Bufera
eBook - ePub

Bufera

  1. 160 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Simon e Angela non potrebbero essere più diversi: lei, figlia di un pastore anglicano, tutta chiesa, parrocchia e opere di bene, lui ateo, cinico e dissacrante. Eppure, nonostante si conoscano da sempre, un giorno è come se si vedessero per la prima volta e si innamorano perdutamente. Ma dopo i primi idilliaci momenti i nodi vengono al pettine e quel legame che sembrava per sempre si spezza. In una gelida notte di Natale, sotto la bufera di neve più spaventosa che l'Inghilterra abbia mai visto, si trovano a rischiare insieme la vita e a scoprire che dalla diversità può nascere una grande forza. Margaret e Ralph si incontrano e s'innamorano in un'estate torrida, alla vigilia degli esami di diploma e prima della partenza per il college. Abituato ad avere dalla vita tutto ciò che desidera, Ralph vorrebbe che Margaret lo seguisse a Cambridge ma lei, sobria e concreta, sceglie per sé un'università meno blasonata e commisurata alle sue aspirazioni. Sotto i colpi dei cambiamenti, il loro rapporto si incrina, rivelando tutta la sua fragilità. E quando la vita non va come ci si aspettava, spesso è chi sembrava meno forte che sa trovare il coraggio per battersi e guardare avanti, per entrambi o magari anche solo per se stesso. Due storie d'amore, due voci, una maschile e una femminile, che raccontano la complessità, le incertezze, l'esclusività, le gioie e i dolori del primo, indimenticabile amore.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2018
Print ISBN
9788817105361
eBook ISBN
9788858695449

Chapel Farm

Traduzione di BÉRÉNICE CAPATTI
Non c’è mai stata un’altra estate come quella del 1976. Il caldo era nostro padrone; un amante senza rimorsi che all’inizio ci piaceva, poi proseguiva all’infinito finché non diventava un tormento. Quel pensiero mi venne mentre ero sdraiata, magra e nuda sul letto, e alzavo alternando scapole e sedere perché l’umido lenzuolo di sotto mi si staccasse piano dalla pelle. Era un piccolo piacere, in qualche modo, ma non sufficiente a far passare le brevi notti.
Perché non potevo sopportare di dormire nuda al buio. Eppure il caldo era tale nella mia camera sotto le tegole di ardesia, con la sua stretta finestrella mezza bloccata, che non sopportavo nemmeno un lenzuolo, per non parlare di un pigiama. Oh, quanto invidiavo le ragazze che riuscivano a stare stese nude con braccia e gambe divaricate nella calda oscurità senza preoccuparsi di cosa sarebbe successo. Il massimo che osavo fare, verso l’alba, era sporgermi dalla finestra, alta sopra il selciato, e lasciare che il minimo accenno di brezza accarezzasse il mio piccolo seno sudato, mentre guardavo passare un nottambulo occasionale, un poliziotto o un operaio. E mi chiedevo se avrebbe alzato lo sguardo e mi avrebbe vista. Ma, mezzi morti dal caldo anche loro, non lo facevano mai. Eppure i miei genitori sarebbero stati sconvolti da quel piccolo rischio notturno, la mia infima roulette russa contro la rispettabilità.
Ogni tanto la prima luce dell’alba portava dalla brughiera una brezza odorosa di felce, che si insinuava tra la puzza della fuliggine posata sulle spesse tegole d’ardesia, investendo tutta la città. E bastava questa associazione a farmi dormire, finalmente, per poi svegliarmi appesantita e confusa sentendo i miei genitori che litigavano giù in cucina. L’ambiziosa casalinga e l’impiegato. Non c’era il rischio che fossero violenti, perché tutta la violenza era destinata alle lingue. Non c’era nemmeno il rischio che si separassero, perché chi altri avrebbe mai tollerato di vivere con loro? A parte il fatto che avevano bisogno dell’altro per litigare. Adoravano fustigarsi la tenera pelle a vicenda. Sono certa che passassero giorni interi di spossanti lavori domestici o monotone compilazioni di registri a preparare nuove confezioni di insulti, ardiglioni di odio superaffilati. Forse correvano a casa per trovarsi insieme e cominciare. In qualche modo doveva essere una passione, vivevano per affinarne l’arte; come certi uomini vivono per l’amore, per suonare in una banda di ottoni o giocare a bocce. Ero solo io, l’unico pubblico (e a loro piaceva avere un pubblico), a odiarlo davvero.
Avevo imparato a non avventurarmi di sotto finché lui non era andato al lavoro. Né per la successiva mezz’ora, perché se lei aveva qualche ardiglione inutilizzato li rimodellava per me. Il risparmio è guadagno, era uno dei suoi motti. Ma dopo una mezz’ora l’irrequietezza la portava a fare qualcosa; un giro dei negozi o una capatina in giardino per battere i tappeti appesi sul filo per stendere con una furia intesa per mio padre. E poi, dopo essermi lavata e vestita in silenzio, correvo giù con la borsa dei libri, prendevo al volo un pezzo di pane imburrato e formaggio, una mela o un’arancia, e via, risalivo di corsa la strada scoscesa prima che le sue grida rabbiose riguardo a dove pensavo di andare raggiungessero le mie orecchie.
E poi su, ad arrampicarmi sui ciottoli, sul marciapiedi irregolare di arenaria, fino all’alta brughiera. Sentivo l’onda lunga della brughiera in arrivo attraverso le suole sottili dei sandali e la pietra calda, prima di sfuggire agli ultimi bassi cottage e agli alti muri a secco dei giardini, e vederla. E poi mi sentivo al sicuro. C’era un vecchio sedile dove le case finivano e cominciava l’erba fuligginosa. Mi ci riposavo, col fiatone, sul confine del mio regno, osservavo la liscia brughiera che scendeva, bruna per il caldo come la pelle di un leone, fino a incontrare le case che si arrampicavano come un eczema di pietra dai tetti di ardesia. In fondo alla valle rimaneva intrappolato lo smog, preciso come una torta a strati, trapassato soltanto dalle guglie delle chiese, le ciminiere delle fabbriche e il breve baluginare dei parabrezza delle auto. Quel mondo odiato giù in fondo, disprezzabile, che non poteva farmi del male. Come non potevano farmi del male le lingue affilate dei miei compagni, ora che ero libera e studiavo per il diploma. E studiavo, studiavo, da secchiona. Se avessi avuto una casa felice, avrei potuto indugiare in stupidaggini come i dischi pop e i jeans a zampa di elefante e sognare di ragazzi, che era il passaporto per essere accettati, gli ultimi anni di liceo. Forse avrei anche avuto una possibilità in amore, perché avevo gambe lunghe e caviglie di una sottigliezza quasi incredibile, occhi grandi e naso diritto. Ma ero alta uno e settantacinque, e non facevano altro che paragonarmi a grucce e manici di scopa.
Del resto non avevo tempo per l’amore. Prendere il diploma era la mia unica possibilità di andarmene, e lo sapevo. I miei genitori non avevano rispetto per l’istruzione; al primo scivolone sapevo che sarei stata spinta a forza in qualche noioso lavoro impiegatizio. Ma mio padre mi avrebbe lasciata andare all’università, se fossi passata, in modo da potersene vantare al pub con i suoi cosiddetti amici. E mia madre l’avrebbe sventolato con superbia in faccia a quelle che si riunivano per i suoi piccoli tè fatti al risparmio.
Io mi sedevo a mangiare un po’ di pane e formaggio, ingoiavo grandi boccate di aria pulita, e m’incamminavo tra le ombre blu che scorrevano, accarezzando la brughiera.
Sempre nello stesso luogo. A Chapel Farm. Oltre Brigg Farm, l’ultima dimora abitata, occupata da un vecchio ubriacone di nome Ben Micklethwaite, che preferiva pisolare sdraiato sulla panca con gli stivali infangati ai piedi che badare alle pecore. A me stava bene, perché il suo cane, una femmina da pastore dalla testa sveglia ed elegante, essendo annoiata, era diventata mia amica. Ogni giorno, stesa nella cuccia mangiata dai vermi con il naso sulle zampe, mi notava quando passavo. La coda sventolava appena, in maniera quasi impercettibile. Visto che era saggia, non mostrava altra reazione. Ma mi raggiungeva sempre più avanti, con il naso che spuntava da sotto un cancello. E trascorreva il resto della giornata con me.
Si chiamava Nell. Per lo meno è questo il nome che lo avevo sentito gridarle una volta, quindi la chiamavo così anch’io. Era filiforme, come tutti i collie delle alture, non che ne risentisse. La vedevo correre in salita per la sola gioia di correre! E poi balzarmi tra le braccia, tutta ossa e vigore e manto soffice, e grandi orecchie che si rizzavano se era davvero interessata, ma altrimenti ciondolavano. Un lungo muso aguzzo, l’ampio cranio che denota un cane di grande intelligenza, e gli occhi castani più affettuosi del mondo. La lingua che penzolava dall’angolo della bocca, come se non smettesse mai di ridere. Una risata leggermente lupesca (l’avevo vista acchiappare un coniglio) ma comunque vera.
Quel giorno mi raggiunse, come al solito, e pretese i dieci minuti di feste che le concedevo sempre. Una lieve leccata del viso, un’annusata della bocca per scoprire cosa avessi mangiato a colazione, le piccole zampe delicate sulle spalle. Un rivoltarsi di orecchie che mostravano il loro pallido interno come piccoli palazzi fatti di carne. Un dimenarsi e rovesciarsi tra le mie braccia, così che i suoi neri capezzoli bitorzoluti apparivano sotto il sottile pelo della pancia, contro il fosco grigio piombo della pelle. I contadini dei dintorni non toccavano mai i propri cani con affetto; dicevano che guastava la loro natura. Che stupidi! Il primo amante dei cani che arriva può rubarli.
Oltre Brigg Farm la strada non è più nemmeno uno sterrato; sentieri gemelli che si mantengono sempre alla stessa distanza, scavati dal passaggio occasionale delle ruote di un trattore; il dosso tra di loro spesso e fitto di botton d’oro e denti di leone. Dubitavo che Ben Micklethwaite andasse da quelle parti più di due volte all’anno; forse per tosare le pecore e farle bagnare in primavera e autunno. Lasciava la brughiera ai folli volteggi delle pavoncelle, e al torreggiare delle allodole, e ai misteriosi richiami di quelle che dovevano essere pettegole, sempre lì, mai in vista. A questo e al leggero fruscio dei miei piedi sul terreno erboso, e alle improvvise sorprendenti interruzioni del cane.
La strada scendeva dolcemente e io scesi con lei. Brigg Farm scomparve dietro di me, e con lei tutta la valle, e il mondo. Ora mi trovavo in una grande conca poco profonda in cui si vedeva soltanto la brughiera e muri di pietra rotti, e recinzioni di fil di ferro arrugginito e calpestato, e Chapel Farm sul poggio davanti. Pensavo sempre alla sua splendida posizione; riparata grazie alla collina dai venti di nord-est, e con accanto il laghetto che dava acqua fresca a primavera, un disco azzurro chiaro quella mattina. Ma mi chiedevo anche chi avesse costruito lì Chapel Farm. Naturalmente le nostre brughiere sono piene di costruzioni in pietra abbandonate, i tetti ancora solidi e lastre di ferro arrugginito che coprono porte e finestre. Case di campagna, stalle, cottage di pastori abbandonati quando le mogli si seccavano di non avere l’acqua corrente e il water e la televisione.
Ma Chapel Farm era più grandiosa, di una grandiosità assurda per quel posto solitario. Stavo passando tra due montanti senza cancello con rozze incisioni di bestie alate che reggevano degli scudi. Le incisioni erano chiare, ma gli emblemi sugli scudi erano stati rosicchiati da vento, gelo e licheni, se mai c’erano stati all’inizio. E quando ci passavo in mezzo, mi sembrava sempre che il silenzio si facesse più profondo. Di solito mi piaceva il silenzio; ma una volta mi aveva procurato un raro spavento, anni prima. Ci ero venuta, poco dopo aver trovato quel posto, con qualche mela e del cioccolato e Il giro di vite di Henry James. E mi ero sdraiata a leggere e a masticare per tutta quella lunga, calda giornata finché, arrivati quasi al punto culminante del libro, la recinzione di fil di ferro mi aveva vibrato all’improvviso contro il gomito.
Ero balzata in piedi, in un bagno di sudore, per scoprire che ero ancora sola, fin dove riuscivano a vedere i miei occhi. E questo era stato ancora più spaventoso. Finché il filo aveva vibrato più e più volte, e avevo visto, quattrocento metri più in là, una povera pecora impigliata tra due fili della recinzione, che lottava per liberarsi. Mi ci era voluto tutto il coraggio che possedevo per andare ad aiutarla, perché questo mi portava a quattrocento metri da casa. E dopo averla liberata, mi aveva rivolto uno sguardo con i suoi occhi folli e oblunghi, ed era corsa via e da lì a cinquanta metri era svanita, lasciandomi di nuovo sola. E all’improvviso non potevo più sopportare di rimanere lì. Perché quando sei solo, la luce del sole non ti dà alcuna protezione dai morti viventi come Quint di Henry James. Ero corsa singhiozzando fino a casa, perché avevo solo tredici anni e non mi ero sentita al sicuro finché non avevo raggiunto il cancello, ed ero così contenta di vedere mia madre che ero riuscita a smuovere perfino la sua anima inacidita.
Ero stata… attenta… con Chapel Farm da allora. Attenta a non offenderla. E per lungo tempo non mi aveva più spaventata.
Mi ci avvicinai in quel momento, grata delle sue magre ombre, perché il caldo di quella giornata stava toccando il suo massimo furore, e sudavo. Non faceva molta ombra, perché i tetti erano tutti andati tranne uno, ed era aperta al cielo. Il che la rendeva l’unica costruzione priva di tetto dei dintorni; i contadini lì intorno costruivano tetti che duravano per sempre. Avevo capito da tempo che doveva esserci stato un incendio perché, benché molti anni di vento e pioggia avessero lavato la pietra, c’era ancora della fuliggine incrostata negli angoli. E l’interno era ingombro di detriti in mucchi alti fino a un met...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Bufera. Traduzione di ANGELA RAGUSA
  4. Chapel Farm. Traduzione di BÉRÉNICE CAPATTI
  5. Copyright