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13 settembre
Certe volte mi basterebbe un «come stai?».
Una sola domanda, formata da due piccole parole, otto lettere con l’aggiunta del punto interrogativo, che riuscirebbero almeno a farmi sentire considerato da qualcuno. Non pretendo di essere importante per gli altri. Non so nemmeno io cosa vorrei, ma vorrei che non fosse com’è ora.
Il problema più grosso è che nessuno riesce a comprendermi, o forse non vogliono comprendermi. Voglio che le persone smettano di guardarmi come se fossi un mostro, voglio che la smettano di evitarmi. Non ho mai fatto del male a nessuno.
Ora però è meglio andare a dormire e soprattutto è ora di smetterla con le paranoie. Domani c’è il mio ultimo primo giorno da liceale. La verità è che adesso come adesso non mi importa nulla della scuola. Voglio solo portare a termine questo anno e andarmene. Dove? Non lo so. Sicuramente lontano da qui.
A Christian bastò chiudere gli occhi, quella notte, per ritrovarsi catapultato nel passato remoto della sua infanzia. Era poco più che un bambino, indossava la felpa di Dragon Ball e stava giocando in cameretta con i suoi giocattoli preferiti, una collezione di dinosauri che gli aveva regalato sua madre a Natale.
All’improvviso sentiva il pianto di una donna. Proveniva da qualche stanza della casa che nel sogno gli appariva come un tetro labirinto. Seguendo i singhiozzi, arrivava di fronte a una porta e si fermava a origliare una conversazione concitata.
«Come hai potuto farmi questo?» stava dicendo sua madre.
«Chi ti ha dato il permesso di leggere i messaggi dal mio cellulare?» replicava la voce dura di suo padre.
«Come hai potuto tradirmi? Io che ti ho sempre amato, io che ho fatto sempre di tutto per te.»
«Io non ho tradito proprio nessuno.»
«Guardami... Guardami negli occhi e dimmi la verità.»
Christian allora socchiudeva la porta, ma nessuno si accorgeva di lui, come se fosse invisibile.
«Mi fai schifo!» urlava sua madre.
Il marito non la guardava, non riusciva a fissare quel volto a pochi centimetri dal suo. Poi lei gli tirava uno schiaffo e un attimo dopo entrambi si accorgevano che loro figlio era lì, immobile, con gli occhi spalancati pieni di lacrime.
Christian si svegliò di soprassalto.
Gli mancava l’aria. Era seduto sul suo letto, nella sua nuova casa. Era stato solo un incubo, ma il ricordo era reale, così come la paura e la rabbia. Si alzò a fatica dal letto e dopo una lunga doccia fu pronto per il suo ultimo primo giorno di scuola.
Il cielo era limpido, tipico di una mattina di fine estate. Le strade di Napoli erano già trafficate e i marciapiedi affollati da studenti di ogni età.
Il rientro non è mai facile per nessuno, e a maggior ragione per Christian.
Arrivato fuori da scuola, fissò quell’edificio che per lui rappresentava una sorta di prigione. Si augurò che la sua aula fosse la stessa dell’anno precedente, al primo piano: la fuga verso il portone principale sarebbe stata abbastanza rapida e i ragazzi da ignorare non erano molti. Varcato il cancello, Christian intercettò lo sguardo di due che lo fissavano, mormorando qualcosa. Li sorpassò e si diresse verso l’entrata.
«Ehi, tua mamma era troppo impegnata per stirarti la camicia?» gli domandò uno dei due.
«Dici a me?»
Senza scomporsi, si avvicinò ai due ragazzi puntando gli occhi addosso a quello che aveva parlato. «Ci conosciamo?»
«Per fortuna no, con gli straccioni non abbiamo nulla da spartire.»
«Ripetilo ancora.»
«Tutte le volte che vuoi. Con gli straccioni...»
Senza permettergli di terminare la frase, Christian lo afferrò per il colletto della polo. «Io non so chi sei, né cosa vuoi da me, ma è meglio se da adesso in poi giri alla larga.» I suoi occhi erano furenti.
«Okay, okay...» disse il ragazzo con voce strozzata, divincolandosi poi dalla presa.
Christian se ne andò senza nemmeno voltarsi. Era in ritardo. Sulla bacheca scoprì che la sua aula, per fortuna, era ancora quella al primo piano. Salì di corsa le scale, bussò ed entrò.
«Buongiorno prof, scusi il ritardo.»
«Leone, ben arrivato. Vai pure in presidenza. Entrerai la prossima ora, se il docente vorrà.»
Christian era abituato all’atteggiamento del suo insegnante di filosofia. Giosuè Iovine era odiato da tutti i suoi studenti, ma soprattutto da quelli che lui prendeva di mira. Era sempre pronto a dare note, sospendere, o sparare due a raffica sul registro.
Senza replicare, Christian chiuse la porta e si avviò verso il bar al pian terreno. Trascorse l’intera ora seduto nella saletta di fronte alla presidenza, rileggendo l’ultimo libro che aveva preso in biblioteca, Harry Potter e i Doni della Morte.
Fino all’età di undici anni, Christian non aveva mai aperto un libro, se non per studiare. Poi però, nel giorno del suo undicesimo compleanno, sua madre gli aveva regalato Harry Potter e la Pietra Filosofale. Da quel momento, leggere era diventata la sua passione e Harry Potter il suo eroe.
Nella libreria di Christian c’era spazio per molti altri libri di ogni genere: romanzi, gialli, storici, ma anche fumetti e manga giapponesi. Il suo genere preferito era però il fantasy, l’unico che gli permettesse di evadere non solo dalla sua vita, ma anche dal suo mondo triste e monotono.
Eragon, Il Signore degli Anelli, Percy Jackson e gli Dei dell’Olimpo, Le Cronache di Narnia erano solo alcuni dei romanzi che aveva divorato negli ultimi anni e che occupavano un posto d’onore.
Terminata la prima ora, Iovine lasciò la cattedra alla professoressa di lettere che, con una blanda occhiata di rimprovero, ammise il ragazzo in classe.
«Leone, iniziamo bene l’anno a quanto vedo.»
«Prof, ero in ritardo di soli due minuti.»
«È pur sempre un ritardo. E comunque lo conosci Iovine, no? La prossima volta cerca di arrivare prima.»
Christian trascorse la mattinata senza mai abbandonare il suo banco all’ultima fila, senza partecipare alle chiacchiere del resto della classe, nemmeno durante l’intervallo. Sembrava che tutti avessero qualcosa di speciale della loro estate da raccontare, ma lui l’aveva trascorsa a lavorare e, anche volendo, non avrebbe saputo che cosa dire.
«Chri! Tutto bene? Non hai detto una parola oggi...» gli disse Marco al termine della mattinata, mentre la classe si svuotava.
Marco era uno dei pochi compagni di classe con cui Christian parlava di tanto in tanto.
«Non avevo niente da dire.»
«Preoccupato per la maturità?»
«Mancano ancora nove mesi...»
«Be’, io ci penso, me la sto già sognando la notte!»
Christian non ribatté e finì di infilare i libri nello zaino.
«Hai già deciso che università fare?» lo incalzò Marco.
«No» rispose seccamente Christian.
«Io pensavo ad architettura, mio padre ha una ditta edile e così lavorerò con lui.»
«Sono contento per te» tagliò corto Christian.
Marco lo fissò per qualche secondo, poi andò per la sua strada.
Christian in parte si pentì per avergli risposto in quel modo, ma odiava parlare del suo futuro, soprattutto ora che non riusciva più a immaginarlo. Come avrebbe potuto mantenersi all’università con i pochi soldi che guadagnava? Sarebbe stato già difficile cavarsela durante quell’anno. E poi, come avrebbe fatto con i corsi da seguire e con tutto quel carico di studio?
Fino a qualche mese prima, il suo sogno era stato quello di diventare insegnante, ma poi troppe cose erano cambiate nella sua vita e ora quel pensiero gli provocava solo nuova rabbia e frustrazione. La scelta di lasciare la sua famiglia e andare a vivere da solo era stata quasi obbligata, ma Christian non aveva considerato tutte le conseguenze di quel salto nel vuoto.
Trascorse l’intero pomeriggio immerso nella lettura. Terminò il libro poco prima che facesse buio. Poi andò in cucina e si preparò una pasta al pomodoro, niente di speciale o di particolarmente elaborato, ma sufficiente a togliergli la fame. Da quando viveva da solo, aveva dovuto imparare a cucinare, oltre che a svolgere le faccende domestiche, pulire la casa, fare le lavatrici e la spesa, tutte attività delle quali, fino a poco tempo prima, si era occupata sua madre. Ma nonostante la fatica, non provava nessuna nostalgia per la sua vita in famiglia. Ai continui litigi tra i suoi genitori, alla tensione sempre presente in ogni momento, ai silenzi pieni di conflitti segreti, Christian aveva dato un taglio netto.
Lunedì era l’unico giorno della settimana in cui non lavorava. Doveva farlo per poter pagare i quattrocento euro di affitto mensili, fare la spesa e magari comprarsi qualche libro.
In estate non era stato un problema lavorare ogni sera fino alle due di notte, perché il giorno dopo poteva svegliarsi a qualsiasi orario. Ora però, con la scuola tutte le mattine, la faccenda si complicava. L’idea di trascorrere nove mesi in questo modo lo spaventava. Solo dopo cena, si rassegnò ad aprire il libro di storia e iniziò a studiare.
«La Restaurazione...» lesse ad alta voce per cercare di concentrarsi meglio. «Sul piano strettamente storico-politico, è il processo di ristabilimento del potere dei sovrani in Europa, in seguito alla sconfitta di Napoleone.»
Studiò per due ore, fino a quando non cominciò a sentire la testa pesante, quindi abbandonò il libro aperto sul tavolo e si sdraiò sul letto.
Eppure non si sentiva tranquillo, sapeva di aver dimenticato qualcosa, ma cosa?
La divisa da lavoro!
Aveva completamente scordato di lavare i suoi vestiti da cameriere.
Si alzò di scatto, prese dal cesto dei panni sporchi la divisa, riempì d’acqua il lavandino del bagno, ci versò del detersivo e la immerse.
Nell’attesa, pensò che un po’ di musica lo avrebbe aiutato a rilassarsi e così aprì il cassetto in cui teneva alcuni vecchi cd e cominciò a passarli in rassegna. Si ritrovò tra le mani una foto leggermente sbiadita che doveva essere finita in quel cassetto per caso, durante il trasloco.
Ritraeva un bambino sorridente che stringeva il volante in braccio a un uomo, sorridente almeno quanto lui. Sul sedile del passeggero c’era una donna che fissava il bambino con occhi colmi d’amore. Christian rimase per qualche secondo a osservare quella foto. Aveva quasi dimenticato quanto era stata felice la sua infanzia, fino a poco oltre il momento immortalato da quello scatto.
Le solite domande tornarono a bussare alla sua mente: perché due persone che si amano, poi cominciano a odiarsi?
2
15 settembre
Credevo di essere forte. Mi sbagliavo. Sono un debole, uno di quelli che si spaventano per poco, uno di quelli che tremano come foglie davanti alla minima difficoltà.
Ancora un incubo. Ancora quella casa, il pianto di mia madre, le bugie di mio padre. È un passato col quale non riesco a fare i conti, anche se c’ho provato. Non riesco a fidarmi delle persone, non faccio altro che chiudermi a riccio. Mostro solo e sempre le spine. Ho bisogno di difendermi, anche se non so da cosa.
Il secondo giorno di scuola il sole illuminava il cielo di Napoli. In aula, Christian rimase sempre in assoluto silenzio, cercando di concentrarsi sulle spiegazioni degli insegnanti.
Tornato a casa, pranzò con un po’ di pane e formaggio e poi, di fronte al caos che regnava sovrano e alla polvere che ricopriva ogni superficie, si fece forza e decise di dare una bella pulita.
Iniziò dalla cucina, che poi era anche la sala da pranzo. Lavò piatti e pentole, lasciati in ammollo il giorno precedente, e pulì il lavello e il piano cottura. Poi passò una buona mezz’ora a mettere al proprio posto tazze, bicchieri e piatti, prima di tirare fuori spazzolone e straccio. La parte più difficile fu pulire il bagno. C’erano montagne di panni sporchi accatastati che fuoriuscivano dal cesto e dovette fare due lavatrici. La parte meno faticosa fu invece riordinare la camera. C’era solo il letto sfatto, un po’ di libri in giro e qualche calzino sparso qua e là.
Dopo circa un paio d’ore, la casa era tornata come nuova e Christian provò un insolito senso di soddisfazione. Avrebbe voluto fare la stessa cosa con i suoi sentimenti, metterli in ordine, ripulirli, eliminare paure e rancori, ma purtroppo quella era tutta un’altra faccenda.
Mentre aspettava che i pavimenti si asciugassero, si affacciò alla finestra e si perse, come spesso accadeva, nei propri pensieri.
Ripensò al giorno in cui era arrivato lì, con l’agente immobiliare che gli aveva presentato quell’essenziale ma confortevole appartamento. Un piccolo bilocale ad Agnano, una zona di Napoli poco distante da Fuorigrotta, vicino allo stadio San Paolo. Quattrocento euro di affitto che portavano via la metà del suo guadagno mensile.
Affacciato alla finestra, osservò il panorama che aveva davanti a sé, anche se di panoramico c’era ben poco. Palazzi, asfalto e auto ovunque. Avrebbe tanto voluto abitare in una grande villa, con un bel giardino pieno di alberi d’ulivo, ma per adesso, e chissà per quanto tempo in futuro, doveva accontentarsi.
Tornando alla realtà, occupò quel poco tempo che gli era rimasto per studiare e poi filò al lavoro, arrivando come sempre in ritardo di pochi minuti, ma rice...