
- 144 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Il bambino oceano
Informazioni su questo libro
Nel cuore della notte, il piccolo Yann sveglia i suoi sei fratelli. Devono fuggire: il padre ha minacciato di ucciderli. Guidati da Yann, nuovo Pollicino, i fratelli Doutreleau lasciano la fattoria decrepita in cui hanno sempre vissuto e s'incamminano verso ovest. Ad attenderli c'è un viaggio incredibile e alla fine, forse, l'oceano.
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Informazioni
Print ISBN
9788817142540eBook ISBN
9788858698198Seconda Parte
“Ahimè, poveri bambini miei,
dove siete capitati?
Sapete che questa è la casa di un Orco
che mangia i bambini?”
Pollicino, Charles Perrault
1
Racconto di Fabien Doutreleau, 14 anni, fratello di Yann
Durante la mattina parecchie macchine hanno rallentato e avevamo paura che ci beccassero. Anche separati, ci facciamo notare. Anche con Yann nella borsa. Una volta finito il pane, nel bosco, abbiamo parlato con Rémy e i medi. Non dobbiamo più seguire la strada, altrimenti non andremo lontano. Ci prenderanno. E se ci prendono, lo so che cosa succederà: ci riporteranno a casa. Anche se spieghiamo ai gendarmi perché siamo scappati, non ci crederanno mai. E non appena i gendarmi avranno alzato i tacchi, nostro padre ci darà una bella ripassata e poi ci farà quello che ha detto Yann… Ci ammazzerà tutti e sette.
Di questo non si parla mai. Né mentre camminiamo né durante le pause quando ci raduniamo. È vietato. È come una parolaccia che sarebbe impossibile dire. Perfino i piccoli lo capiscono, quindi seguono e non chiedono niente. Oppure solo dove si va, ma questo non è vietato. È successo nella capanna, questa mattina. Rémy ha risposto: «Andiamo a ovest, verso l’oceano».
E io ho aggiunto: «L’oceano Atlantico».
È calato il silenzio e l’abbiamo visto tutti, l’oceano, abbiamo sentito il rumore delle onde sulla sabbia, vraaauch, e abbiamo avvertito il vento addosso. Mi è venuta la pelle d’oca.
Un’altra volta Victor ha chiesto quand’è che saremmo arrivati, e lì non era così semplice rispondere…
Se abbandoniamo la strada e seguiamo solo gli sterrati ce ne vorrà di tempo. La distanza raddoppia, come minimo. Un vantaggio, invece, che darebbe un gran sollievo a me e Rémy, anzi, soprattutto a Rémy, perché le forze cominciano a mancargli, è che Yann potrebbe uscire dalla borsa. Lo nasconderemmo solo in caso di allarme oppure quando è troppo stanco. Per orientarci non cambierebbe niente, è chiaro come il sole che Yann ha una bussola nella testa, o le antenne o non so cosa. Ad ogni modo, non ha mai grandi esitazioni, volta la testolina verso il cielo, la fa roteare in tutte le direzioni e poi punta il dito. E noi seguiamo la rotta.
Siccome m’intrigava questa storia, a un incrocio gli ho chiesto: «Come fai?».
«La luce…» mi ha detto, «la luce nel cielo… a ovest è più chiaro…»
Ma io non vedo la differenza.
2
Racconto di Rémy Doutreleau, 14 anni, fratello di Yann
Abbiamo lasciato la strada asfaltata. È meglio perché possiamo camminare tutti insieme, e poi io e Fabien non dobbiamo più beccarci la borsa. Cominciavamo ad avere braccia e gambe indolenzite. Alla fine avevamo trovato un trucco: lo portavamo in due, un manico a testa e la borsa in mezzo, come se ci fosse dentro la spesa. Ma anche se cambiavamo lato ogni cento metri, ci segava comunque le dita di brutto. Insomma, non portiamo più la borsa ed è un bel sollievo, soprattutto per Fabien, che è un po’ più debole di me.
Camminiamo sulle strade sterrate, nel sottobosco, lungo le sponde dei fiumi. Ci sono tratti spaziosi e morbidi sotto i piedi, allora andiamo avanti tutti insieme, di buon passo, quasi allegri; poi la strada si restringe e ci mettiamo in fila indiana. Altrove ci perdiamo tra le erbe alte, dobbiamo prendere Yann in spalla e ne usciamo zuppi. Ci sono momenti in cui ci scoraggiamo un po’: abbiamo l’impressione che non arriveremo mai da nessuna parte, che le gambe ci si conficcheranno nella pancia a forza di camminare, che tutto questo non servirà a niente. Ma nessuno vuole lamentarsi per primo, perciò stiamo zitti e proseguiamo…
A volte abbiamo qualche gratificazione. Nel tardo pomeriggio, per esempio, abbiamo seguito per tanto tempo un’alzaia, lungo un canale che andava verso ovest. Era bello. Camminavamo all’asciutto, non avevamo troppo freddo né troppo caldo, né nient’altro. Senza volerlo abbiamo accelerato, come se il canale portasse diritto all’oceano e noi avessimo potuto raggiungerlo prima del buio, se fossimo andati abbastanza veloci. Sapevamo bene che non era vero, ma ci faceva piacere pensarlo.
A un certo punto, abbiamo fatto i nostri bisogni tutti insieme dietro alcuni alberelli. Ci siamo asciugati alla bell’e meglio con le foglie e ci siamo lavati le mani nell’acqua del canale. Subito dopo è calato il buio e il freddo di colpo ci ha assaliti. Abbiamo camminato ancora un po’, ma la strada si è stretta e alla fine si è persa tra le ortiche. Siamo tornati indietro per un buon chilometro, fino a un ponte, e ci siamo seduti contro il muricciolo di pietra.
I medi avevano il loro sguardo dei giorni peggiori, scuro e truce, e siccome per di più si succhiavano tutti e due il laccio del berretto, non era difficile capire che avevano fame.
I piccoli parevano stanchi, ora.
«Dov’è che dormiremo?» ha chiesto Victor, sfilandosi le scarpe da signora.
Abbiamo visto che aveva il collo dei piedi ferito: c’erano due strisce rosse per niente belle. Aveva un gran coraggio a continuare così. Come se non bastasse, aveva le caviglie coperte di piccole bolle bianche per via delle punture delle ortiche. Siccome nessuno gli ha risposto, ha storto la bocca e si è messo a piangere in silenzio. Ho fatto come se non lo avessi visto, e gli altri uguale. Tanto non avevamo niente per medicarlo, perciò a cosa serviva fare finta? In questi casi, se ti metti a consolare qualcuno, quello apre i rubinetti. Meglio guardare da un’altra parte.
Eravamo a questo punto della nostra scintillante situazione quando Yann ha alzato l’indice.
«Sentite?»
Non sentivamo un fico secco. A parte Victor che tirava su col naso e una rana che faceva cra cra nel canale, c’era silenzio. Ma siccome Yann teneva ancora il dito per aria, abbiamo teso l’orecchio e alla fine abbiamo sentito anche noi. Un rombo sordo, molto lontano. E poi abbiamo distinto una scia di luce all’orizzonte, come un lungo graffio rosso nel buio della campagna.
Il treno correva nella notte, a tutta velocità. E andava verso ovest.
3
Racconto di Colette Faure, 68 anni, pensionata
La gente non mi crede, quando lo dico. Che vengano a passare un po’ di tempo qui da me. Primo, mi terrebbero compagnia. Secondo, vedrebbero che non dico bugie. Vi sfido a guardare la ferrovia per oltre mezza giornata senza scorgere qualcuno che ci cammina a fianco. Vi stupisce? Eppure è la vera verità.
Sono quindici anni che guardo la ferrovia. Ho la sedia davanti alla finestra. A destra c’è la televisione, a sinistra i binari. E tra i due ci sono io che guardo, un po’ a destra, un po’ a sinistra, un po’ la televisione, un po’ la ferrovia. Quando mi stufo, do da mangiare al gatto e lo guardo che mangia.
Non c’è che dire, con la quantità di vie che esistono, strade, autostrade e tutto il resto, viene da chiedersi perché sentono il bisogno di camminare proprio lì. Ma mi sono fatta una mia idea ormai. Camminano lì primo perché si va diritto, e secondo perché alla fine c’è sempre una stazione. Così hanno almeno due certezze; e poi è riposante. In genere sono persone sole. Vanno avanti a testa bassa, a macinare pensieri funesti. Voglio dire, immagino. Quando si cammina soli lungo la ferrovia, per cosa lo si fa, se non per macinare pensieri funesti?
A volte mi viene voglia di aprire la finestra e strillare: “Guardi che la sua situazione non si sistemerà! Si stenda sui binari, piuttosto: il prossimo passa tra cinque minuti! Così se ne starà in pace!”. Mi fa ridere da sola. Non sono cattiva, solo un po’ dispettosa. Ci si distrae come si può. Mi è venuto con l’età. Non ero così svitata prima, mi pare…
Non lo faccio quando sono giovani. E soprattutto se è buio. Quelli lì sono passati alle undici di sera. Sul secondo canale c’era il tg, per questo mi ricordo l’ora. Quattro ragazzi in fila indiana, con davanti uno strano omuncolo che trotterellava. La luna illuminava a giorno e io lo vedevo come vedo voi. Immaginate un moccioso con una giacca degli anni Sessanta abbottonata davanti, ed eccovi il ritratto. Faceva tre passi quando gli altri ne facevano uno e si dimenava come un pinguino sulla banchisa. Cento metri più indietro ce n’era un sesto che ne portava un altro sulla schiena.
Ho aspettato un po’, chissà che ne arrivassero altri, ma niente, erano gli ultimi, la sfilata era conclusa. Passando davanti a casa mia, quello che si faceva portare ha guardato a lungo verso di me. Gli ho fatto un cenno col mento: “Vuoi la mia foto o cosa?”.
Périgueux è a oltre trenta chilometri. Bambini, mi sono detta, se volete arrivarci prima che sia giorno, vi conviene trottare un po’ di più.
Quando ne hanno parlato al tg la settimana dopo, ho subito chiamato i gendarmi ma non mi hanno ascoltata. Primo, perché avevano già ritrovato i ragazzi e secondo, perché nessuno mi ascolta mai, a me.
4
Racconto di Max Doutreleau, 11 anni, fratello di Yann
«Siamo arrivati» ha detto Fabien, «ancora pochi chilometri. La città si chiama Périgueux, camminiamo fino alla stazione e lì prendiamo il treno.»
Si stava facendo giorno. Ai lati della ferrovia, le case grigie emergevano pian piano dalla foschia. Dentro dovevano esserci persone che dormivano al calduccio. Fabien avrebbe potuto dire che rimanevano dodici chilometri, centoventi, o quattro milioni: per me e Victor faceva lo stesso. Ci siamo guardati le gambe per vedere se ce ne rimaneva qualche pezzetto, se non erano consumate fino alle ginocchia. Qualche pezzetto rimaneva ancora… Le nostre gambe camminavano da sole. Ma ci avrebbero obbedito e si sarebbero fermate al momento giusto?
Davanti alla stazione, c’era un ampio piazzale. Ci siamo nascosti vicino ai bidoni dell’immondizia. I grandi e i medi hanno parlato a lungo tra di loro, e con Yann, s’intende. Io e Victor ci siamo raggomitolati uno contro l’altro perché avevamo molto freddo, ora che non camminavamo più. Capivo perfettamente perché i grandi esitavano: il fatto è che non avevano mai preso il treno e non sapevano come fare per i biglietti e il resto. Non dev’essere tanto difficile, ma se uno non lo sa…
Alla fine Pierre ha preso la sporta blu, ha fatto uno strappo di dieci centimetri buoni, Yann ci si è messo dentro, Pierre se l’è ficcato sotto il braccio e sono entrati tutti e due in stazione. L’orologio segnava le sette e mezzo. Quando sono tornati fuori erano le otto in punto. Pierre ci ha distribuito i biglietti per Bordeaux. Ce n’erano solo tre, ma quando si è gemelli bastano per sei, così ha detto.
5
Racconto di Victor Doutreleau, 11 anni, fratello di Yann
Non c’era un odore molto invitante intorno ai bidoni dell’immondizia, ma almeno avevamo smesso di camminare. Mi sono appoggiato a Max, schiena contro schiena, e abbiamo cercato di scaldarci mentre aspettavamo che i grandi decidessero. Ho chiuso gli occhi: alcune macchine si fermavano, altre partivano, si sentivano sbattere le portiere. Era come un sogno. Dev’essere l’effetto che fa, quando non si dorme per tutta la notte. Il giorno prima avevo pianto un po’ al ponticello di pietra. Certo, avrei voluto essere più coraggioso, ma è stato più forte di me, non ho potuto trattenermi. Non per i piedi che mi facevano male, né per le ortiche, ma perché mi dicevo: il primo che non riuscirà più ad andare avanti sarai tu. E siccome non vorranno abbandonarti, be’, ci fermeremo tutti, non arriveremo mai all’oceano, e sarà colpa tua.
Per fortuna abbiamo visto passare il treno subito dopo; ci ha ridato speranza e siamo ripartiti. Paul mi ha portato sulla schiena per oltre un chilometro. A un certo punto siamo passati davanti a una casa illuminata. Una signora grassa ha scostato le tende e mi ha guardato senza fare tanti complimenti.
«Vuoi la mia foto o cosa?» ho mugugnato.
«Come?» ha risposto Paul.
«Niente» gli ho detto, perché non aveva visto la signora ed era troppo lunga da spiegare e poi non aveva importanza…
Un po’ più in là, è caduto e si è maciullato il ginocchio. Paul è fatto così, non dice che è stanco, aspetta finché poi cade ed ecco che cosa succede. Mi sono vergognato un po’ e ho ripreso a camminare.
Quando siamo arrivati a Périgueux era giorno e non sentivo più il male. Le strisce rosse sui piedi erano diventate nere e anche un po’ blu. Credo di essermi addormentato accanto ai bidoni dell’immondizia. Dovevo essere stanco morto, visto come puzzavano e il freddo che faceva.
Subito prima, Pierre ha aperto una fessura nella borsa strappando la cucitura con le mani, ha messo Yann dentro, e sono entrati in stazione.
Indice dei contenuti
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