Cosa resta di Male
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Cosa resta di Male

  1. 336 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Cosa resta di Male

Informazioni su questo libro

È un torrido pomeriggio d'agosto, il sole picchia sulla pianura Padana seccando l'erba e il granturco. Amato è nascosto in macchina con la cuginetta Gioia, che ha appena schiacciato una lucertola sotto la scarpa. «Ora devi fare una cosa» gli dice, «altrimenti schiaccerò anche te. Devi baciarmi i piedi, come a una principessa.» Amato è ancora un bambino, eppure una scintilla buia gli si accende dentro. Desiderio, vergogna, paura: sentimenti che non sa come gestire né con chi condividere. Finché nella sua vita non arriva Malena, detta Male, una ragazzina con la pelle di luna e l'oscurità in fondo agli occhi. Capelli neri, felpa nera, scarpe nere. Ad Amato basta uno sguardo per capire che da quel momento non sarà più solo: gli amici, la musica, la nebbia malinconica del cielo di Cremona, tutto resta sullo sfondo per fare spazio a questo nuovo mondo a due. Lui e Male si scoprono, si ascoltano, si riconoscono l'uno nell'altra togliendosi ogni giorno un pezzo di corazza mentre la loro affinità si trasforma, col tempo, in una tenera e feroce educazione sentimentale. Con questo sorprendente romanzo d'esordio, Gianmarco Soldi racconta la storia di una passione giovane ma potentissima, nata in una provincia senza orizzonti e senza certezze in cui l'amore è l'unico futuro davvero possibile.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2019
Print ISBN
9788817109918
eBook ISBN
9788858696163

PARTE SECONDA

1

«Cogli la rosa quando è il momento. In latino si dice carpe diem» spiegò Robin Williams dalla televisione appoggiata al centro della cattedra. Dietro, appena sotto il crocifisso, svettava il calendario del 2008 tutto scarabocchiato.
«Che palle ’sto film» mormorò Mattia nascondendo il volto tra i gomiti.
«Io l’ho già visto una decina di volte, ma non mi dispiace» sbuffai. «È che, semplicemente, sei troppo ignorante per capire qualsiasi forma d’arte.»
«Almeno non sono frocio. Quelli nel film sembrano tutti froci.»
«Potresti scriverlo nel compito per la Corazzi. Significato del film L’attimo fuggente: tutti froci.»
«Garbi! Zago!» tuonò la Corazzi. «Silenzio, abbiate rispetto almeno per i vostri compagni.»
«Scusi, prof» mormorammo insieme. Io tornai al sudoku sul cellulare e Mattia a guardare il vuoto.
Davanti a noi, Silvia e Gloria sonnecchiavano con le teste appoggiate l’una all’altra, i capelli castani e rossicci che si intrecciavano in geometrie disordinate. Potevo vedere il perizoma nero di Silvia sbucarle dall’orlo dei jeans a vita bassa. Strappai un pezzetto di carta dal quaderno, lo appallottolai compattandolo con la saliva, presi la mira e glielo lanciai nell’apertura dei pantaloni.
Lei si girò di scatto, con quell’espressione di finta collera che negli anni aveva anticipato i baci contro i muri del corridoio, nello spogliatoio di educazione fisica, le fellatio sull’ultimo sedile del pullman. Non ci piacevamo, ma ci volevamo bene e amavamo condividere quei momenti di disordine ormonale. Un incrocio di destini quasi perfetto. Poteva essere considerata un’amica.
«Dopo facciamo i conti» sussurrò. Si portò due dita sotto le palpebre – ti tengo d’occhio –, io mi passai la lingua sulle labbra, lentamente. La Corazzi mi vide e mandò lo sguardo al cielo. Era una donna a volte arcigna, con i capelli grigi e un accenno di gobba, ma la sua bontà d’animo era famosa quasi quanto i «Sono ragazzi!» con cui giustificava gli eccessi della nostra età.
Dopo una lotta estenuante durata tutta l’estate, quattro anni prima papà mi aveva convinto a iscrivermi al liceo scientifico anziché al classico, sostenendo che «la classe dirigente passa sempre dallo scientifico, Amato, e tu ne farai parte». All’epoca nessuno, in famiglia, si immaginava che di far parte della futura classe dirigente non mi importasse molto.
Mattia, dal canto suo, era stato scortato di peso – letteralmente – nell’atrio odoroso di detersivo e pizzette con lo scopo di diventare il primo Garbi a ottenere un diploma di maturità. Solo dopo qualche mese di amicizia mi ero permesso di fargli notare che si sarebbe potuto diplomare frequentando qualsiasi altra scuola superiore; lui mi aveva studiato confuso per qualche secondo – le pupille più grandi, buone e vuote che abbia mai incrociato nella mia vita – e poi aveva detto che l’avrebbe fatto presente ai suoi genitori.
Dalla nostra finestra dominavamo l’intera via Palestro, su cui si affacciavano le principali scuole di Cremona. Geometri, ragioneria, agraria, scientifico, magistrali, turismo. Si presentava come un caos di comignoli, portoni, giardinetti e angoli per pomiciare, graffiti del Movimento Studentesco e dichiarazioni d’amore scarabocchiate sui muri già dai tempi dei nostri genitori. Era la nostra giungla e noi eravamo la cosa più simile a scimmie che circolasse nel raggio di chilometri. Osservarla dall’alto ci faceva sentire per qualche secondo delle aquile, predatori in attesa, anche se probabilmente tutto ciò che si vedeva dal basso erano guance brufolose e fronti unte.
La Corazzi cominciò a domandare pareri sul film, seduta sul bordo della cattedra con le mani giunte in grembo. Io diedi una gomitata a Garbi per dargli il tempo di svegliarsi, poi mi voltai verso Giuditta. Sospirai.
Giuditta non era considerata molto bella. Zigomi appuntiti e un seno inesistente, aveva però quell’irresistibile dose di acidità e cattiveria che mi aveva catturato dal primo sguardo. Qualcuno diceva che avesse un debole per le orecchie dei ragazzi, e io ogni pomeriggio controllavo la forma delle mie, chiedendomi se le potessero piacere. Mi ero invaghito di lei credendo di esserne innamorato, come si può essere innamorati a diciassette anni di qualcosa di irraggiungibile e – nel caso diventi raggiungibile – nocivo.
Solo Mattia e Claudio sapevano dei miei sentimenti verso di lei. Il primo li definiva una chiara prova del mio essere frocio – «Giuditta non ha le tette. Se una donna non ha le tette allora è un uomo. Se ti piacciono gli uomini allora sei frocio» – mentre il secondo, dall’alto della sua gentilezza triste, aveva intuito come quell’attrazione rappresentasse un effetto indiretto del segreto che mi portavo dentro.
Un giorno dell’inverno precedente, quando avevo lasciato Greta subito dopo aver perso la verginità, Claudio mi aveva chiesto perché avvertissi il bisogno di non essere amato. Aveva cercato di rendere la domanda meno dolorosa facendo un buffo parallelo col mio nome, ma ci conoscevamo da troppo tempo perché mi sentissi in dovere di ridere. Avevo risposto che non si trattava di non essere amato, ma del desiderio di cadere in balìa di persone capaci di schiacciarmi, di farmi del male. Di rimettermi al mio posto, anche se non sapevo bene quale fosse. Giuditta, alta e altera, con i lunghi capelli perennemente raccolti in una coda che le induriva i lineamenti già duri, era la perfetta sintesi della mia ricerca. L’antitesi della donna angelo dantesca, demonio fatto donna per me.
«I piedi sono il simbolo di questo tuo desiderio?» aveva mormorato Claudio, col suo tono di voce flemmatico, sempre più simile a quello di don Pietro. Sapeva che era un argomento di cui non parlavo volentieri.
«Non saprei. Penso di sì.»
«Ed è sempre stato così?»
«Forse. Ti ho raccontato di mia cugina…»
«Me lo ricordo. Quel giorno alle Tombe Morte, insieme a Kle.»
«Già… In ogni caso, non ho mai capito se fosse una cosa già dentro di me, che lei ha tirato fuori… Oppure se lei sia stata la causa di tutto.»
Negli ultimi dieci anni non avevo più visto Gioia. A ogni festa comandata avevo inventato una scusa per saltare le cene di famiglia, fino a quando avevo avuto il permesso di decidere liberamente di non partecipare – un altro paletto nel cuore di papà, un’altra piccola crepa nel nostro amore infinito.
«Quindi Greta ti amava troppo?»
«No. Mi amava nel modo sbagliato. Mi ricordava Alice.»
«Ami… essere buoni non è una colpa. Non parlarne come se fosse una mancanza.»
«Cla, ma ti rendi conto? Non siamo nemmeno maggiorenni e parliamo come due vecchi col cuore infranto» avevo scherzato cercando di cambiare discorso.
«Io credo solo che se continuerai a cercare persone capaci di fare male, sarai tu a fare male a chi ti ama davvero» aveva detto tutto d’un fiato, senza guardarmi.
Avevo ripensato a Greta, ai suoi baci zuccherosi, ai «ti amo» sinceri detti troppo presto, stretti sotto l’ombrello all’uscita del cinema Tognazzi dopo la proiezione di Into the Wild. Ai cornetti del bar Tiffany e alle fototessere scattate insieme sotto la Galleria. Pioveva anche il pomeriggio in cui si era spogliata al caldo del soppalco che dava su corso Mazzini, ingombro di cornici a forma di cuore, CD dei Blue e dei Tokio Hotel, peluche, dediche di amiche su cartoncini colorati e ghirlande di fiori sintetici. Si era fatta penetrare lentamente, stringendo le gambe tornite al mio bacino, io avevo rivolto lo sguardo verso i suoi piedi ancora infilati nei calzini bianchi, e nell’istante stesso in cui aveva sussurrato: «Ora non mi fa più male, Amato», avevo capito che stavo facendo l’amore con una persona che non amavo. E inevitabilmente – sapevo sarebbe accaduto – mi ero ritrovato a pensare a Male, nonostante negli ultimi sei anni non l’avessi più vista.
Avevo perso la verginità recitando il solito mantra: “Dove sei dove sei dove sei”.
Mattia non lo sapeva, ma dalla mia posizione accanto al vetro la cercavo ancora. Inutilmente, strenuamente, tra le centinaia, migliaia di ragazzi che ogni giorno riempivano e svuotavano via Palestro in un perenne esodo. Non gli avevo raccontato di lei né dei miei singolari gusti sessuali né del mio buio – non osavo immaginare che tipo di reazione avrebbe avuto.
Perché di buio si trattava. Ne avevo avuto la prova. Qualche anno prima, approfittando di un weekend in solitudine a casa, mi ero intrufolato in camera di papà e avevo avviato l’enorme computer che svettava al centro della scrivania. Sapevo che la password era AAAM – le iniziali dei nostri nomi – quindi era stato fin troppo semplice accedere al desktop e all’icona di Internet Explorer.
Avevo digitato sulla stringa di ricerca di Google: “Perché mi piacciono i piedi?”.
D’un tratto erano comparsi così tanti risultati che mi ero sentito frastornato. Possibile che altre persone avessero il mio stesso problema? Che non fossi l’unico al mondo a custodire quell’orrido segreto? Dopo aver scrollato i principali risultati, avevo notato la voce Feticismo su Wikipedia.
Un respiro. Un altro ancora. Avevo cliccato, l’addome così contratto da temere di dover correre in bagno in preda a un attacco di diarrea. Poi avevo letto e avevo capito due grandi verità.
La prima era che il feticismo – perché quello era il suo reale nome, la definizione scientifica – era più diffuso di quanto pensassi.
Secondo: il feticismo era una perversione.
Ero tornato immediatamente alla homepage di Google, dove avevo scritto: “perverso sinonimo”. E avevo sentito il buio farsi piccolo e poi enorme, spalancarsi e planare su di me come una tempesta.
Crudele
Diabolico
Infame
Maligno
Malvagio
Perfido
Scellerato
Turpe
E infine, come una sentenza: “Intimamente incline al male”.
Con un senso di vuoto dove prima c’era un groviglio di intestini, avevo spento il computer e mi ero trascinato fino al bagno. Non mi ero preoccupato di chiudere la porta: la casa era silenziosa, pronta per ricevere il mio male. Mi ero guardato allo specchio sussurrando: «Perverso, perverso, crudele, perverso, malvagio, malato, mostro, mostro!», alzando la voce fino a urlare. Avevo poco più di quindici anni e mi sentivo attorcigliato come gli alberi di Chernobyl che vedevo alla tv quando ero bambino. «Mostro! Deviato!»
Le mie parole riecheggiavano ancora nell’enorme torace di stanze silenziose quando, spogliatomi del pigiama, mi ero toccato di fronte al mio riflesso sconvolto. Poi, di fronte al mio piacere sparso nel lavabo, finalmente avevo pianto.

2

Ero un essere ripugnante, un alieno. Come quelli verdi e crudeli del film Signs con Mel Gibson – un must nell’Archivio di ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Cosa resta di Male
  4. 0
  5. PARTE PRIMA
  6. PARTE SECONDA
  7. PARTE TERZA
  8. PARTE QUARTA
  9. EPILOGO
  10. Ringraziamenti
  11. Copyright