Siamo rimasti sul nostro scoglio a fantasticare, fino a che non è arrivato il messaggio di Marica a rovinare tutto. Paolo mi ha raccontato degli ultimi anni, della pena a vivere con una donna che non ama, dell’amore per i figli, del masso che da tempo si è sistemato sulla bocca dello stomaco, del desiderio di dormire e di svegliarsi in un’altra era, della salita che dovrà ancora fare finché i figli non saranno tutti laureati, delle poche soddisfazioni quotidiane, del desiderio di scappare, del sogno di vivere una vita accanto a me.
Il messaggio è stato asciutto e sintetico: dove sei? Alle quattro viene mia sorella, non tardare.
Ci siamo salutati con un ultimo bacio e la promessa del nulla. Non abbiamo parlato di Villa Paradiso. Era tutta una scusa, e lo sapevamo entrambi.
Io me ne sono andata verso casa con il cuore pieno di angoscia e di eccitazione. Non riuscivo a discernere i due sentimenti, ero tormentata da un semplice bacio o dalla sua confessione finale? I piedi mi hanno portata in modo naturale da Fiorina, come se là ci fosse un rifugio sicuro dove ripararmi.
Sono quasi arrivata all’ingresso principale, praticamente ho fatto la strada di corsa, e mentre correvo pensavo a Paolo, a come sarebbe stato fra noi se almeno uno dei due si fosse deciso a parlare. È troppo tardi per ricominciare? Mi domando nel bel mezzo dell’occhio dell’uragano. Un grande camion bianco sta uscendo dal cancello, su una fiancata leggo, anche se sono senza occhiali, Traslochi Bodnarescu. In giardino ci sono i soliti degenti, quei pochi ai quali non è stato revocato il permesso di stare all’aria aperta, naturalmente Fiorina non c’è. Entro nell’atrio, mi guardo attorno, alla reception per una volta c’è un’infermiera, quella con i capelli da maschio e la voce da quaranta sigarette il giorno.
«Buon pomeriggio, è arrivato un nuovo ospite?» le domando fissando le scatole di cartone ammucchiate nell’atrio.
«No, sono i degenti dell’ala B che se ne vanno.»
«Che se ne vanno?» faccio da eco.
«È la parte che non è stata messa in sicurezza, sarà chiusa, se ci saranno i fondi inizieranno i lavori di adeguamento, in caso contrario perderemo dei posti letto,» risponde con naturalezza l’infermiera.
E forse perderete anche posti di lavoro, vorrei urlarle.
«Quanti sono i degenti che saranno spostati e dove?»
L’infermiera guarda il monitor scocciata. Non mi sembra disponibile a fare conversazione.
«All’incirca dodici, dove andranno non lo so. Mi scusi ora ho da fare,» e chiude lì la conversazione.
Mando un messaggio di alert alla zia, poi con l’ansia a mille corro verso la camera di Fiorina.
Possibile che non capiscano che si tratta di vite umane, che stanno sradicando dodici anziani dalla loro casa, dai loro affetti, dai loro punti fermi? Mi scoppia il cuore, mi fa male vedere quella montagna di scatole, ci saranno effetti personali, ricordi, ricami ancora da finire, fotografie, libri, piccoli oggetti di una vita. Le scatole verranno messe alla rinfusa in un garage e poi qualcuno ne rivenderà il contenuto in qualche mercatino di provincia.
«Fiorina, ci sei?» sussurro bussando alla porta della sua camera. Mi aspetto da un momento all’altro che anche Fiorina venga spostata chissà dove e con chissà quale scusa. È seduta accanto alla finestra, imbacuccata in una tuta extra large, sta guardando gli operai che caricano le scatole sul camion. Posso immaginare il suo dolore.
«Fiorina, andiamo fuori. È una bella giornata, ci sistemiamo sotto il salice. Che ne dici?»
Mi guarda, ha le lacrime agli occhi.
«Sinn.»
Spingo la sedia verso il corridoio.
«Si parte.»
«Ti ho portato una bibita al mirto, non è alcolica. Secondo me ti piacerà.»
«Mi piace il mirto… fuocooo,» risponde cercando di guidare la lingua nel modo giusto. La zia e io abbiamo deciso di regalarle l’assistenza di un logopedista, visto che quello di Villa Paradiso ha solo più cinque ore a disposizione ogni settimana da distribuire su tutti i degenti che ne hanno bisogno. Così la logopedista del Centro Aiuto per la Vita ha accettato la nostra proposta, un forfait finché Fiorina non verrà nuovamente a parlare. Dopo solo nove sedute Fiorina ha recuperato il trenta per cento; Anna, la logopedista è molto orgogliosa di lei, dice che s’impegna ed esegue i suoi esercizi con attenzione e volontà. Dopo la parola aggiusteremo anche il braccio e la gamba che non muove più, faremo tutto con calma.
«Fiorina, ti piace il mirto perché le tue origini sono sarde, vero? Non ti preoccupare non è forte…» le dico sistemandola al solito posto. Oggi non fa freddo, tuttavia è meglio coprirla non vorrei che si buscasse una bronchite.
«Io vengooo da Siamaggiore, Sinisss. Le canne, Deleddaaa, sole…»
Mi siedo sulla panca e le prendo la mano inerte, mi sento al sicuro con lei e anche i pensieri di Paolo e di tutto il resto sembrano svaniti.
«Il Sinis è un posto bellissimo, sai che i miei anni fa hanno comprato una casa proprio sullo stagno di Cabras… Abbiamo fatto qualche estate, era bella, aveva un grande giardino, una pianta di limone, il forno per il pane, una cucina all’aperto e il ricovero per le barche. Era di un pescatore, io l’adoravo. C’era sempre il sole, non dovevamo neppure uscire, anche se il mare era a due passi. Di sera mi sedevo sui gradini di pietra e ascoltavo il vento che faceva fischiare le canne…»
«Poiiii?» mi domanda Fiorina.
«Poi, poi Irma, la malattia, le sue fughe… tutto quello che già sei. Io con Livio non ci sono mai andata a Cabras, non faceva per lui. Lui non viveva senza aria condizionata, non si accontentava di una birra sui gradini di casa, odiava le zanzare, il vento che sollevava la sabbia, i turisti in bicicletta, i cani senza padrone…»
«Vai avantiiii.»
«Livio era uno da Costa Smeralda…»
Le massaggio la mano inerme. Mi sorride. È una bella signora, anche se oggi indossa una tuta non sua e ha i capelli spettinati.
«Sai che facciamo, un giorno ti porto dal parrucchiere. Ci andiamo insieme, io mi faccio un taglio corto e tu qualcosa di elegante.»
«Sììì, mii piace, oggi fuoci…»
«Potresti farti un riflessante turchino, che ne dici?»
«Sii, doomani, racconta di Livioo dopo… fuciii.»
Mi avvicino e le stacco un bacio sulla guancia, guardando che nessuno mi veda. Non è nella mia natura dimostrare affetto, sono una sostenitrice della teoria: le buone azioni si dimostrano con i fatti, ma quando sono con Fiorina mi sciolgo, me la vorrei sbaciucchiare tutto il giorno, forse soffro di carenza d’affetto, mi mancano i baci e gli abbracci, quelli che mia madre non mi ha mai dato.
«Ok, ti racconto l’ultima puntata del serial Livio e io, occhio al finale.»
«Sììì, incominciaa,» mi risponde. Oggi sembra inquieta, da quando ha riiniziato ad articolare le parole è tornata quella che era: una vecchia maestra severa, ma gentile, attenta ai congiuntivi e all’uso corretto dei verbi. Quando si arrabbia, però, le s’inceppano i vocaboli, come poco fa, e combina grandi pasticci verbali. In questo caso la logopedista ci ha consigliato di non chiedere di ripetere e passare alla locuzione successiva.
Inizio con il mio racconto, cercando di ricordare i lineamenti di Livio, le sue mani, il profilo, il naso leggermente deviato, la curva della fronte, l’attaccatura dei capelli.
«Livio era davanti lo specchio del bagno che si allacciava la cravatta, io osservavo le file di sandali ordinati nella cabina armadio alla ricerca di quello da abbinare al tubino d’autore. Si prospettava una serata lunga, forse fino al mattino successivo. Era giovedì. In genere a metà settimana si andava a cena con qualche coppia e poi a bere qualcosa in un posto cool. Ma i giovedì non erano solo serate fra amici, ma lunghissime nottate consumate fra locali, bottiglie di vino, musica assordante e confusione. Il giorno di Giove per me era un incubo, se avessi avuto la bacchetta magica, lo avrei cancellato dalla settimana e relegato a comparire come comparsa una sola volta il mese. Livio aveva deciso che la nostra vita sociale incominciava il giovedì sera e terminava la domenica notte con il bicchiere della staffa in un ristorante del centro. A nulla erano servite le mie rampogne sull’inutilità delle serate torinesi. La notte in cui spiattellai le mie argomentazioni lui alzò le spalle e rispose con la formula di rito abbreviato. Mi disse che ero un’asociale indolente, che non ero obbligata a uscire, se ero così stanca me ne potevo stare a casa a leggere un libro. Io come sempre incassai.»
Fiorina fa una smorfia, è evidente che è di parte. Sono sicura che se un giorno dovesse incontrare Livio lo picchierebbe con il bastone.
Le porgo un bicchiere di bibita al mirto.
«Vado avanti?»
«Avantiii,» mi sembra che non se ne voglia perdere una battuta della fantastica storia Livio e io. Prendo fiato, butto giù un goccio di mirto e ricomincio.
«Così negli anni, oltre a tutte le abitudini strampalate che aveva imposto al nostro quotidiano, aveva anche aggiunto nella lista degli obblighi famigliari le pubbliche relazioni notturne, incrementando notevolmente il mio carico di stress. Se avessi tracciato un grafico delle frustrazioni negli ultimi tempi avrei notato che i picchi tendevano verso l’alto in direzione infinito. Ma forse, non ero così conscia della mia insoddisfazione. Testarda e cieca continuavo a pensare che qualcosa presto sarebbe cambiato, riportandoci a una vita normale. In cuor mio sper...