Cass
Driiin.
Che tu sia benedetto, timer! E anche la seconda sessione di addominali è andata.
Fortuna che per oggi ho finito. Mi rimetto in piedi e… accidenti, non mi sento più i muscoli. Qui ci vuole un attimo di relax. Bevo un lungo sorso dalla bottiglia, chiudo gli occhi e mi godo la sensazione dell’acqua fresca che scende nella gola. Socchiudo gli occhi e mi vedo riflessa nello specchio di fianco al ring, viso arrossato e fronte sudata…
Mi siedo e controllo l’ora: ho tutto il tempo di tornare a casa e mettermi a studiare un altro po’.
«Harris, che ci fai lì a poltrire? Il sacco è laggiù che ti aspetta.»
Mark non mi dà un attimo di tregua.
È il proprietario della palestra, ma soprattutto per me è come un secondo padre. Ho passato tutti i pomeriggi della mia infanzia qui dentro, da che mi ricordo. Ai miei genitori faceva comodo avere un posto dove lasciarmi mentre si concentravano sulle loro carriere. Un posto sicuro – Mark è un caro amico di famiglia – dove potessi anche respirare un sano spirito agonistico. Pratico la boxe da quando avevo dieci anni.
La prima volta che varcai la porta della palestra stringevo la mano della mamma fortissimo, e mi ricordo che sorrisi vedendo tutti quegli uomini saltellare e dare pugni, mi sembrava un movimento davvero ridicolo… Come se si trovassero su un pavimento incandescente e non riuscissero ad appoggiare i piedi al suolo. In fondo alla sala c’era un omone enorme, sudatissimo e pieno di tatuaggi su tutto il corpo, persino sulla testa completamente calva; sdraiato su una panca alzava dei pesi immensi e lanciava strane urla struggenti ogni volta che stendeva le braccia in alto, allontanandoli dal petto. Avevo pensato che nemmeno Braccio di Ferro e Bruto insieme avrebbero potuto avere la meglio su di lui.
Quel giorno Mark ci venne incontro sorridendo e abbracciò forte mio papà dandogli delle pacche sulla schiena. Poi prese la mano destra di mia mamma e accennò un bacio sfuggente sul dorso.
E infine guardò me.
«Cass, come sei cresciuta! In un anno hai guadagnato parecchi centimetri!»
Mi squadrò da capo a piedi, osservando con attenzione quella bimba con i capelli neri a caschetto – indossavo una gonnellina che scopriva due gambine ossute, lunghe lunghe – e inarcò un sopracciglio.
«Certo, sei proprio gracilina…»
«Ma io tiro pugni forti!» esclamai.
«Sì, tesoro, ma ci vorrà qualche annetto prima che tu possa darli a qualcuno» mi disse sorridendo.
Mark ha creduto in me, mi ha insegnato molto più che tecniche e regole sportive, proteggendomi da chiunque provasse ad avvicinarsi con strane idee in testa. Lui c’era ogni volta che sentivo gli occhi dei ragazzi su di me e un commento a mezza bocca sul fatto che fossi “un bel bocconcino”. Durante ogni allenamento o incontro, ho sempre avvertito il suo sguardo paterno e benevolo.
Ormai ha cinquant’anni, anche se sembra decisamente più giovane. Ha i capelli ricci, castani con qualche filo bianco, e una barba ben curata. Le poche donne che frequentano la palestra sono tutte invaghite di lui, del modo elegante in cui le tratta, ma allo stesso tempo severo e deciso.
Ma lui le tiene sempre al di là di quel sottile confine che potrebbe portarle a sperare in qualcosa di più… Non si è mai sposato, e d’altronde non avrebbe neppure il tempo di farlo, dato che è sempre chiuso qui dentro.
«Sto prendendo fiato, coach» sbuffo.
«Domani sali sul ring, che ne pensi?»
«Non so se sono pronta. Sono stata tre mesi senza allenarmi.»
«Be’, domani lo scopriremo.» Mi dà una pacca sulla spalla e sparisce, lasciandomi da sola con i miei pensieri. Con i miei timori.
Ci conosciamo da talmente tanto tempo che spesso le parole sono un optional per noi, ci diciamo tutto con uno sguardo. Con un gesto. La nostra è vera complicità.
Sospiro e mi dirigo verso gli spogliatoi, pronta a buttarmi sotto una doccia ghiacciata. Mi preparo pian piano a ritornare alla mia vita fuori di qui. Una vita fatta di amiche, compiti, famiglia… Ecco, famiglia: qualcosa di talmente assente da risultare in qualche modo ingombrante.
Passeggiare per le vie di Sacramento dopo l’allenamento mi regala uno sprazzo di luce, quella che il cielo di questo periodo, sempre un po’ coperto, tende a nascondere.
È tre ore dopo, in una sera fredda in cui le insegne luminose al neon traballano per colpa del vento, che tutto ha inizio.
Sono china sulla scrivania a sottolineare con evidenziatori di colori diversi il libro di storia. Sfilo la matita da dietro l’orecchio e provo a concentrarmi. Devo riassumere questo stupido paragrafo, ma non c’è verso. Basta un niente perché la mia attenzione venga catturata da qualsiasi altra cosa. Tutto intorno a me complotta per distrarmi… il poster di Johnny Depp ai tempi del primo capitolo dei Pirati dei Caraibi, e quelli di Leonardo DiCaprio che tappezzano la parete sopra il letto. Che fatica, per convincere mia madre a lasciarmeli appendere! Sembrava un’impresa impossibile, ma alla fine l’avevo spuntata.
Il cellulare, appoggiato sopra il diario, inizia a vibrare. Sullo schermo compare il nome “April”, sopra a una foto scattata in un’estate ormai lontana.
«Pronto?» rispondo.
«Cass! Non trovo Luke… Penso… mi abbia lasciata qui… sola.»
«April, non sento niente, ricomincia da capo. Ma dove sei? Non dirmi che sei ubriaca, ti prego.»
«… In un locale vicino alla tua palestra, non lo so… Cass, ho paura! Ti prego, vienimi a prendere!»
«Va bene, va bene. Ho capito quale. Dammi dieci minuti. Non muoverti da lì e soprattutto non fare cazzate. Arrivo.»
Poso il cellulare sulla scrivania e sospiro. Storia dovrà aspettare.
L’ultimo anno di high school è il più faticoso, devo impegnarmi nello studio più di quanto abbia mai fatto. Vorrà dire che recupererò domani.
Infilo velocemente i primi pantaloni che trovo, quelli di una tuta che di solito uso quando vado a correre, e sopra metto un top bianco.
Prima di uscire faccio una sosta veloce davanti allo specchio per mettermi un po’ di mascara. Non vado pazza per il trucco: non ho né la pazienza né l’abilità necessarie per dedicarmi all’arte del make-up, ma provo comunque a darmi un tono, un tocco di eleganza.
Chissà, magari un giorno avrò un ragazzo che mi dirà quanto sono bella… allora forse varrà la pena passare ore in bagno a prepararmi per un appuntamento. Per il momento ne faccio volentieri a meno.
Non ho mai avuto un fidanzato. Uno vero, almeno. Certo, mi sono presa tante cotte, come tutte le ragazze del mondo, però io sto aspettando il vero amore, qualcuno che mi farà battere forte il cuore, come nei libri che leggevo da bambina; principi che attraversano regni e uccidono draghi pur di salvare la loro amata, tipi che all’apparenza sembrano duri e senza cuore ma che alla fine si rivelano per ciò che sono davvero: dolci e appassionati. Ma tutto ciò esiste anche nella vita reale? Ha davvero senso aspettare?
April mi prende sempre in giro per questo, dice che mi devo svegliare o quando lei avrà cinque figli e un marito al volante di una Porsche Cabriolet che la scarrozza ovunque io sarò ancora zitella e depressa.
Le Polaroid appiccicate ai bordi dello specchio non sembrano intenzionate a dare una risposta alle mie domande; in compenso mi ricordano i momenti più belli dell’estate, che ormai è un ricordo lontano.
Chissà che direbbe papà, se sapesse che sto per andare in un locale a quest’ora! Mi guardo un’ultima volta allo specchio e accenno una smorfia. Se papà fosse qui, mi avrebbe messo in punizione anche solo per aver chiesto di uscire.
Mi domando in quale parte del mondo si trovi. Di sicuro è in Europa… Spagna? Francia? Germania? Forse Italia. Lavora talmente tanto che a volte mi chiedo se ricordi ancora in che Paese siano la sua casa e la sua famiglia.
April mi manda un messaggio. Dice che è ancora viva, ma che è meglio se mi sbrigo.
Sorrido e prendo la giacca. Non perde mai il senso dell’umorismo, neanche quando perde tutto il suo controllo.
Infilo la borsa a tracolla e mi assicuro che contenga l’essenziale: portafoglio e chiavi di casa.
Mi affaccio nella stanza di mia madre, sento il suo respiro, decisamente più lento rispetto a quando corre da una parte all’altra della casa. Sta dormendo.
Ecco che esco nella notte fredda, un brivido mi percorre la schiena.
Aiden
«Un gin tonic, grazie» dico a voce alta alla cameriera che è arrivata al tavolo a prendere le ordinazioni.
La musica è assordante, il locale troppo affollato e il tasso alcolico dei presenti elevato.
Una serata come le altre, insomma.
Una bionda che ci prova con me da quando ho messo piede nel locale continua a toccarmi i tatuaggi sul braccio mentre sbatte le ciglia lunghe, palesemente finte, che le incorniciano gli occhi.
Vorrei dirle di smetterla di palpeggiare quei cazzo di tatuaggi, che tanto stanotte andrò comunque a letto con lei. Ma non si fa, devo essere carino, devo stare al gioco. Recitare la mia parte. Non avrei certo problemi a trovare altre ragazze: mi hanno sempre detto che con il mio sorriso furbo e la mia aria da ragazzino strafottente potrei avere tutte le donne che voglio. Ed è così. È sempre stato così.
«Allora, ti stavo dicendo che…» Appena la cameriera se ne va, Lucy riattacca a parlare di non so cosa. Ho smesso di ascoltarla secoli fa e non sono nemmeno sicuro che si chiami così. Forse il suo nome è Lily? Non ce la posso fare.
«Senti, scusa, vado fuori a fumare.» Va bene essere carini, ma questa tizia richiede una pazienza esagerata. E poi la conversazione non è mai stata il mio forte.
L’aria fresca mi sferza il v...