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Annabelle – Due mesi prima
«Devi tornare a casa.»
«Non se ne parla.»
«Fabio è venuto qui a cercarti e credo che anche la tua matrigna sia preoccupata.»
«Non me ne importa niente!» esclamai esasperata dall’ennesimo tentativo della mia amica di farmi cambiare idea.
Avrei dovuto seguire il mio istinto e ignorare la sua telefonata, anzi, avrei dovuto evitare di darle il mio nuovo numero, così mi sarei risparmiata simili rotture: era quasi un’ora che discutevamo al telefono!
«Che cosa ti costa andare a trovarli?»
«Mi costa parecchio e tu dovresti saperlo, Luna» risposi arrabbiata. «Perché fai finta di nulla?»
«Non faccio finta di nulla, solo che è trascorso un sacco di tempo da quando ti sei trasferita. Anche se i vostri rapporti sono sempre stati difficili…»
«Difficili?» la interruppi. «Io direi disastrosi, ed era ora che ci dessi un taglio netto.»
«Non puoi comportarti così, le spetta un po’ di riconoscenza.»
Alzai gli occhi al cielo e mi tappai la bocca, perché altrimenti ne sarebbe uscita una fila interminabile di parolacce.
Continuai a marciare nella mia stanza, andando dalla porta all’armadio e viceversa, con la voglia di spaccare qualcosa o di urlare fino a farmi bruciare le corde vocali.
«La riconoscenza che le spettava l’ho pagata cara. Perché mi ha adottata non significa che devo continuare a essere usata come un pungiball.»
«Non intendevo questo.»
«Per quanto mi riguarda possono andare tutti a quel paese.»
«Annabelle…»
«Non chiamarmi più se hai ancora intenzione di tirare fuori questa storia.»
«Credevo che fossimo amiche» affermò delusa.
«Lo credevo anch’io.»
Riattaccai e strinsi il cellulare tra le dita.
Luna si ostinava a non capire e cercava di instillarmi un po’ della sua bontà, ma perché non si metteva l’anima in pace e accettava che eravamo semplicemente diverse?
Rendevo pan per focaccia. E non perdonavo. Non mi interessava compiere buone azioni per passare l’eternità in un fantomatico paradiso.
Non più almeno.
Avevo imparato a mie spese che non importa quanto ci si affanni per rendere felici le persone a cui tieni, o quanto reprimi te stessa per essere accettata: alla prima occasione, la più subdola, ti accoltelleranno alle spalle e ti lasceranno lì a sanguinare.
Mi girai di scatto appena udii il cigolio della porta della mia camera.
Cavolo, non l’avevo chiusa. Mi allungai per sbirciare che nessuno avesse ascoltato e mi ritrovai davanti Carlo, il mio coinquilino. Se ne stava lì con un sopracciglio inarcato e un’espressione indecisa, la mano stretta intorno alla maniglia.
«Stavi origliando?!»
«Ma figurati, sono appena arrivato.» Spalancò la porta e avanzò di qualche passo mentre io indietreggiavo.
«Da quanto tempo eri lì?» chiesi sospettosa.
«Non abbastanza, purtroppo. Sei già vestita» rispose calmo e spavaldo come al solito.
Indossava un paio di jeans e una Lacoste nera, il viso perfettamente sbarbato e i capelli corti e scuri pettinati a spazzola. Aveva un corpo statuario, una virilità disinvolta e travolgente, una postura fiera. E muscoli. Muscoli ovunque.
Il fisico di Carlo era il risultato dello sport che praticava e insegnava e che, nonostante tutto, gli aveva donato una grazia nei movimenti insolita per uno della sua stazza. Ma d’altronde il karate non è uno sport da buzzurri. Gli atleti che lo praticano sono forti e colpiscono duro, però sono armoniosi e fluidi in ogni loro mossa.
«E usi questi mezzucci per vedere un po’ di pelle scoperta? Irrompi in una stanza all’improvviso?»
«Di solito sono le donne che si spogliano per me.»
«Sono fiera di essere una voce fuori dal coro.»
«Solo perché mi sta bene così, Annabelle.»
Lasciai che si crogiolasse nella sua convinzione e mi appoggiai alla scrivania, incrociando le braccia al petto e seguendolo distrattamente con gli occhi.
A essere sincera io e lui non ci guardavamo molto spesso. I nostri rapporti si limitavano a convenevoli di circostanza e a punzecchiamenti più o meno innocenti e, anche quando parlavamo, i nostri sguardi non si incontravano quasi mai.
Non avevo idea del motivo per cui si comportasse in questo modo, di sicuro non per timidezza; se decideva di aprire bocca era talmente sfacciato che ti veniva voglia di mollargli uno schiaffo.
Quasi mi avesse letto nel pensiero, gli occhi castani di Carlo indugiarono nei miei e, come nelle rare volte in cui capitava, una piccola fiamma divampò nel mio petto.
Mi piaceva l’intensità con cui mi fissava. Mi faceva sentire viva. Autentica.
Quando ci trovavamo fianco a fianco, succedeva qualcosa. Era inspiegabile. E anche sbagliato. Io e lui eravamo troppo simili.
«Ti va di vedere un film?» mi domandò con nonchalance. «Di là ci sono Giorgia e Alessandro.»
«Vengo soltanto se ci sono morti ammazzati.»
«Non ce ne sono, ma tranquilla, avrai comunque la tua dose di sadismo. So che ne vai matta.» L’angolo destro della sua bocca si sollevò e io ricambiai quella specie di ghigno che mi aveva riservato.
«Andata.»
Ci spostammo nel salottino dove la sorella di Carlo e il suo ragazzo erano già comodi a mangiare popcorn.
«Ciao, ragazzi» li salutai sedendomi in un angolino del divano.
«Ciao» risposero all’unisono, poi Giorgia aggiunse: «Annabelle, boicottiamo la serata! Carlo vuole farci vedere It, quel clown squilibrato. Non ti piacerebbe una commedia romantica? O un bel fantasy!». I suoi ingestibili capelli castani ondeggiarono appena voltò il capo verso di me, gli occhi scuri speranzosi.
«No» ribattei secca stringendomi le ginocchia al petto. «Ho bisogno di brutalità stasera.» Le strizzai un occhio e lei scosse la testa accigliata, mentre Alessandro si sforzava di non ridere.
Carlo venne a sedersi al mio fianco e dopo aver premuto il tasto PLAY lanciò il telecomando al suo amico.
Era una fredda sera di inizio dicembre. La neve cadeva morbida imbiancando la quercia in cortile e le lucine a intermittenza del piccolo alberello nell’angolo si riflettevano su ogni superficie. I mobili color noce del salotto, disseminato da centrini ricamati a mano, antiche cornici cesellate e vetrinette di cristallo, rendeva l’atmosfera più natalizia che mai.
Carlo non aveva voluto modificare l’arredamento della casa che la nonna gli aveva lasciato in eredità, diceva che altrimenti si sarebbe rivoltata nella tomba, e Giorgia era d’accordo con lui. Solo le camere da letto erano state un po’ rimodernate per praticità, il resto era tutto uguale, persino le padelle di rame appese in ordine di grandezza alle pareti della cucina. Era un po’ problematico fare le pulizie lì dentro, ma era un appartamento vero, caldo e accogliente, così diverso rispetto a quello in cui avevo vissuto fino a qualche mese prima.
Stavo bene lì, sul serio. Riuscivo a dormire otto ore di fila senza svegliarmi al minimo rumore e la solita inquietudine che mi tormentava si era dissolta, lasciando soltanto un sottile strato di insoddisfazione, un tassello mancante con cui mi ero abituata a convivere da anni ed ero convinta che me lo sarei portato dietro per sempre.
Sprofondai tra i cuscini soffocando un sospiro frustrato e, mentre la testa di It sbucava da un tombino, mi resi conto di aver esagerato con Luna; d’altronde tentava di darmi dei consigli, era in buona fede.
Però lei era a conoscenza dei motivi che mi avevano spinto ad allontanarmi dalla mia famiglia adottiva e mi bruciava che mi spronasse ugualmente ad andare a trovarli.
Forse dal suo punto di vista ero esagerata, anzi, qualsiasi altra persona mi avrebbe trovata esagerata e ingrata, però da tempo avevo smesso di preoccuparmi delle opinioni altrui. Sono appunto solo opinioni. Se qualcuno avesse voluto giudicarmi, che prima si infilasse nei miei maledetti panni: poi avrebbe potuto aprire la bocca.
Osservai il profilo dei miei nuovi amici: il nasino all’insù di Giorgia, i riccioli biondi di Alessandro, il pomo d’Adamo di Carlo che aveva reclinato la testa all’indietro e pareva sonnecchiare.
Degli estranei in breve tempo erano diventati più familiari dei miei genitori adottivi e di mio fratello. Com’era possibile?
Non me lo sarei mai aspettata.
I primi quindici giorni dopo il trasloco non avevo disfatto le valigie ed ero stata scontrosa, vanitosa, petulante, schizzinosa. È meglio mostrare subito il peggio di sé, pensavo, il meglio sono tutti bravi ad accettarlo. Però non c’erano stati litigi, nessuno mi aveva invitato a trovarmi un’altra sistemazione com’era accaduto per i due appartamenti in cui ero stata precedentemente.
Era un piccolo traguardo, no?
Qualcosa mi sfiorò il braccio e vidi Carlo che mi allungava una parte del suo plaid, sistemandomelo con cura addosso.
«Grazie» sussurrai.
«Non mi ringrazieresti se conoscessi le mie intenzioni» sussurrò di rimando.
Con un sorriso che prometteva scintille, mi scivolò un po’ più vicino. Mi stava fissando. Il taglio dei suoi occhi, con quelle ciglia corte e nerissime, gli conferiva un’aria sempre maliziosa.
Capivo benissimo come faceva a irretire tante donne e la cosa mi infastidiva da morire. A dire il vero mi infastidivano gli uomini come lui in generale: sicuri di sé, mietevano vittime a suon di sorrisi ostentando il loro fascino. Il classico playboy che dà e promette avventure extrasensoriali soltanto con la forza del pensiero. Che usa le donne come oggetti.
Alessandro e Francesco, invece, non erano così, si vedeva lontano un chilometro che erano bravi ragazzi. Fra i tre, Carlo era senza dubbio la pecora nera. L’unico a non aver mai avuto una relazione, l’unico che «recitava» a voce alta i messaggi – secondo lui patetici – che le ragazze gli inviavano.
Probabilmente la mia insofferenza dipendeva dal fatto che la maggior parte delle donne lo giudicava attraente e gli cascava ai piedi. O forse perché liquidava ogni avventura con un sospiro di liberazione. O perché alla fine… incuriosiva anche me?
Mi si strinse lo stomaco e il mio cuore ebbe un piccolo sussulto. Erano settimane che cercavo di ignorare i segnali del mio corpo e del mio cervello, eppure era evidente che non ci stessi riuscendo bene.
Il braccio di Carlo era abbandonato tra noi, con il palmo della mano verso l’alto. Trascinata da una forza irresistibile, gli feci scorrere le dita lungo l’avambraccio sentendo sotto i polpastrelli il rigonfiamento delle vene, il calore della pelle.
Agganciai il suo sguardo e notai le sue iridi diventare un mare nero e profondo, le labbra che si schiudevano. «Senti…» bisbigliò.
Quel mormorio appena percepibile, quel caldo desiderio mi indusse a chiudere le mani a pugno, come se avessi bisogno di una difesa. Poi però Carlo scosse la testa e ritornò vigile. «Ascoltami.»
«No» dissi scontrosa. Cavolo, aveva ascoltato la mia conversazione con Luna! Aveva origliato, il bugiardo! Se si fosse azzardato di nuovo, avrei lavato tutti i suoi vestiti con la candeggina, gli avrei messo lo smalto mentre dormiva. Gli avrei sabotato tutti gli appuntamenti!
«Annabelle, voglio solo che tu sa...