Capitolo 1
Abbi
Basta una cosa soltanto.
Un pensiero. Un secondo. Un impulso. Una carezza. Tante piccole cose che, una dopo l’altra, un po’ alla volta, si accumulano e si trasformano in una più grande. Una sola cosa grande, sempre la stessa. Sufficiente a cambiarti la vita.
Irreparabilmente. Inspiegabilmente. Irreversibilmente.
Sono passati due anni da quando, per la prima volta, tante piccole cose si sono accumulate e mi sono innamorata di Pearce Stevens. Sono passati due anni da quando ho sentito il dolce sfarfallio della prima cotta, seguito dal lieve sbandamento dell’amore. Due anni da quando tutto è crollato e sono precipitata nell’abisso oscuro della depressione.
Se allora avessi saputo quello che so adesso, avrei fatto scelte diverse. Avrei liquidato quei pensieri come le fantasticherie di un cuore adolescente, avrei fatto passare il tempo, avrei combattuto gli impulsi e mi sarei difesa dalle carezze. Se avessi saputo cosa sarebbe successo nei mesi successivi e quale direzione avrebbe preso la mia vita, sarei saltata sul primo aereo per i Caraibi.
Ma non sapevo niente. Come avrei potuto? Non potevo immaginare che quelle piccole cose sarebbero diventate una sola, enorme, e non avrei mai pensato che sarebbero tornate.
Poi è arrivata l’oscurità . Un istante di buio, un impulso, una carezza mortale. Il momento in cui ho visto per la prima volta una goccia di sangue colare dalla caviglia dopo essermi tagliata accidentalmente, la lama nuova del rasoio tra le dita, ha cambiato la mia vita per sempre, proprio come quando mi sono innamorata di Pearce. È un momento che non potrò mai cambiare. Non posso fingere che non sia avvenuto. Come Pearce, è una parte di me. Una parte del mio passato.
Sono questi i due episodi fondamentali della mia vita. Se mi chiedete dove ho sbagliato, vi risponderò: Pearce Stevens e il rasoio. Ma non riuscirò a spiegarvi il perché, nemmeno se mi implorate.
Non riuscirò a dirvi perché mi sono innamorata del fratello della mia migliore amica, o perché non sono scappata prima che fosse troppo tardi. Non riuscirò mai a spiegare perché non mi sono tolta le lenti rosa con cui guardavo la realtà e non l’ho visto per ciò che era – ed è – davvero.
E non riuscirò mai a spiegare che cosa mi ha spinto a farmi il primo taglio sulla pelle. In fin dei conti, è impossibile esprimere ciò che non si può comprendere, e a volte è meglio non capire.
Sono china sulla vasca e osservo l’acqua fosca che scende giù dai miei capelli appena tinti. Scorre sul fondo, scivola nello scarico e scompare con la stessa facilità con cui scompariva il mio sangue tempo fa. Resto immobile finché l’acqua non torna limpida, mi faccio lo shampoo e risciacquo, poi avvolgo i capelli in un asciugamano scuro.
Ho convinto papà ad accompagnarmi al negozio a prendere la tinta, anche se la mamma era contraria. Lei non capisce che ho bisogno di staccarmi dalla persona che ero l’anno scorso. Forse nessuno può capirlo, nemmeno io. So soltanto che non sono più la stessa di prima. Le mie due metà si sono separate e sto andando avanti solo con la nuova me. O almeno così mi ha detto la dottoressa Hausen. Ha anche detto che è un passo nella direzione giusta, che è positivo.
E io ho bisogno di positività . Per questo ho ridipinto di azzurro e viola la mia camera, che da bambina era tutta rosa. È positivo. È diverso. È nuovo.
Proprio come me. Sono nuova e radiosa.
Sono seduta sul piumone e mi guardo nello specchio. Gli occhi sono più luminosi e il viso non è più così scavato. Mi sfioro una guancia con le punte delle dita e faccio un respiro profondo. Una ciocca sfugge da sotto l’asciugamano, il colore, quasi nero, risalta sulla mia pelle chiara.
Inclino la testa in avanti, passo l’asciugamano, e tiro indietro i capelli. Prendo la spazzola appoggiata sul letto e mi pettino. Mi concentro solo sul movimento ripetitivo, accendo il phon e non penso a niente.
Non penso che la lavagnetta di sughero sopra la scrivania, adesso vuota, una volta era piena di foto di me e Maddie. Non penso che ho buttato via tutti i miei diari di adolescente, che almeno tre quarti del mio guardaroba non ci sono più. Non penso a quanto del mio passato ho gettato nella spazzatura. Da quanto del mio passato sto scappando.
Ma quando devi affrontare la stessa cosa tutti i giorni puoi dire davvero di scappare?
Non penso. Se sai dove vuoi stare, non stai scappando. Hai deciso coscientemente di cambiare.
Poso il phon e osservo il mio riflesso, spazzolandomi i capelli un’ultima volta. Sorrido. Non assomiglio più alla vecchia Abbi, e per un secondo nel mio sguardo vedo una scintilla. È rapidissima, lo so, ma meglio di niente.
La porta della stanza si apre appena e la mamma infila dentro la testa. Avverto la sua sorpresa ancora prima di vederla sul suo viso. Tiene una mano davanti alla bocca, come se così potesse dare l’idea di essere indifferente. Come se pensasse di poter nascondere gli occhi spalancati, lo sguardo inorridito.
«Oh… Perché?»
Giocherello nervosamente con le ciocche. «Perché il mio aspetto posso cambiarlo» sussurro. «Dentro no, almeno non è così facile, e allora ho deciso di cambiare fuori. Ne avevo bisogno, mamma.»
Tra noi scende il silenzio; poi lei dice: «Non capisco».
«Non devi capire. Devi semplicemente accettarlo.»
«Suppongo di non poter fare molto.»
Scuoto di nuovo la testa. Nascondo le mani nelle maniche, accarezzo le cicatrici con i polpastrelli. Le cicatrici che ho tenuto nascoste al resto del mondo. «È comunque meglio dell’alternativa. Qualunque cosa è meglio.»
La mamma fa un sospiro, e io premo il pollice sul polso per sentire il battito, come faccio sempre quando capisco che i ricordi stanno arrivando. Il sangue che mi scorre nelle vene mi fa capire che sono ancora viva, che il mio cuore pulsa ancora, che i miei polmoni ancora respirano. Che esisto.
«Sì. È molto meglio.» La mamma annuisce, attraversa la stanza e viene a sedersi accanto a me. I nostri corpi riflessi nello specchio, uno accanto all’altro, sono diversi solo per l’età . E per il colore dei capelli. I suoi hanno la stessa sfumatura di biondo che avevano i miei fino a due ore fa. Mi prende la mano e incrocia il mio sguardo. «C’è qualcos’altro che senti di dover fare?»
«Tipo cosa?»
«Non lo so, Abbi. Pensavo che forse, visto che vuoi cambiare, potremmo andare dal parrucchiere insieme. Ne avrei bisogno anch’io. Magari potremmo farci anche la manicure.»
Da come mi stringe la mano, capisco quanto sia difficile per lei propormi una cosa del genere. Quanto sia difficile accettare che la sua Abbi questa volta non tornerà . Che la sua Abbi è perduta per sempre.
«Sarebbe bello» dico, sincera. «Forse è proprio quello che mi serve. Per spazzare via tutto.»
«Non c’è bisogno di spazzare via niente. Dobbiamo solo creare ricordi nuovi con cui sostituire i vecchi» replica lei, alzandosi in piedi. «Domani chiamo il parrucchiere, allora. Ah, ha telefonato Bianca. Dice che puoi cominciare domani con la nuova classe. Alcune delle sue ragazze sono entrate alla Juilliard e ha dei nuovi iscritti. Pensa che per te sarebbe il momento perfetto. Vuole che la richiami, le piacerebbe parlarti. Posso dirle che ci sei?»
La danza. La Juilliard. Il mio sogno. Ciò che mi spinge ad andare avanti e che mi ha salvato quando pensavo che non ci fosse più niente da salvare. «Sì, mamma. Dille che ci sono.»
«Okay.» Esce dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle, e mi lascia al mio silenzio.
Il silenzio. Il mio migliore amico e il mio peggior nemico.
Mi accarezzo il polso delicatamente e prendo l’iPod. Lo schermo si illumina, premo il tasto Shuffle e partono gli Snow Patrol.
Raggomitolata sul letto, mi ripeto piano in testa Juilliard, mentre il sonno mi porta via con sé.
Stringo la cinghia del borsone al petto e spingo esitante la porta della scuola di danza di Bianca. Ho lo stomaco sottosopra per l’ansia, sono tesa, ma so che qui posso sentirmi al sicuro.
Bianca è una delle poche persone che conoscono e comprendono davvero il mio bisogno di ballare. L’ho conosciuta quando la dottoressa Hausen mi ha suggerito di usare la danza come terapia. Abbiamo cominciato con una lezione privata alla settimana, e presto siamo passate a tre, sia alla clinica che qui nella sua scuola. Mi ha aiutato a lasciare quel posto. Mi ha ricordato la sensazione di libertà di quando indossi il body e le scarpette da ballo. E ora che Maddie è lontana, è la persona più vicina a un’amica.
La sala è un luogo familiare: gli specchi alle pareti, la sbarra, il pianoforte in un angolo. Dexter, lo zio disabile di Bianca e pianista della scuola, mi saluta con un cenno. Gli sorrido, e un po’ mi tranquillizzo. Solo un po’, perché so che presto la stanza si riempirà di sconosciuti.
Sento due mani ossute sulle spalle. «Si vede lontano un chilometro che sei agitata. Respira e rilassati, Abbi, le scarpette non danzeranno per te.»
«Ho paura» sussurro, mentre si apre la porta.
«Lo so.» Bianca mi abbraccia e inclina la testa per guardarmi dritto negli occhi. «Tu sei qui per ballare, ricordatelo. Sei forte, e sarai bravissima.»
«Ballare…» Sospiro e lancio un’occhiata alla folla sempre più numerosa vicina alle sedie.
«E tu balli in modo meraviglioso. Qui sei al sicuro.»
Lo so. Qui niente e nessuno può farmi del male, soprattutto quando la mia mano tocca la sbarra e parte la musica. Ovunque io sia mentre ballo… mi sento protetta.
Mi avvicino all’angolo in punta di piedi e mi tolgo la tuta, sotto sono già pronta. Infilo le scarpette e accarezzo i nastri di raso. Morbidi. Sicuri.
Tengo gli occhi bassi nella vana speranza che nessuno mi rivolga la parola. Anzi, che nessuno si accorga di me. Come ha detto Bianca, sono qui per ballare, non per farmi degli amici o instaurare nuovi rapporti. Solo per ballare.
Le scarpette si riflettono nello specchio. Stendo le dita e stringo la sbarra di metallo freddo, pronta a cominciare. Ora mi sento leggera e riesco a cancellare il costante senso di soffocamento della depressione. È soltanto un secondo, ma è sufficiente. In quell’attimo sento come potrei essere, e per la prima volta da quando sono entrata qui, dieci minuti fa, riesco a fare un respiro vero.
Bianca batte le mani una volta e il chiacchiericcio si interrompe all’istante. «Non ho intenzione di presentarmi, né di spiegare che cosa si fa nella mia scuola. Se non mi conoscete, o non sapete perché siete qui, allora vi trovate nel posto sbagliato. Vi dirò solo che dovete dimenticare tutto ciò che avete imparato sulla danza finora. Quando vi infilate le scarpette qui, vi abbandonate all’arte del balletto, non alla tecnica. La danza classica non è questione di ritmo, di saper eseguire perfettamente un passo o di prendere i voti migliori. La danza classica è raccontare una storia. Dovete prendere tutti i sentimenti e le emozioni che avete dentro ed esprimerli attraverso i movimenti precisi del vostro corpo. La danza classica nasce da ciò che siamo, a prescindere da ciò che significa per voi. Se la pensate diversamente, potete anche andare.» Siamo tutti in fila alla sbarra; Bianca ci scruta con attenzione, come se con una semplice occhiata potesse capire se siamo d’accordo con lei oppure no.
«L’unica cosa che dovete sapere su come funziona la mia classe è che non smettete mai di essere ballerini e ballerine. Mi aspetto che vi facciate il culo. Mi aspetto di vedervi qui tre sere alla settimana per due ore, e mi aspetto che lavoriate a casa. Con sei ore di lezione non raggiungerete mai il livello richiesto alla Juilliard: io passo più tempo a sistemarmi i capelli. Non mi interessa dove ballate – sotto la doccia, a Central Park, anche in mezzo alla strada, se volete – ma dovete allenarvi tutti i giorni. E guardate che se non lo farete me ne accorgerò. Se anche per un solo giorno non ballerete lo capirò, sarà il vostro corpo a dirmelo. Alcuni di voi li conosco già e so che sono nella scuola giusta, gli altri devono dimostrarmelo.» Si gira, picchietta le dita sul pianoforte, e suo zio comincia a suonare.
«E se pensiamo di essere nella scuola giusta e invece non siamo all’altezza? Se ne accorgerà ?» chiede uno.
Bianca si volta e fa una smorfia. «Certo.»
«E cosa succede?»
«Succede che ve ne dovete andare, perché vuol dire che in questa città c’è qualcun altro che si merita più di voi di stare qui. Io insegno solo ai migliori, mettetevelo in testa, e nessuno dei miei allievi è mai stato scartato alla Juilliard. C’è un motivo se tengo solo due corsi: ci siete voi, e una classe di bambine di sette anni, la maggior parte delle quali studia con me da quando ne aveva uno. Se ce la possono fare loro, mi aspetto che ce la facciate anche voi.»
«Ha mai chiesto a qualcuno di andare via?»
«Tutte le volte che inizio un corso» replica Bianca bruscamente. «Adesso riscaldati, se non vuoi essere il primo.»
Cerco di trattenere un sorriso e restare impassibile, e comincio a riscaldarmi. Ho sentito lo stesso identico discorso quando Bianca è entrata in palestra alla clinica; ricordo di aver fatto le stesse domande e di aver ottenuto le stesse risposte. È ciò che me l’ha fatta amare sin dal primo momento: a differenza di quasi tutte le persone che conoscono il mio passato, non mi considerava in modo diverso. Per lei ero – sono – una ragazza con un sogno, e chi se ne importa del resto.
La porta principale si apre mentre sto per eseguire un demi-plié. Ho la sensazione di essere osservata, la avverto sulla pelle, e mi pizzica la nuca, la colonna vertebrale. Non vorrei, ma alla fine alzo lo sguardo.
Bianca si avvicina a un ragazzo; la sua postura perfetta e i passi precisi mi dicono subito che è un ballerino. Un ballerino ritardatario. Ha i capelli corti e spettinati, e sotto le note del piano sento che parla con un accento inglese. Lo squadro: ha le spalle larghe e le braccia ben definite. Braccia da ballerino, forti ma gentili. Il tocco delle sue mani grandi è di sicuro deciso ma delicato. La struttura fisica è simile a quella di un calciatore, ma è troppo carino per esserlo. Merda. Davvero ho appena detto che è carino? Che cosa mi prende? Non è proprio il caso che mi metta a spogliare con gli occhi il Ragazzo Inglese Sexy.
Lui annuisce e si gira verso di me. O forse verso la classe, ma i suoi occhi cadono comunque su di me. Incrociamo lo sguardo per un istante fugace, e mi sento vacillare. Anche se è dall’altra parte della sala, mi accorgo che ha due occhi verdissimi. È indiscutibile che mi stia guardando, e che sembri interessato.
E anche l’ansia che mi sale nel petto è indiscutibile… E il vuoto allo stomaco quando ci scambiamo di nuovo un’occhiata. Deglutisco e distolgo lo sguardo, ripetendomi che quell’interesse che credo di aver visto è frutto della mia immaginazione, così come ciò che mi ha spinto a guardarlo.
Non sono qui per lanciare occhiate al Ragazzo Inglese Sexy. Sono q...