacchi la tua boccuccia sdentata al mio capezzolo e cominci a succhiare con una forza sorprendente.
Un nome, devo decidere che nome darti, e invece mi perdo in una nebbia bianca, giaccio immobile sul letto con un verme viola all’altezza del cuore, una talpa sanguinolenta, un pesce di carne umana attaccato al petto.
Sono le sette, mattina o sera non so, nel corridoio rimbomba un grido tremendo, un altro parto, mi torna in mente il rinoceronte che ho visto partorire allo zoo di Blijdorp; i dinosauri probabilmente facevano versi simili, diceva il guardiano, nella stanza vicino alla nostra un bimbo strilla senza smettere mai. Cigolio di scarpe di gomma che corrono sul linoleum, pioggia battente sui vetri delle finestre.
La nostra porta si apre, è D seguito da un’infermiera. D ti solleva delicatamente dal letto, ti prende tra le braccia, ti bacia, bacia me. L’infermiera mi misura la pressione. È scesa ancora. Dice che posso fare la doccia. «Le probabilità che tu possa svenire ora sono basse» dice.
D ti culla tra le braccia, sembra così naturale, tu e lui, quel movimento.
L’infermiera mette una sedia davanti a me.
«Appoggiati a questa.»
Cerco di sollevarmi, ma mi contraggo per il dolore, è come se qualcuno mi avesse piantato un coltello tra le gambe che a ogni movimento si conficca più a fondo.
«Non riesco.»
Lei esce in corridoio e poco dopo torna con altre sedie impilate l’una sull’altra che mette in fila sul tragitto verso il bagno.
«Prova così, cammini, ti appoggi.»
Io mi trascino lungo le sedie, a ogni movimento il coltello mi taglia il fiato. Sotto la doccia c’è un’altra sedia, ma non ho voglia di fare la doccia, di muovermi ancora, mi sono trascinata fino a qui perché volevo guardarmi allo specchio. Voglio vedere perché la pediatra si è spaventata, perché mia mamma si è messa a piangere.
Lo specchio è appeso a sinistra della porta. Un piccolo specchietto quadrato. Lo guardo e per un momento penso che sia una finestra con dall’altro lato del vetro una grossa donna inselvatichita. La classica scena dell’orrore: una donna si guarda allo specchio e vede una versione devastata di se stessa. Ho il viso talmente gonfio che quasi non si distinguono il naso e la bocca, una massa di carne ributtante con due buchi rossi, i miei occhi iniettati di sangue. Sulla pelle lucida un estuario di capillari che si diramano su tutto il viso. Il collo e le spalle sono coperti di puntini rossi, come un eczema sottocutaneo, le labbra sono screpolate, rinsecchite. Solo i capelli, i miei capelli sono più belli che mai: folti e lucidi, scendono sulle spalle in ricche ciocche castane.
Sconvolta, raggiungo il miscelatore. Farò questa doccia. Mi accascio sulla sedia, lascio scorrere l’acqua tiepida sul mio corpo, avverto nuovamente quell’odore animalesco nauseabondo. Sono io, l’odore della gabbia delle scimmie mi sale dall’inguine, è la ferita, l’olezzo dolciastro e disgustoso di sangue e liquido amniotico.
Un figlio, una ferita.
Voglio restare qui, non voglio uscire mai più, ho fatto quello che dovevo fare, messo al mondo un uomo nuovo, e adesso voglio scomparire, anzi, sono già scomparsa, sacrificata al bambino, non sono io questa figura devastata che è rimasta.
D chiama, l’infermiera bussa alla porta.
Mi aiutano a uscire, mi vestono con abiti puliti, dicono che ho già un aspetto migliore rispetto a ieri. Gesù. Piango. L’infermiera mi carezza sui capelli.
«Vedrai che passa in fretta. Tra poco dimenticherai tutto questo e sarai soltanto felice del tuo bell’ometto.»
«Dei tuoi due begli ometti.» D sfodera il suo sorriso Mentos, e per un momento, per un breve momento, non c’è più dolore.
D mi mette su una sedia a rotelle e ti appoggia sul mio g...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il nome del figlio
  4. Ancora 27 settimane
  5. Ancora 26 settimane
  6. Ancora 25 settimane
  7. Ancora 24 settimane
  8. Ancora 23 settimane
  9. Ancora 22 settimane
  10. Ancora 21 settimane
  11. Ancora 20 settimane
  12. Ancora 19 settimane
  13. Ancora 18 settimane
  14. Ancora 17 settimane
  15. Ancora 16 settimane
  16. Ancora 15 settimane
  17. Ancora 14 settimane
  18. Ancora 13 settimane
  19. Ancora 12 settimane
  20. Ancora 11 settimane
  21. Ancora 10 settimane
  22. Ancora 9 settimane
  23. Ancora 8 settimane
  24. Ancora 3 settimane
  25. Ancora 2 settimane
  26. Ancora 1 settimana
  27. Ancora 3 giorni
  28. Ancora 2 giorni
  29. Ancora 1 giorno
  30. Il giorno
  31. Ringraziamenti
  32. Copyright