«Oh, pigna sorda! Non hai sentito il campanello?»
Ho stretto i denti e ho spremuto un po’ di detersivo verde nel lavandino della cucina.
Quando qualcuno ti grida così, ci sono diverse cose che puoi fare.
Opzione uno: fingi di essere sordo e lo ignori. Che non è una buona idea se quello che sta urlando è tuo fratello maggiore. E comunque, non se hai un fratello maggiore come Donovan.
Opzione due: minacci di rompergli il naso se ti chiama pigna un’altra volta. Ma nel mio caso sarebbe stata una mossa stupida. Donovan era campione regionale di nuoto, faceva pesi tutti i giorni e beveva quei frullati proteici che ti fanno venire dei muscoli esagerati. Come se non bastasse, a quindici anni padroneggiava l’arte della smutandata. Le mutande nel mio armadio erano tutte sformate.
Opzione tre: gli fai presente, in modo molto cortese, che la persona che ha suonato alla porta sicuramente non sta cercando te, considerato che il tuo migliore (e unico) amico era andato in America con i suoi genitori per le vacanze di Natale. Ma anche in questo caso le probabilità di smutandata sono altissime.
Opzione quattro: segui il normale ordine gerarchico e dici a tuo fratello minore di andare ad aprire. Da noi, però, il normale ordine gerarchico non esisteva più. Adrian aveva solo nove anni ma aveva conquistato una posizione più alta della mia. Per farla breve: al momento ero il suo schiavo personale. Se volevo qualche spicciolo per le vacanze, meglio lisciarlo dalla parte giusta.
Opzione cinque: molli i piatti, ti asciughi le mani e vai ad aprire.
Indovinate che cos’ho scelto.
La ragazza nel portico di casa sembrava un po’ più grande di me. Indossava dei jeans scoloriti e aveva i capelli castani raccolti in una coda di cavallo. Sorrideva nervosa e il suo apparecchio luccicava al sole.
«Ciao? Sto… cercando Donovan? Adrian… ehm… mi ha invitata?» Parlava per punti di domanda.
Con un sospiro, mi sono girato e ho gridato: «Donovan! C’è un’altra cliente!».
La ragazza era visibilmente in imbarazzo ed è diventata paonazza.
Se mamma e papà avessero scoperto quel che succedeva in pieno giorno a casa nostra, avrebbero avuto bisogno di un bravo psicologo. Per fortuna lavoravano tutt’e due ed erano beatamente ignari del fatto che il loro figlio minore noleggiasse il più grande alle ragazzine. C’è un modo di definire tutto questo. Ed è “illegale”.
Adrian mi aveva detto di non fare lo stupido, che era solo un innocentissimo laboratorio di autostima.
Lui era uno di quei bambini che a nove anni usano parole tipo “autostima”. Mio padre sosteneva che a diciotto sarebbe stato o milionario o in prigione a scontare la sua prima condanna.
Non conoscevo nessuno che a nove anni fosse così ricco. Aveva cominciato a inventare sistemi per guadagnare soldi quand’era alla scuola materna: durante il campionato di rugby, aveva convinto i suoi amichetti a scommettere sulle partite del weekend. Tempo che una madre furibonda se ne accorgesse, lui aveva già messo da parte un bel gruzzolo. Non conoscevo nessuno che si fosse fatto espellere alla materna. Nemmeno il fatto che mamma fosse avvocato era servito. Da quando aveva cominciato le elementari, gran parte della sua fortuna la accumulava rifornendo lo spaccio scolastico di caramelle da quattro soldi. O, perlomeno, noi supponevamo che la accumulasse così.
Era sempre occupato a escogitare sistemi misteriosi per arricchirsi. Papà diceva che preferiva non conoscere i dettagli. Il suo ultimo piano (di Adrian, non di papà) era noleggiare Donovan come istruttore di baci.
Ebbene sì, c’erano ragazze – come quella con l’apparecchio, in piedi nel portico di casa nostra, rossa come un peperone – che pagavano per avere il privilegio di baciare mio fratello maggiore.
L’anno prima, Donovan aveva cominciato a ingellarsi i capelli e a fare palestra, e si era trasformato in una calamita. Di pomeriggio, quando aveva gli allenamenti di nuoto, una folla di studentesse si riuniva intorno alla piscina per vederlo in costume. Erano più i cuori che aveva spezzato Donovan dei record di nuoto conquistati da Michael Phelps. Ma questo non le aveva scoraggiate, a quanto pareva, visto che dall’inizio dell’estate per le lezioni di bacio si erano presentate almeno in tre o quattro. Sparivano assieme a Donovan per una mezz’ora all’ombra della lapa, il gazebo di paglia che avevamo vicino alla piscina. Quando ricomparivano, avevano i capelli tutti scompigliati, il rossetto sbavato e un sorriso grande come una casa. Non avevo idea di quanto chiedesse Adrian per una lezione di bacio e quale fosse la percentuale che spettava a Donovan. O magari Donovan lo faceva per puro divertimento, dato che sembrava avere in testa solo le ragazze. E il cloro della piscina. Non c’è da stupirsi che fosse stato promosso per il rotto della cuffia.
La ragazza in piedi nel nostro portico, imbarazzatissima, si era schiarita la voce mentre strofinava le mani sui jeans. Aveva tutta l’aria di voler scappar via.
Se Donovan avesse passato sui libri lo stesso tempo che trascorreva davanti allo specchio con pettine e gel, scommetto che sarebbe riuscito a prendere almeno tre A. Ci stava mettendo una vita, ma io non ho invitato la ragazza a entrare. A qualcosa servirà pure avere la mamma avvocato: sapevo che cosa vuol dire “complice”. Non volevo avere niente a che fare con il cosiddetto “laboratorio di autostima” organizzato dai miei fratelli.
Alla fine Donovan si è palesato. Con i capelli perfettamente ingellati e la puzza di quel dopobarba costoso che la mamma aveva comprato al papà per il suo compleanno.
«Ciao» ha detto alla ragazza con un sorriso a trentadue denti, spingendomi da parte come se fossi un fermaporte da schivare. «Vieni, andiamo a sederci fuori nella lapa.»
Lei ha risposto con una risatina nervosa e si è fatta ancora più bordeaux, poi è sparita con Donovan in veranda.
Con un sospiro, ho chiuso la porta e sono tornato in cucina.
In giardino la pompa della piscina faceva ciag-ciag-ciag.
Il frigorifero ronzava come un gatto che fa le fusa.
Dietro il cancello di casa, Mr Bones abbaiava alla moglie del reverendo che stava passando di lì con il suo pastore tedesco.
Pochi minuti dopo, è entrato in cucina Adrian.
«Allora, Marnus, hai finito coi piatti?» mi ha chiesto con tono da prepotente mentre prendeva il succo d’arancia dal frigo.
In teoria sarebbe toccato a tutti e tre, a turno, sistemare la cucina. Ma all’inizio delle vacanze avevo scongiurato i miei di darmi un anticipo sulla paghetta e avevo comprato da Adrian una PlayStation Portable di seconda mano. Lui, a sua volta, l’aveva presa da un amico. Si era rotta dopo una settimana, quella maledetta, e Adrian si era rifiutato di restituirmi i soldi perché l’avevo acquistata senza assicurazione né garanzia. Non ero nemmeno sicuro di sapere di preciso che cosa significasse. Per farla breve: avrei dovuto lavare sempre io i piatti e pulire sempre io la cucina per farmi dare la mancetta da mio fratello di nove anni.
Che schifo di vita.
Stavo ufficialmente passando le vacanze di Natale peggiori di sempre. Mi sarebbe piaciuto andare al mare come al solito, ma mamma e papà avevano programmato tre settimane in una riserva di caccia a giugno e ora preferivano non prendere troppe ferie. Tra l’altro, mamma era impegnata in un Processo Importantissimo e papà puntava sugli acquisti di Natale per risollevare il suo negozio di articoli sportivi, quindi era escluso che si concedesse qualche giorno di riposo.
Il campanello ha suonato di nuovo Jingle Bells. Una settimana prima papà aveva sostituito il trillo con le canzoni di Natale. Era un tentativo patetico di portare in casa un po’ di atmosfera natalizia. Ma io avevo il presentimento che a giugno, al momento di partire per la riserva di caccia, il nostro campanello avrebbe continuato a essere Jingle Bells, considerato che quello stesso anno a Pasqua nessuno si era ancora occupato di smontare l’albero.
«Hai deciso di non andare ad aprire?» mi ha chiesto Adrian mentre faceva sgocciolare succo d’arancia sul tavolo. Tavolo che avevo appena pulito.
Dopo le vacanze la parcella del dentista sarebbe stata salatissima: a furia di digrignare i denti li stavo consumando.
Mi sono asciugato di nuovo le mani con lo strofinaccio e sono andato alla porta.
Dove, ovviamente, c’era un’altra ragazza in attesa.
Questa volta era una bionda e doveva avere più o meno la mia età. Ma gli occhi erano la cosa che si notava di più: grandi, azzurri, con ciglia scure.
«Scusa, Donovan è ancora impegnato» ho bofonchiato. «Devi aspettare il tuo turno.»
Tra le sopracciglia le è comparsa una piega. «Il turno di cosa? E chi è Donovan?»
«Non sei qui per le lezioni di bacio?»
A sinistra della piega, il sopracciglio è salito di uno o due centimetri e lei ha fatto un mezzo sorriso. «Lezioni di bacio?»
Sono diventato paonazzo. «Ah… no, niente, niente. Scusa. Che cosa volevi?»
«Puoi firmare la mia petizione?» mi ha chiesto mostrandomi un foglio.
Non me l’aspettavo. L’ho fissato. Sembrava strappato da un taccuino. Sopra c’era una lista di firme, indirizzi e numeri di telefono.
«Ehm… mi sa di no» le ho risposto. Mamma diceva sempre che non bisogna mai mettere la propria firma su un pezzo di carta se non sai esattamente che cosa c’è scritto sopra, parola per parola. Ovviamente “assicurazione” e “garanzia” Adrian le aveva imparate da lei.
«È per una buona causa.»
«Cioè?»
Il mezzo sorriso si è trasformato in un sorriso intero. «Se vuoi ti porto a vedere.» Poi indicando lo strofinaccio: «O preferisci asciugare i piatti?».
A quel punto avevo la faccia in fiamme. «Eh ma… Non so…»
Mentre balbettavo una scusa qualsiasi, lei ha cominciato a ridacchiare. Teneva la testa piegata in avanti e si copriva la bocca con una mano, ma dagli occhi si capiva che mi stava prendendo in giro.
«Ma dài! Sono sicura che i piatti possono aspettare due minuti. Quando vedi per che cos’è la petizione, la firmi di sicuro.»
Mi ha preso per mano e mi ha trascinato verso il cancello.
«Ah, comunque mi chiamo Leila.»