È Vanna a vestire la giovane sposa, a legarle stretto il corpo. Forse lei è l’unica a capire veramente su cosa verta in realtà questo matrimonio e, in tal senso, ha la responsabilità di quanto sta per accadere. Quasi non ha chiuso occhio per tutta la notte, girandosi e rigirandosi nel letto della sua camera da domestica, in attesa dell’alba e di tutto ciò che succederà. Non ha altra scelta se non quella di fare come le viene detto, ma partecipare è pur sempre partecipare, e lei lo fa in maniera più concreta di chiunque altro – come colei che tira i lacci, sempre più forte, fino a quando la sposa è magra che più magra non si può. E preferibilmente un po’ di più.
C’è un velo lattiginoso di stanchezza sullo sguardo di Vanna quando osserva la propria opera nella specchiera, una freddezza che altrimenti non è solita trovarsi. Tutto è congelato, quest’oggi, le dita che tirano le stringhe del corsetto sono ghiacciate come il mare che porta all’isola dove si terranno le nozze. E più gelida di ogni altra cosa è l’atmosfera. Nessuna euforia nell’aria, nessuna sensazione di attesa. Tendere la schiena di un corsetto e allacciarlo stringendo così forte richiede una certa dose di spietatezza, e quando serve Vanna ne è dotata. In genere, la regola in casa Ceder è quella di usare il guanto di velluto, ma non adesso. Sapere cosa ci si aspetta che faccia, prima ancora che loro stessi lo abbiano capito, è il suo compito principale; e lei lo svolge alla perfezione. È la testimone silenziosa della vita della famiglia Ceder. Lo è sempre stata.
Questa è la quinta sposa a cui Vanna stringe i lacci, l’ultima, la più giovane, quella che sopporta meglio. Man mano che il torace viene compresso intorno ai polmoni i respiri si fanno via via più superficiali, ma lei non si lamenta, non dà voce al dolore, nemmeno lancia uno sguardo di supplica allo specchio. Si limita a rimanere immobile e a resistere con le braccia tese all’infuori e delle perle di sudore, appena appena visibili, sulle tempie coperte da una sottile peluria bianca. Fissa i propri occhi mentre Vanna continua a legare, e legare, con tutta la forza che la madre dello sposo ha detto di metterci. Con tutta la forza che si arrischia a usare. E per Ivan, lei si arrischia a fare quasi tutto.
Il seno della sposa sporge sopra il corsetto, il ventre sporge sotto. La battaglia va avanti fin quando il girovita artefatto non è della sottigliezza ideale. L’abito cucito apposta per lei è appena stato consegnato, una creazione color bianco giglio il cui taglio è stato realizzato dal più abile sarto tagliatore della città su ordine della suocera. È stata lei a scegliere la stoffa, un ricercato, costosissimo tessuto di chintz con dettagli di seta e organza, e oltretutto a prestar loro il suo sarto di fiducia – per spirito di carità, ma se avessero declinato l’offerta, avrebbe insistito. Dato che tutto il resto in questo matrimonio è sbagliato, è il caso che almeno il vestito sia perfetto. L’uomo, un vecchio ebreo risparmiato dalla guerra, stando alla madre di casa Ceder è il sarto più capace che si possa trovare a nord di Copenaghen. Anzi, addirittura di Berlino, il migliore che abbia mai avuto, e lei ne ha cambiati molti. L’ha pregato di non lesinare su nulla, di non risparmiarle nessunissima spesa. Dio è nei dettagli, e adesso di Dio c’è davvero bisogno.
L’atto finale della metamorfosi ha luogo in quella che presto diventerà la camera della coppia, dove c’è il letto coniugale preparato con la biancheria di famiglia che è stata ereditata. Dalle finestre del grande appartamento all’ultimo piano si scorgono le barche che sono in attesa di portare il nutrito corteo nuziale all’isola. Sul viale bordato di tigli di Strandvägen i lampioni sospesi hanno cominciato a oscillare in maniera preoccupante dai loro fili sottili, si sta alzando il vento. C’è aria di neve.
Con fare compreso Vanna passa ad allacciare gli alti stivaletti, stringendoli forte quanto il corsetto, come per cercare di tenere la sposa in posizione eretta. Cosa la aspetti di preciso può solo immaginarlo. La sua ammissione all’interno della famiglia è soltanto a un tragitto in nave e a un «sì» di distanza; «sì»: l’unica parola che alla sposa serve conoscere nella lingua del futuro marito, è una parola breve e lui le ha insegnato a pronunciarla alla perfezione. Ivan, il maggiore dei cinque fratelli ma l’ultimo a sposarsi pur essendo sempre stato il più ambito. Ha fatto in tempo a compiere trentatré anni, la sposa ne ha diciassette e arriva dal nulla. Tutti sembrano del parere che la faccenda puzzi.
* * *
Mi sento stranamente calma. Ormai è tutto finito, la mia vecchia vita spazzata via. Vanna mi stringe i lacci fino a farmi scrocchiare le vertebre. Le costole sono più flessibili di quanto non si creda, lei per lo meno ne sembra convinta. Mi tende gli alti stivaletti sulle caviglie stanche con la stessa forza con cui ha tirato il bustino tra i fianchi e il seno. Come se mi volesse raddrizzare la schiena in vista di quello che mi aspetta. A ogni millimetro devo ricordare a me stessa che lo fa per il mio bene. Quando dà l’ultima stretta, mi fissa negli occhi. Un rigido corsetto di tenerezza.
Sono tutte lì tranne me. Io sono l’assenza della stanza. Chintz e organza dovrebbero crollare a terra in un grande ammasso bianco, in mezzo alla camera, intorno a quel vuoto che sono. Perché io mi trovo da un’altra parte, lontano, in un luogo di cui le altre non conoscono neppure l’esistenza.
Vanna mi veste assistita da Eva, Cecilia e Irene. I loro nomi hanno un suono di fiori delicati, ma mi rendo presto conto che non lo sono. Le spose acquisite di casa Ceder. Le mie future cognate, manca solo Nora. Riempiono la stanza con la loro algida, bella presenza, truccate di chiaro. Io ho le ciglia talmente cariche di bistro che a malapena riesco a tenerle sollevate. Annerite da Irene. «C’è modo di fare qualcosa per i capelli?» domanda Eva. «Forcine. Un migliaio» dice Cecilia con enfasi corrugando la fronte incipriata sotto la pettinatura – per l’occasione – più tirata del solito. Con lo stesso colore di capelli biondo rossiccio sullo stesso incarnato bianco latte, Eva e Cecilia sembrano sorelle; Irene, una sorella maggiore più scura e più gambuta. Buon Dio, grazie di averci dato le forcine, come facevano le donne prima che le inventassero? Capelli ovunque, ricci che non stanno su, privi di controllo e di stile… Quando le sento parlare di un’acconciatura ribelle come della cosa peggiore che si possa immaginare, intuisco che non ci capiremo mai. I loro sguardi continuano a vagare insoddisfatti su di me. Sulla pelle che ha ancora una tonalità d’estate, sulle braccia che portano i segni della legna che ho spaccato, delle bacche di olivello spinoso che ho raccolto e delle erbacce che ho estirpato, sulla nuca abbronzata da quando raccoglievo le alghe e cercavo l’ambra sulle spiagge e facevo lunghe passeggiate in riva al mare. Tutto va nascosto, coperto, incipriato: braccia, nuca, collo, seno. Se le mie sorelle mi avessero visto ora, che cosa avrebbero pensato? Era questo il sogno?
Ormai comincia a diventare una lotta contro il tempo, le mie cognate biasimano se stesse e si rimproverano a vicenda per non avere capito quanto ci sarebbe voluto: per portare a termine questo incarico assegnato loro dalla nostra comune suocera, che sembrano prendere con la massima serietà. È tutta la mattina che si danno da fare, ma non sono ancora per niente soddisfatte.
Ivan non c’è, però riesco ad avvertire il suo sguardo al di là del vano della porta, come a distanza segua la battaglia per trasformare me in una sposa presentabile. Vanna con la sua rude premurosità da domestica. Le mie cognate con gli ultimi tocchi decisivi. E successivamente anche la madre di Ivan, con il suo gelido sopralluogo. Quando arriva, tutte si zittiscono, trattengono il fiato mentre lei scivola all’interno della camera da letto senza dire niente. È alta, persino più imponente delle mie cognate, qualità amplificata dal fatto che anche la sua acconciatura è stata costruita in altezza, come una torre argentata di capelli. Una goccia di rubino scuro contro il collo bianco. Algidi occhi pallidi. Mi avviluppa in un lento giro valutativo, esaminando la metamorfosi. Non apre bocca. Si limita a esprimere la sua muta approvazione con un cenno d’assenso, dà una sistemata alle capezziere odoranti di olio per capelli delle poltrone della camera, e lascia di nuovo la stanza.
Tutto questo accade da qualche parte in un posto molto lontano. Una sposa che viene vestita per essere data in moglie. La vedo nella specchiera dorata alta fino al soffitto. Catturata nel vetro, che è talmente vecchio da deformare e allontanare piano i lineamenti del viso fino a renderlo irriconoscibile. O forse sono solo io che ho smesso di riconoscere me stessa parecchio tempo fa. Osservo i lavori e gli sforzi che devono fare sul mio corpo, come il trattamento si faccia sempre più brusco man mano che il tempo stringe. La durezza di un pettine per ondulare i capelli, le punte aguzze delle forcine, i pizzicotti d’un tratto indelicati di Vanna. Vedo le loro mani muoversi su di me. Nello specchio le mie future cognate mi trasformano in una riproduzione di loro stesse. O per lo meno ci provano, non sembrano esattamente soddisfatte del risultato, ma se non altro non si sono risparmiate. Io metto a disposizione il mio corpo, tutto qui. A loro non serve altro. È solo quello che verrà dato in moglie.
L’unica cosa che deve fare la sposa adesso è sopportare, mi lasciano intendere. Col benestare del mio neomarito potrò ritirarmi presto dalla serata di festa senza che la cosa susciti chissà quale attenzione. Dopotutto è così che sono solite finire le feste di matrimonio in questa famiglia, no? Con la festeggiata che, fiaccata per la tensione e per la scarsa abitudine allo champagne e alle danze sui tacchi alti, scompare dalla pista da ballo mentre la sera è ancora giovane. Per essere sostituita da altre donne… meno ingessate dalla serietà del momento, più desiderose di far baldoria, donne esperte e disponibili?
* * *
Irene lascia che il velo mi scivoli piano sul volto. Con lo sguardo fisso nel mio per farmi stare quanto più ferma possibile mentre me lo appunta. Quegli occhi da cerbiatto che all’improvviso, sotto una luce particolare, quando si trova in un determinato stato d’animo, possono somigliare un po’ agli occhi di una mosca, penetranti e al tempo stesso ciechi, freddamente metallici. Mentre sta lì con le braccia alzate sopra la mia testa, io inspiro piano il vago odore di talco che proviene dalle sue ascelle scoperte. Talco con una leggera traccia di sudore dolce, una conseguenza imprevista degli sforzi che ha fatto per prepararmi. Vanna però – sempre attenta come al suo solito – è svelta nel passarle l’apposito piumino sulla pelle liscia di rasatura, e pone rimedio con discrezione all’inconveniente. Nel suo abito verderame iridescente senza maniche, Irene è la più bella di tutte noi. Chiunque, con indosso quel colore, sembrerebbe un moscone blu della carne, lei invece sembra un’appetitosa farfalla. Lunghe braccia nivee e la chioma scura perfettamente raccolta in due victory rolls fatti a regola d’arte.
Di colpo lascia cadere le mani ed esclama: «Francamente…». «Cosa?» domandano Cecilia ed Eva parlandosi l’una sull’altra. Tutta quella fatica per farmi apparire più adulta mi fa soltanto assomigliare a una bambina imbellettata e paludata, afferma Irene mentre osserva Cecilia che stende sempre più cipria su una pelle già liscia – come se la cute sotto tutti quegli strati perfetti non si potesse sfiorare neppure con gli occhi. «E poi questa cosa del velo» continua Irene, sistemandolo affinché mi cada alla giusta distanza dal viso – non deve celare, solo coprire – e fornendomi allo stesso tempo una traduzione passabile delle sue opinioni circa la brutta usanza del velo. Il suo francese è quello di un bambino, ma del resto lo è anche il mio. «Questa storia che la donna si sposa con un velo davanti alla bocca… come se non avesse alcun diritto di parola.» Mentre Irene parla, Cecilia ed Eva la guardano divertite. Vanna, più preoccupata. È una domanda, una constatazione, o addirittura un’aperta provocazione? Vanna la interrompe subito zittendola, può capitare che la madre di Ivan ci senta dallo spiraglio della porta.
In una stanza attigua c’è la radio accesa. A Norimberga sono ancora in corso i processi: … fianco a fianco sul banco degli imputati, annuncia una voce asciutta, Dönitz, Frank, Frick, Fritzsche, Funk, Göring, Hess, Jodl, Kaltenbrunner, Keitel, von Neurath, von Papen, Raeder, von Ribbentrop, Rosenberg, Sauckel, Schacht, von Schirach, Seyss-Inquart, Speer, Streicher… Coloro che ancora non hanno fatto in tempo a togliersi la vita, non sono riusciti a scappare, oppure non sono stati, per quello o quell’altro inconsistente motivo, graziati.
Perché il matrimonio si possa fare, Ivan è stato costretto a presentare domanda scritta al re. Io sono troppo giovane, ma d’altra parte anche le circostanze sono – come ha sottolineato lui nella sua lunga esposizione – «eccezionali». È quasi come se volesse lo scandalo, bisbigliano le malelingue. Come se lo cercasse di proposito. Ma per quale motivo? Le onde del pettegolezzo raggiungono altezze pericolose nella cerchia dei conoscenti. La sposa-bambina, la moglie-fanciulla, chi è? La ragazza arrivata dal nulla, dalla guerra, da Dio solo sa dove? Ivan che avrebbe potuto avere qualunque donna, davvero qualunque donna. Anche se be’, in effetti è proprio una «qualunque» che pare si sia trovato, purtroppo. Il più genuinamente freddo rispetto alle voci sembra essere lo sposo. Eppure è su di lui che si concentrano gli sguardi. Per quanto si speculi su di me, la sposa straniera, il grande interrogativo resta pur sempre Ivan. L’ultimo disponibile degli ambiti fratelli, rimasto celibe tanto a lungo da destare preoccupazione. Mentre invece i suoi fratelli più giovani, uno dopo l’altro, in ordine, si erano sistemati – e, come se non bastasse, con donne che lui aveva disdegnato. Così si dice, a ogni modo: che le mie cognate l’abbiano agognato e bramato tutte, per poi accontentarsi di uno dei suoi fratelli.
Bardata di tutto punto e impellicciata contro il gelo insostenibile, vengo condotta alla banchina dove il grande corteo nuziale sta già aspettando livido di freddo. Sotto sguardi che mi scrutano vengo sollevata dai rematori e fatta salire sulla barca di testa. E negli occhi delle donne intuisco, al di là di ogni invidia, la compassione. Così giovane e già nella trappola del matrimonio, nella gabbia della procreazione…
Pena? Per me? Non ne hanno proprio idea.
Nel giorno più freddo dell’anno l’arcipelago è bianco e immobile, congelato fino alle coste della lontana Finlandia. In una lunga carovana di barche scoperte il grande corteo viene portato all’isola, percorrendo lo stretto canale d’acqua aperto dalla nave rompighiaccio, attraverso un mare di ghiaccio che a guardarlo appare infinito. La neve e il freddo attutiscono i rumori, della processione non si sente altro che i colpi di remo e il respiro affannato dei prodi vogatori. Tutto mentre noi passeggeri cerchiamo di conservare il calore corporeo stando seduti immobili. A ogni respiro l’aria si raggela nella gola, ma io accolgo il freddo con favore, bruciando purifica e al tempo stesso mantiene limpidi i pensieri. La rompighiaccio avuta in prestito dall’esercito avanza facendosi largo tra i duri panzer iridescenti del mare. Con le nostre pellicce assomigliamo agli animali di cui ci siamo vestiti, solo un po’ più ispidi per via del vento gelido: volpe argentata, zibellino, ocelot. Attorniata da predatori, io stessa siedo con indosso un animale che non so neppure cosa sia – una pelliccia invernale di un bianco abbagliante, vellutata come una carezza ma pesante come il peccato.
Cederön, l’isola di famiglia, è lì che siamo diretti. Nella fascia più esterna dell’arcipelago, senz’altra terra in vista a parte quella sotto i piedi. Nei giorni sì, là fuori si ha la sensazione di essere i padroni del mondo, altri giorni di essere l’ultima creatura vivente sulla terra, aveva detto Ivan senza rivelare quale tra le due preferisse. È in questo luogo remoto che si terrà la cerimonia. Anche se si fosse trattato di un comune matrimonio estivo, sarebbe stata un’impresa trasportare tutti quanti fin laggiù; nel cuore dell’inverno è pura follia. Un azzardo rischioso, con la forza degli elementi su un piatto della bilancia e, sull’altro, soltanto la fortuna. In solitaria maestà a prua della barca di testa, rivolta verso di noi, troneggia mia suocera Fredrika, sobriamente vestita a lutto con un elegante petit-gris sulle spalle. Poi i figli Maurits, Karl, Nils e Måns, così diversi fra loro che solo il colore degli occhi ne rivela il legame di fratellanza. Ivan ce l’ha uguale, devono averlo preso dal padre. Come anche quelle fronti dall’altezza aristocratica, probabilmente. Quattro paia di penetranti occhi d’ambra mi inchiodano lì dove sono, e dietro di loro quelli acquosamente pallidi di Fredrika. Facce serie a eccezione del sorrisetto viscido di Maurits, quasi impercettibile.
Diventa palese che Ivan è l’unico dei fratelli a saper portare un frac senza apparire ridicolo. È con un controllo impeccabile, un tiepido distacco, sì, insomma, un’aria di irraggiungibilità, che mi siede accanto. La carnagione pallida come schiuma di lago quando lo guardo con la coda dell’occhio, il volto scolpito, i tratti perfettamente delineati. C’è soltanto quella stortezza del naso a guastare la perfezione. Come se una volta fosse stato rotto e poi riallineato solo per metà. L’unico a essersi evitato il frac per l’occasione è Karl, con la sua schiena militarmente dritta indossa invece l’uniforme da ufficiale. Al suo fianco Måns, il quale, sopra tutto il resto, si è messo una pelliccia che piuttosto sarebbe stata adatta a una delle signore. Il più giovane dei fratelli, sembra essere lui il burlone, con una leggerezza che agli altri quattro manca. Lentiggini cosparse su tutto il volto lo fanno più giovane di quanto non sia. Nils ha un che di rigido, è duro come legno di cedro, cosa sicuramente necessaria dato che a quanto pare è nato subito dopo Maurits, l’enfant terrible del gruppo, è evidente. Può darsi benissimo che il naso di Ivan sia opera sua.
Al centro della barca ci sono i vogatori impegnati nel lavoro pesante. A poppa noi: sposa e sposo, rigidi sulle pelli di animali della panca, sotto una tettoia di tessuto bianco per vele già appesantita dalla copiosa nevicata. E distribuiti sulle varie barche alle nostre spalle tutte le mogli, i figli e le bambinaie dei fratelli Ceder, i testimoni, i paggetti e le damigelle, il resto dei parenti, gli amici di famiglia, il coro nuziale, le cuoche del ricevimento, il personale di servizio. Il pastore. E gli addetti all’intrattenimento.
L’usanza che i due sposi vadano tenuti separati fino all’ultimo non viene rispettata – anche se porta sfortuna vedersi prima di contrarre il vincolo che lega per la vita. Percepisco il calore del corpo di Ivan dov’è seduto, vicino ma senza sfiorarmi. I suoi occhi talmente lucidi per il freddo che, quando per ...