Verso le nove passai da Camille a prendere un croissant per la colazione e i giornali. Appena restammo soli, facendo caso che non entrasse nessuno, le dissi che avevo appena telefonato a Isabelle e che sarebbe arrivata l’indomani.
«Lo sapevo.» Camille s’illuminò. «Come l’hai convinta?»
«È una storia lunga» le risposi. Non aggiunsi altro, ma intanto era entrata una persona.
Passai la giornata in perfetta solitudine leggendo «Libération» e poi La montagna incantata. La sera, ma partii da Morgy verso le cinque gironzolando un po’ con la moto, andai a cena in un ristorantino di Montbard trovato su una guida Michelin del 2013 che era a casa di Bernard. Nessuna stella, ma una semplice segnalazione che lo indicava come un ottimo ristorante specializzato nella pochouse, e con una buona cantina. Non disdegno cenare da solo al ristorante, ogni tanto, soprattutto se il cibo è buono, e quella zuppa di pesce, anche se un po’ troppo elaborata, era una delizia. Del resto se sei solo, e lo sei stato per tutto il giorno, cenare a casa è deprimente, farlo nei vari McDonald’s non ne parliamo, lo street food in solitudine perde gran parte del suo fascino, allora tanto vale trovarsi un buon ristorante, e far passare il tempo. Tornai a casa verso le undici e dormii poco, vuoi per una certa pesantezza di stomaco, vuoi per una certa agitazione che mi saliva all’idea che l’indomani, dopo quattro lunghissimi mesi, avrei rivisto Isabelle e, come se non bastasse, avrei dovuto confessarle che non mi avevano arrestato. Quasi quasi avrei preferito che lo avessero fatto.
Mi svegliai alle sette, attesi le nove, prima rigirandomi nel letto nel tentativo di riaddormentarmi, poi consultando itinerari per un nuovo piano che avevo in mente. Andai da Camille, comprai i soliti giornali e il solito croissant. Non parlai di nulla perché c’era gente, colsi solo l’attimo fuggente per sussurrarle: «Tra un po’ vado a Digione a prendere Isabelle, incrocia le dita per me». Camille non fece una piega, ma quando ero già sulla porta, sfidando eroicamente le malelingue, mi disse: «Bonne chance». Mi girai e le sorrisi. Sentirmelo augurare da lei, una persona così dolce e sincera, lo ritenni di buon auspicio.
Prima di andare in stazione passai in un negozio di Digione che vendeva caschi e ne comprai uno per Isabelle. Durante la notte avevo elaborato il mio secondo mirabolante piano, e senza un casco non avrei potuto realizzarlo.
Alle undici meno un quarto camminavo su e giù per il marciapiede del binario 9 a elencare come un mantra l’alfabeto dei saluti. Il giorno prima, mentre stavo per telefonare a Isabelle, il battito del mio cuore era bradicardico rispetto ad adesso, e accelerò ancora di più appena la vidi scendere, due carrozze più avanti: era vestita con raffinatezza come al solito, nel suo modo semplice ed elegante al tempo stesso. Si era tagliata i capelli corti, a caschetto, doveva essere una cosa recente, l’ultima volta che l’avevo vista, sotto la pioggia a Montparnasse, li aveva ancora lunghi. Stava bene, era bella come al solito, più del solito. Non sorrise, mi scrutò con un’espressione preoccupata. Tentai un timido abbraccio, contenendo a fatica l’impulso di stringerla. Non si ritrasse, non si irrigidì, anzi il suo fu meno timido del mio.
Mi disse subito: «Alors?». «Après» risposi io. «Tu come stai?» Fece una smorfia strana. Camminammo in silenzio uno di fianco all’altra, senza sapere cosa dire in attesa del dopo. Solo banalità. «Come è andato il viaggio?» «Al lavoro tutto ok?» «Tua madre come sta?» «Ti sei tagliata i capelli, stai bene, perché lo hai fatto?» «Così, i tuoi?» «Stai scrivendo?» «Sei un po’ sciupato.» «Ti fai crescere la barba?» «Come mai sei venuto in Borgogna?» Ci andammo a sedere in un bar vicino alla stazione, di fronte a dove avevo posteggiato la moto. Dietro mio consiglio, ordinammo due Kir. Sciolsi un po’ di imbarazzo dicendo che era fatto da crème de cassis e Aligoté, un vino bianco leggero. Ce lo servirono con delle gougère, lontane parenti di quelle che avevo mangiato da Marie, quando ancora potevo mangiarci. Lei prese anche un tramezzino, e mentre la guardavo pensavo che avrei voluto essere quel tramezzino. Incominciai a raccontarle ogni cosa. Si alzò e fece per andarsene due volte. La prima quando le dissi che non era vera la faccenda dell’arresto, la seconda quando me ne uscii con l’infelice “il fine giustifica i mezzi”. La trattenni a stento. Per fortuna fu la vicenda di Baumann a prendere il sopravvento, e la mia passione nel raccontarla, e io, non lo dico per vantarmi, ma le storie le so raccontare, soprattutto se mi appassionano. Quando terminai di parlare si era appassionata anche lei, e mentre le parlavo di Leopold e poi di quando Baumann tornò a casa e vide la sorella in quelle condizioni, le vennero gli occhi lucidi, ma Isabelle è fatta così. Mi disse fammi vedere il quaderno, le risposi: «Non qui».
«E dove?»
«Togliamoci dal casino, non mi va di farti tradurre il diario in un bar in mezzo al traffico, a una trentina di chilometri (ne tolsi trenta, il piano lo prevedeva) c’è il parco naturale del Morvan, è un posto bellissimo, ce ne stiamo lì tranquilli, e poi ti riporto a Digione, a che ora ce l’hai il treno?»
«Pensavo di prendere al massimo quello delle sei, sette ore per una testimonianza mi parevano più che sufficienti, e comunque quello successivo è alle otto, e non è un diretto, impiega quasi tre ore.»
«Pensavi, quindi non hai ancora fatto il biglietto?»
«No, perché se mi sbrigavo prima…»
«Ok, non è un problema, riuscirai senz’altro a prendere quello, abbiamo almeno cinque ore a disposizione, e in ogni caso, per mal che vada, con quello delle otto saresti comunque a Parigi alle undici, se non hai impegni per questa sera… domani è domenica.»
«Non ne ho, ma preferisco prendere quello delle sei» rispose, seria.
«Alle diciassette e trenta saremo qui, promesso. Dài su, vuoi mettere?»
Ci pensò un po’ e poi disse: «Va bien, Tristan va bien, tanto l’hai sempre vinta tu, ma un casco per me ce l’hai?».
«Certo!» e le indicai quello appena acquistato, che luccicava assicurato al portapacchi della moto posteggiata strategicamente di fronte al bar.
«Tutto programmato eh?»
«No, giuro, un casco di riserva lo porto sempre con me, anche quando stavamo insieme, ricordi?»
«Sì, ma si dà il caso che fosse per me quando mi venivi a prendere, non mi risulta che girassi con due caschi anche quando eri solo.»
«Ma qui sono in un posto straniero, non si sa mai che me lo rubano, e poi se capita qualche bella autostoppista…» dissi sorridendo. Preferii fare quello che sdrammatizzava con l’autostoppista piuttosto di confessarle che avevo programmato tutto.
«Ecco, sarà per l’autostoppista allora, dài su, andiamo, prima che cambi idea… se capita una bella autostoppista… ma sentilo» mi disse scuotendo la testa.
«Sei gelosa?»
«Cammina, schiodati, vai a pagare il conto, ancora una parola e me ne vado, ti aspetto alla moto.»
Sentirla di nuovo seduta dietro di me sul sellino, silenziosa, che mi cingeva appena la vita, senza il minimo sbilanciamento, leggera come un cuscino di piume, mi faceva stare bene, mi dava un senso di appagamento come quando anche una piccola cosa ti fa pensare: cosa voglio di più? Lo stesso che provavo quando ogni tanto andavamo via da Parigi per fare qualche giro nei dintorni. Chissà se anche Isabelle aveva le stesse sensazioni. Facemmo un pezzo di autostrada, poi la provinciale fino a Vitteaux, a quel punto deviammo, secondo l’itinerario che avevo meticolosamente studiato di prima mattina, verso Précy-sous-Thil, un borgo proprio ai confini del parco naturale del Morvan. Avrei potuto trovare qualche altro luogo ameno molto più vicino, o restare addirittura in città in un posto tranquillo, ma il mio piano prevedeva che la portassi via da Digione, e Précy-sous-Thil, dopo elaborati calcoli chilometrici, risultò il paese del Morvan più vicino possibile, considerando l’equidistanza che lo separava da Morgy, che nel mio machiavellico programma sarebbe stata la nostra meta finale.
Arrivammo dopo un’ora buona, anche perché, dopo aver chiesto (io) informazioni all’ufficio turistico, seguii le indicazioni della gentile signorina dell’office sul posto più bucolico possibile nelle vicinanze e imboccai una strada sterrata fino a quando mi fu possibile farlo.
Appena scendemmo dalla moto Isabelle mi disse: «Ma non dovevano essere una trentina di chilometri?».
«Sì, ma ho sbagliato strada» mentii.
«Strano, tu non le sbagli mai, e poi non ti ho mai visto titubante, anzi andavi come un missile, ora guardo su Internet e se mi hai raccontato una balla mi riporti indietro.» Tirò fuori il cellulare.
«No, ferma! Ti ho raccontato una balla, va bene, da Digione sono sessantaquattro chilometri ma era per…»
«Lo so per che cos’era, comunque non avrei controllato, secondo te ora mi mettevo a cercare su Google maps dove siamo e quanti chilometri abbiamo fatto? È così facile scoprirti…» e scosse la testa con un’aria triste, quasi dolorosa. «Andiamo, perché altrimenti…»
Imboccammo un sentiero in mezzo agli arbusti che dopo qualche minuto di cammino si aprì in un’ansa di un fiume che formava una sorta di laghetto e ci andammo a sedere su una panchina all’ombra di un grande albero. E dimenticandoci di tutto il resto, Isabelle iniziò a leggere il diario di Baumann, fin dalle prime righe. Fin dal primo giorno, e quando lesse la data ebbi un sussulto: «Porca miseria! Lo stesso giorno in cui sono arrivato io ma di settantadue anni fa, se credessi nel karma direi che questa è una cosa troppo karmica».
«Io ci credo» disse Isabelle.
«Sì sì ok, però leggi adesso.» Di infilarmi in discorsi karmici avevo zero voglia.
Isabelle riprese a leggere, e da quel momento non la interruppi più, se non per commentare qualcosa con lei.
30 aprile 1944
Stamattina alle 11 sono arrivato a Morgy, dove sono stato dislocato. La sede è una grande villa in cima alla collina. Il posto è splendido, con filari di vite in cui ci si perde. Assumo il comando di un plotone, una trentina di uomini. È stata una decisione del maggiore Bauer, anche per via della mia buona conoscenza del francese, decisione che ho sperato fino all’ultimo non prendesse. Mi ha accompagnato Lienhard, amico d’infanzia, abbiamo fatto tutta la guerra insieme, è come un fratello ormai. Ha guidato una Kübelwagen in dotazione alla compagnia di Dijon dove ero di stanza già da nove mesi, che ho chiesto e ottenuto restasse a mia disposizione. Anche Lienhard resterà con me, è un sollievo, che tuttavia non potrà sollevarmi dal peso di quel che mi aspetta. Devo a mia volta eseguire un ordine. Il mio tuttavia non è di servizio, è ripugnante: la fucilazione di 10 civili come ritorsione all’uccisione del capitano Koch che comandava il plotone prima di me, e che non conoscevo. Non posso evitarlo, vedrò di rimandarlo più che posso e di studiare nel frattempo qualcosa, per renderlo meno terribile. Ma prima devo accertarmi della situazione, che non ci sia qualche esaltato tra i ragazzi, e capire che tipo di persona è il caporale Stein, che in questa settimana ha comandato il plotone in attesa del mio arrivo. Vedrò di scoprirlo domani. L’ordine in ogni caso va eseguito.
La prima volta che citò Constance fu il giorno dopo.
1 maggio
Lavora per noi, come donna delle pulizie e cameriera, una giovane ragazza francese, credo sia di Morgy. Constance. Ho incrociato il suo sguardo per la prima volta questa mattina. È stata una vertigine. Non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso. Lei arrossiva. Io anche. È bellissima. C’è qualcosa in lei che non so spiegare e che mi turba, e mi fa battere il cuore, davvero! Il mio cuore appena l’ho vista ha aumentato i suoi battiti, e sta battendo forte anche adesso, mentre scrivo, soltanto a ripensare ai nostri sguardi, che sono continuati con la stessa intensità del primo per tutto il giorno, ogni volta che li incrociavamo, e li incrociavamo spesso. Mi rendo conto che un soldato che ha ucciso degli uomini al fronte e che comanda un plotone non dovrebbe lasciarsi andare in questo modo. Ma è così.
La prima volta che si baciarono, una settimana dopo.
8 maggio
È successo, poteva accadere anche prima perché io credo di essermi innamorato di lei da subito. Ma dopo una settimana di sguardi e di fugaci momenti in cui sono riuscito a parlarle da solo, oggi ho aspettato che salisse in camera mia a rifare il letto, sono entrato e l’ho chiamata per nome. Lei si è girata, è arrossita, le sono andato incontro e l’ho baciata come in preda a un’esigenza improcrastinabile. Come se fosse indispensabile e naturale farlo, senza che mai ne avessimo parlato prima o comunque ci fossero stati tra noi sottintesi in quel senso. Anche per lei doveva essere così. Ci siamo baciati con una passione e una dolcezza mai provata fino ad ora nella mia vita. Poi è scappata via. Era già tardi e Stein la aspettava al piano di sotto per assegnarle dei compiti di pulizia per la settimana.
Ci siamo dati appuntamento per domani alle undici dietro la casetta degli attrezzi, è un posto tranquillo, lontano da occhi indiscreti, poi cercheremo di salire in camera, separatamente, oppure ci nasconderemo lì dentro, ma a me basta incontrarla. Mancano ancora dieci ore e cinquantadue minuti. Troppi. Spero di addormentarmi subito perché le ore trascorrano più in fretta. Ma non dormirò, penserò continuamente a lei e non chiuderò occhio, lo so. Sono certo che anche lei prova lo stesso sentimento. È una sensazione che ho e che non so spiegare. Ho un libro da qualche tempo con me, che sto leggendo e rileggendo: La montagna incantata. Hans Castorp e madame Chauchat, un tedesco e una francese come noi, parlano in francese come noi, e perfino nel libro c’è un dialogo in francese; ebbene, negli scambi di sguardi iniziali tra loro ho ritrovato i nostri stessi sguardi, e c’è un passo, una frase in particolare, che ormai posso ricordare a memoria, da quante volte l’ho letta: “Questo era amore a prima vista, amore duraturo: un sentimento sconosciuto, insperato, inaspettato per quanto concerneva una questione di consapevolezza cosciente. Prese interamente possesso di lui, ed egli comprese, con gioiosa sorpresa, che era per tutta la vita”. È quello che è successo a noi, a me.
Mi scese un brivido lungo la schiena, dovetti fare uno sforzo immane per trattenermi dal dire a Isabelle che quel libro lo stavo leggendo anch’io, uno dei tre, che casualmente avevo scelto tra il centinaio della libreria di Bernard, altrimenti non ne saremmo usciti più, dai discorsi karmici. Restai comunque turbato.
Continuammo a leggere fino alle quattro passate, e se prima, mentre gliela raccontavo, Isabelle si era appassionata alla storia, ora la sentiva sulla pelle anche lei.
Isabelle conosce bene il tedesco, ma vuoi per la calligrafia a volte indecifrabile di Baumann, vuoi perché il diario era voluminoso, vuoi perché ogni tanto ci fermavamo a commentare qualcosa, la lettura procedeva a rilento.
«Tra dieci minuti bisognerà...