Capitolo dieci
Il presente
La domenica mattina mi sveglio nel letto con i capelli che puzzano di sudore e sigarette. Con un gemito, rotolo su me stessa e vomito nel cestino. Il cestino? Non ricordavo di averlo messo qui. Poi dal bagno sento il rumore dello sciacquone.
Mio Dio… Caleb!
Crollo sul cuscino e mi copro gli occhi con la mano.
«Ehilà , bellezza.» Caleb entra con un vassoio, illuminando l’intera stanza con il suo sorriso. Gemo di nuovo e nascondo la faccia in un cuscino. La notte scorsa: alcol, il tradimento di un amico, una telefonata imbarazzante.
«Mi spiace tantissimo di averti chiamato» gracchio. «Non so cosa avessi in testa.»
«Non scusarti» risponde lui posando il vassoio sul comodino. «Sono onorato di essere stato la tua prima scelta.» Prende un bicchiere d’acqua e una pastiglietta bianca e me li mette entrambi in mano.
Abbasso la testa piena di vergogna e faccio colazione rosicchiandomi l’unghia del pollice.
«Ti ho portato anche dei toast… se ti vanno.»
Lancio un’occhiata al pane e al burro e mi si torce lo stomaco. Scuoto la testa e Caleb porta via rapido il vassoio. Il mio eroe.
«Ho chiamato il motel, questa mattina» dice lui senza guardarmi.
Mi raddrizzo di colpo sul letto, con un capogiro.
«Il tuo amico se n’è andato ieri notte. A quanto pare aveva fretta di lasciare la città .» Caleb si appoggia al muro e mi guarda da sotto le sopracciglia.
Se non avessi così tanta nausea sorriderei per il semplice fatto di averlo nella mia camera da letto.
Giocherello con il piumino. «Che amico, eh?»
«Non è stata colpa tua. Bisognerebbe castrarli, gli uomini come lui.» Annuisco e tiro su con il naso in segno d’assenso. «Ma se mai dovesse avvicinarsi di nuovo a te, Olivia, lo ammazzo.»
Mi piace sentirglielo dire. Mi piace un sacco.
Quando esco dalla doccia, dal piccolo televisore proviene la sigla di Friends. In accappatoio e ciabatte mi trascino in salotto e rimango in piedi come se non sapessi dove sedermi. Caleb si sposta più in là per farmi spazio sul divano e io mi accoccolo nell’angolo. Decido di comportarmi con una parvenza di sincerità .
«Tu mi piaci, Caleb» gli dico d’impulso, poi mi nascondo la faccia tra le mani, imbarazzata. «Sembra la confessione di una bambina delle elementari.»
Lui distoglie lo sguardo dalla televisione. Quei suoi occhi dorati sorridono.
«Vuoi fare coppia fissa?»
Io gli tiro un pugno sul braccio.
«Non sto scherzando. È una cosa seria. Parlare di noi non è una buona idea. Tu non sai chi sei e io so perfettamente chi sono, motivo per cui tu dovresti probabilmente fuggire veloce come il vento.»
«Non vuoi che lo faccia davvero.» Adesso è serio, o quantomeno non sta più sorridendo.
«No. Ma sarebbe la cosa migliore.» Mi sto torcendo le mani nelle maniche dell’accappatoio.
Sono nervosa e ho la nausea. In più, il modo in cui mi guarda non sta esattamente rendendo le cose più facili.
«Sta diventando un po’ un tira e molla, sai» dice Caleb, posandosi le mani sulle ginocchia, come se si preparasse ad alzarsi in piedi.
«Lo so» dico in fretta. «Penso di non essere il tipo di ragazza che vorresti come amica.»
«Io non voglio averti solo come amica.»
Per un attimo la vista mi si annebbia, poi torna a fuoco, e il mio malvagio cuore nero si gonfia come un palloncino. Sono troppo confusa. Non dovrei fargli una cosa del genere, ma voglio farlo. Mi massaggio le tempie. È tutto troppo complicato, troppo ingiusto. Dopo tre lunghi anni ho quello che desidero, ma non è reale. Caleb non sa chi sono, e se lo sapesse non sarebbe seduto qui nel mio salotto.
Espiro dal naso. La Buona Olivia mi sta implorando di rompere con lui una volta per tutte. Lei ricorda quel cazzo di azzurro-aeroporto e la vernice sul soffitto… e sa quello che succede quando quei ricordi travolgono la tua vita vuota e ti rammentano quanto è gelida la realtà . Ci voltiamo di nuovo verso la TV, a disagio. Caleb se ne va un paio d’ore dopo, e quando esce mi strappa ogni speranza dal cuore.
«Chiudi bene tutte le porte e chiamami se hai bisogno, okay?» Io annuisco, mordendomi il labbro inferiore. Non voglio restare da sola, ma sono troppo imbarazzata per chiedergli di fermarsi ancora.
«Ci vediamo domani.» Alzo lo sguardo sul suo bellissimo volto. Vorrei davvero che rimanesse.
Lui sembra esitare e per un attimo penso che forse i miei desideri si realizzeranno.
«Che cosa c’è che non va?» sussurro.
Per favore, fa’ che non gli torni la memoria. Per favore, fa’ che gli torni la memoria.
«Niente… è solo che mi sembra di aver già vissuto questa scena con te… un déjà vu, hai presente?»
Lo so, perché è così che ci salutavamo quando stavamo insieme. Non rimaneva mai la notte: non glielo permettevo.
«Be’, ciao» mi saluta.
«Ciao.»
Mi preparo una tazza di tè e mi accomodo sul sofà . La prima volta ho perso Caleb perché ero marcia dentro: le mie bugie avevano cominciato a svelarsi una dopo l’altra e lo avevano schiacciato con il loro peso. Non gli era rimasto altro che guardarmi negli occhi e dirmi addio per sempre. Ricordo di essermi sentita stordita mentre lo guardavo andarsene e la confusione era durata per tutto il giorno, finché non mi ero resa conto che non sarebbe tornato. Mai. E in quel momento le mura della mia diga emotiva erano crollate.
Per sei mesi ero stata sopraffatta da un dolore insopportabile, che mi assediava ogni giorno, come un brutto mal di gola. Poi la sofferenza si era cronicizzata in un senso di assenza che non mi abbandonava mai.
Caleb se n’è andato, Caleb se n’è andato, Caleb se n’è andato…
Perfino ora che è tornato nella mia vita sento ancora la sua assenza. Sono consapevole di quanto questa situazione sia temporanea, di come il tempo che vivo con lui sia tempo preso in prestito, e so che quella feroce sofferenza ricomincerà . È solo questione di tempo prima che Caleb scopra la verità sul nostro passato e sulla mia grossolana catena di bugie.
Decido di cogliere il momento. Se ho poco tempo, tanto vale stare con lui il più possibile. Prendo il telefono e lo chiamo a casa. Caleb non risponde, così cinguetto un messaggio alla segreteria, chiedendogli di richiamarmi, cosa che lui fa circa dieci minuti dopo.
«Olivia? Stai bene?»
«Sto bene, benissimo.» Sventolo la mano per scacciare la sua preoccupazione come se potesse vedermi. «Vengo da te» gli dico in fretta. «Preferirei non rimanere da sola, e tu mi avevi comunque promesso una cena.»
Trattengo il fiato, in attesa.
C’è una pausa, durante la quale mi mordo l’interno delle guance e chiudo forte gli occhi. Forse ha un impegno con Leah.
«Fantastico» dice alla fine. «Ti piacciono le bistecche?»
«Adoro la carne.» Lui ride e io sussulto. «Dimmi solo come arrivare.»
Mi annoto rapidamente il percorso e metto da parte la penna. Conosco l’edificio che mi sta descrivendo: attraversando il canale in macchina per raggiungere la fila di caffetterie e boutique eleganti che costellano la spiaggia non puoi fare a meno di guardarlo. È un palazzo di almeno trenta piani, scintillante come il paese di Oz.
Quando arrivo porgo le chiavi del Maggiolino al parcheggiatore ed entro nell’atrio, rabbrividendo per l’aria condizionata.
Mi accoglie il portiere. Il suo sguardo parte dai miei piedi e risale lentamente fino al viso. Ho visto questo tipo di occhiata almeno un milione di volte dagli amici di Caleb: ero tra loro, ma non ero una di loro. Erano abituati a contemplare Louboutin e Gucci, e quando arrivavo io con i miei abiti da discount i loro sguardi si facevano vacui e annoiati. La maggior parte dei loro discorsi iniziava con un «Quand’ero in vacanza in Italia, l’anno scorso…» oppure «La nuova barca a vela di papà …».
Io ascoltavo in silenzio, dato che non avevo mai lasciato la Florida… soprattutto non a bordo della barca giocattolo di quel disgraziato di mio padre. Il mio paparino era il tipo di persona che scaglia le bottiglie di birra vuote contro gli uomini più fortunati di lui.
Quando me ne lamentavo con Caleb, lui mi insegnava l’arte di comportarsi da snob.
«Guardali come se conoscessi i loro segreti e li trovassi noiosi.»
La prima volta che guardai dall’alto in basso un’ereditiera lei mi chiese dove avessi comprato le mie scarpe.
«Al discount» risposi. «È buffo che le nostre scarpe siano identiche anche se la somma che hai speso tu potrebbe nutrire un piccolo Stato per un mese, no?»
A Caleb era andato di traverso il cocktail di gamberetti e l’ereditiera non mi aveva più rivolto la parola. Io avevo provato una perversa sensazione di potere. Non occorre essere ricchi e importanti per intimidire qualcuno: basta sputare sentenze.
Non guardo il portiere negli occhi: mi limito a sbattere rapidamente le palpebre nella sua direzione, come se fossi seccata. Lui sorride.
«È venuta a trovare qualcuno, signorina?» È venuta a tvovave qualcuno, signovina?
«Caleb Drake» rispondo. «Può dirgli che è arrivata Olivia?» Proprio allora sento aprirsi la po...