Ragazzi dell'estate
eBook - ePub

Ragazzi dell'estate

  1. 288 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Ragazzi dell'estate

Informazioni su questo libro

Anna, che presto compirà diciotto anni, è fuggita due volte: la prima da casa e dalla sua famiglia, dopo essersi sentita tradita nel profondo dagli adorati e fino ad allora impeccabili genitori; la seconda dall'orfanotrofio thailandese dove aveva deciso di trascorrere un anno sabbatico in cerca di risposte, su se stessa e sulla vita. Fugge per raggiungere una spiaggia bianchissima, sperduta e paradisiaca di cui ha sentito parlare in un bar e che a un tratto è diventata il solo posto in cui vuole trovarsi. Al suo arrivo, disperata e in preda al panico per aver perso passaporto, telefono e soldi, viene letteralmente adottata da una strana e irresistibile triade di amici: l'israeliano Ike, il russo Leo e la giovane francese Danielle. È l'inizio di una di quelle amicizie che cambiano la vita. Tra loro, parlare del passato è tabù, perché è il presente che conta e perché tutti hanno una ferita profonda e dolorosa. Ma un giorno sull'isola sbarca Luc, un americano dai modi affascinanti ma anche sfuggenti e a tratti inquietanti, e da quel momento tutto cambia, si complica, si sgretola, e s'infiamma, per i quattro amici e per il cuore di Anna.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2019
Print ISBN
9788817109642
eBook ISBN
9788858696354
Cristina Brambilla

Ragazzi dell’estate

Rizzoli
Max,
questo è per te
Sebbene pazzi e morti stecchiti
Le teste di quei tizi martelleranno dalle margherite
Irromperanno nel sole finché il sole cadrà
E la morte non avrà più dominio.
Dylan Thomasa
a. I versi tratti da And Death Shall Have No Dominion, traduzione dell’autrice
Avevo un solo desiderio per Natale. Volevo che quella fosse l’ultima vigilia straordinaria della mia vita, perché, all’improvviso, non ne potevo più di essere straordinaria. All’improvviso, seduta sul ciglio di una strada di cui ignoravo il nome (ammesso che l’avesse) a mangiare da sola una Tom Yam talmente piccante da farmi lacrimare, mi sentivo persa. Persa, sentimentale e triste perché, mentre mi asciugavo gli occhi, da qualche parte attorno a me un’armonica aveva cominciato a suonare Jingle Bells e il mio cuore si era spezzato.
A casa mia, in quel momento, a novemila chilometri di distanza, probabilmente papà era già stufo di ascoltare Christmas in the Heart di Bob Dylan e anche mamma, dopo ore d’inutile ricerca di un posto “carino” dove riunire la nostra vasta e poliglotta famiglia, si era stufata e aveva invitato tutti da noi.
A casa mia, in quel momento, c’erano odore di brodo di cappone e profumo di aghi di pino e tanti elfi e campanelle e angioletti e i tre re magi che marciavano inesorabili sul pavimento del salotto e zie di ritorno dal Tibet vestite come monache di lusso a dispensare abbracci. Un kitsch pazzesco e melenso da cui ero scappata a gambe levate ma il cui solo pensiero al momento mi faceva sentire abbandonata in capo al mondo.
Cosa che, in un certo senso, era la pura verità.
Le note di Jingle Bells fluttuavano verso di me nelle tenebre della notte thailandese. Forse era un povero orfanello scalzo che avanzava con la mano tesa e probabilmente l’armonica era il regalo di un vecchio zio reduce del Vietnam.
E, invece, ecco sbucare un elefante. Un elefante che suonava l’armonica con la proboscide.
Tutto vero, giuro. Lo vedevo proprio in quel momento, con il cucchiaio a mezz’aria e la bocca aperta mentre un motorino sgasava rumorosamente nella mia zuppa. Il mio elefante si muoveva aggraziato come una ballerina: le zampe, le orecchie, il codino… tutto a tempo. Aveva perfino un catarifrangente attaccato al sedere per evitare tamponamenti, immagino.
Okay gente, buon Natale dal posto più assurdo del mondo, ossia il nordest della Thailandia, dove ero andata a cercare me stessa.
La cosa pazzesca della Thailandia a dicembre è il clima. Ci sono ventotto gradi asciutti e ventilati e un cielo sempre perfettamente limpido in cui le rondini volano così alte che nemmeno le senti garrire. Questo è scritto nella Lonely Planet e posso confermare che è tutto vero. Quello che non c’è scritto è che col cavolo che tutto profuma di frangipane.
Se ti arrampichi fino alla cima di qualche collina, mettiamo per raggiungere un tempio khmer, che per inciso è la cosa più bella che abbia visto in vita mia, allora sì, il profumo di frangipane è così forte che ti fa venir voglia di stenderti a terra a guardare le nuvole finché non ti morde un serpente. Ma a parte questo, l’odore della Thailandia è semplicemente spaventoso. Un misto di pesce marinato, bucce di cocomero e spazzatura. Senza contare il durian, la cosa più fetente al mondo. Ed è un frutto, in teoria, che però non puoi portarti nemmeno in aereo, perché puzza così tanto da rischiare l’insubordinazione dei passeggeri.
Nemmeno Bangkok con tutto lo smog e l’odore di spiedini grigliati e di piedi estratti dalle scarpe da ginnastica di milioni di backpacker regge il confronto. Eppure già mi mancava. Mi mancavano il rumore dei tuk-tuk lanciati a mille all’ora e gli accenti strani dei ragazzi con i dread che corteggiavano le ragazze con il piercing.
Papà mi aveva avvertito che sarei atterrata a Freaktown e, per i primi giorni, il tempo di riprendermi dal jetlag e di visitare il palazzo reale, mi aveva dato il tormento per sapere che cosa fosse cambiato e che cosa invece fosse restato uguale rispetto a quando ci veniva lui. Il che era l’unica cosa buona di questo angolino nella provincia di Ubon Ratchathani dove mi ero rifugiata: c’era poco da raccontare e un solo bar con la connessione Wi-Fi, pertanto il mio nostalgico padre aveva meno scuse per chiamarmi su WhatsApp.
Finii la Singha mentre il mio elefante natalizio spariva nella notte, lento e inquietante come un sogno. Mi alzai e fu a quel punto che mi resi conto di barcollare.
Il cameriere disse qualcosa che sulle prime non capii ma che suonava come iuppeidebill. Ovvio che avrei pagato il conto, scemo. Dovevo solo recuperare i soldi che non sapevo più in quale tasca fossero finiti…
Mi svegliai sotto la zanzariera in un bagno di sudore. Sete, mal di testa e un peso sul petto che non aveva niente a che vedere con la digestione di un irresistibile mix di pollo, zenzero e curry verde meglio noto come Tom Yam. Mi sforzai di respirare, ma sembrava che l’aria non ne volesse sapere di scendere nei polmoni.
Senza nemmeno aprire gli occhi afferrai la boccetta di gocce sul comodino e me ne versai dieci sotto la lingua. E senza nemmeno aspettare che facessero effetto iniziai a recitare la mia personale preghiera, quella che papà definiva “il rosario della buona sorte”. L’idea gli era venuta ascoltando i R.E.M. e da allora tuonava Count your blessings! tutte le volte che uno di noi si azzardava a lamentarsi di qualcosa. Il che, dall’alto della sua sedia a rotelle, faceva sempre una discreta figura.
Quello che avevo.
Un nome palindromo che mi piaceva tantissimo, Anna.
Diciott’anni a brevissimo.
La possibilità di trascorrere un anno in Thailandia prima di compiere diciott’anni.
Le gambe lunghissime di mia mamma.
Quello che non avevo.
Il carattere del mio ex meraviglioso ex papà.
Voglia di tornare.
Voglia di restare.
Il rosario della buona sorte non sortì l’effetto sperato, ma le gocce sì. Mi aspettavano il Pranzo di Natale con le bambine, la direttrice, il personale e gli altri volontari, quindi ansia o non ansia dovevo alzarmi.
Detto così sembrava un esercito, invece eravamo al massimo una ventina. Le bambine erano la cosa più bella, naturalmente. La direttrice della Casa del Sorriso, Myrtle, sosteneva di non avere abbastanza personale per occuparsi di casi “difficili” il che, tradotto, significava che le nostre bambine non avevano malattie gravi o mutilazioni spaventose. Da che ero lì pensavo spesso a Tippi e ai giorni che aveva trascorso qui prima che i miei la adottassero. Mi piaceva immaginarla mentre cantava a squarciagola canzoni di cui non capiva il senso, piene di neve e di renne, storpiando tutte le parole.
Sentii un coro di esclamazioni infantili dal piano di sotto da cui dedussi che fosse arrivato il momento di aprire i regali. Mi feci forza e mi alzai.
Io avevo scelto per tutte quaderni e matite, un dono magari poco originale ma intelligente se avessi potuto aggiungerci un temperamatite che però quaggiù era introvabile; entro due giorni, quando le matite sarebbero state spuntate, le bambine le avrebbero usate per accecarsi, come mi fece puntualmente notare Myrtle.
Sofia, la mia compagna di stanza buddhista e futura cooperante internazionale, aveva scelto dei piccoli tamburi e a quel punto il baccano era letale.
Le bambine ci avevano regalato dei disegni che raffiguravano varia gente con larghi sorrisi e soli gialli. Fra tutti spiccava una ragazza grossa il doppio degli altri con lunghi capelli ed enormi occhi rotondi. Quella ero io.
Servimmo riso e gamberetti piccanti, avocado piccante, ananas piccante e per dolce un plum-cake alla banana. Sunee era una volontaria, quindi non la si poteva sgridare perché aveva sfornato un dolce minuscolo rispetto al numero dei commensali. Sofia rinunciò immediatamente alla propria fetta dicendosi sazia. Nessuno degli adulti si era nemmeno avvicinato con la forchetta, perché, diciamocelo, quale adulto mangerebbe un plum-cake alla banana, a parte me?
Siccome qualsiasi alternativa era preferibile a una cena con Myrtle e Sofia, dopo aver sopportato il pranzo e le canzoncine, quella sera decisi di mangiare al bar degli americani.
In estremo oriente non esistono quei tramonti languidi e interminabili che rendono strepitosa l’ora dell’aperitivo sul Mediterraneo: il sole scende presto e a una velocità supersonica e non si fa in tempo a dire “tramonta?”, che è buio pesto. Ecco perché è fondamentale avere sempre una torcia nello zaino e i catarifrangenti attaccati alla bici (o all’elefante).
«Ehi! Dove vai?»
La voce della coscienza, alias Grillo Parlante, alias Sofia risuonò alle mie spalle mentre slegavo la bici.
«Al tempio» risposi senza voltarmi.
«Fra poco sarà buio, vuoi che ti accompagni?» propose con quel tono conciliante e irritante. «Queste strade sono pericolose.»
Per non risponderle di farsi i fatti suoi dovetti tenermi – fisicamente – la lingua fra i denti. Comunque riuscii a rispondere: «No, grazie. Ho bisogno di restare un po’ sola».
«Come vuoi.» Sofia era contenta quando le sue buone intenzioni non si traducevano in buone azioni, e io più di lei.
Le bambine stavano già uscendo a giocare, se non mi fossi sbrigata sarei rimasta incastrata in qualche attività ricreativa. Il fatto che Tippi fosse stata lì mi rendeva ai loro occhi una specie di sorella maggiore, quindi ero sempre la prima a cui veniva chiesto di far volare gli aquiloni e catturare i grilli. Inforcai la bici e scappai via senza nemmeno chiudermi il cancello alle spalle, cosa per cui sarei stata adeguatamente sgridata più tardi, al mio rientro.
Le bici thailandesi, che poi sono bici cinesi del tempo della Rivoluzione culturale, pesano come camion. Superai sbuffando i brutti edifici di calcestruzzo e il ristorante dove avevo cenato la sera precedente. Notai che era vicinissimo, quindi… come avevo fatto a metterci tanto a rientrare? L’idea che potessi essere davvero ubriaca per un attimo mi attraversò la mente, ma siccome stavo per arrivare a un incrocio senza semaforo mi concentrai sulla strada. Problema accantonato.
Poco dopo iniziava uno sterrato, e il panorama finalmente diventava più interessante. Pedalavo schivando carretti ed elefanti carichi di legna, bambini inseguiti da cagnolini invariabilmente gialli, bufali immersi nell’acqua delle risaie, resi dorati dalla luce del pomeriggio. Pedalavo come se nessuno mi stesse aspettando da nessuna parte, il che non era vero, ma mi piaceva pensarlo. Mi restavano ancora mesi da trascorrere in Thailandia. Mesi a pulire pavimenti e sparecchiare, ma pur sempre mesi lontano da casa.
Ero sempre stata un tipo sportivo e mi piaceva andare in bicicletta, specie lì dove non faceva mai c...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Ringraziamenti
  4. Copyright