“Le luci non dovrebbero essere accese” pensa Ruggero appena alza la testa verso il quinto piano.
Lo stabile è quasi interamente al buio, ma il suo appartamento brilla, le finestre che danno sulla strada sono tutte illuminate.
No, le luci non dovrebbero essere accese, perché sua madre si alza presto per andare a prendere servizio in stazione e spegne sempre alle nove, massimo le dieci.
Invece ora è tardi, quasi mezzanotte, per questo Ruggero ha camminato veloce, i passi lunghi, il collo incassato nella sciarpa, le mani affondate nelle tasche dell’eskimo verde per ripararsi dal vento gelido che si è alzato quella sera, inatteso come solo negli autunni sul mare.
Ha trascorso la serata da Giacomo, compagno di classe, compagno di politica ai cortei contro il Movimento Sociale cui lo trascinava contro voglia e – qualche volta – pure compagno di spinelli. Nella sua stanza, sotto una foto di Che Guevara e una del centrocampista della Sampdoria Mario Frustalupi, hanno diviso una canna e parlato di scuola, ragazze, politica. Hanno cantato le parole in un inglese stentato mentre la radio trasmetteva Hey Jude dei Beatles ma – questo Ruggero non vorrebbe ammetterlo – si sono sgolati a ripetere il coro di Azzurro di Celentano.
Quando si è accorto di quanto poco mancasse a mezzanotte, Ruggero è balzato giù dal letto.
«Devo andare.»
«Già? Ma che c’è? Hai il coprifuoco?» gli ha chiesto ridacchiando l’amico, che di spinello se n’è fatto anche un secondo, da solo.
«No» ha risposto con la voce ruvida, «è che mi scoccia fare tardi, per mia madre.»
E ora eccolo lì, Ruggero, che rientra prima del coprifuoco che si è imposto da solo e trova quelle luci accese.
Pensa che sua madre dev’essere rimasta a casa, eppure l’ombra di un sospetto lo attraversa. Non perde tempo ad aspettare l’ascensore appena installato, un lusso insolito per il loro quartiere di periferia. Sale gli scalini a tre a tre e arriva al piano ansimando. Le mani faticano a trovare la chiave giusta e a infilarla nella toppa. Perde tempo.
«Mamma, sono a casa» dice entrando.
Nessuna risposta.
«Mamma» chiama, a voce più alta.
Si blocca, quando nella sala vede alcuni libri a terra, aperti sul pavimento. Si sbaglia o il cassettone è spostato di qualche centimetro dal muro contro cui è sistemato di solito?
«Mamma!» grida, correndo.
Poi sente il rumore d’acqua, che scorre dal rubinetto aperto.
«Mamma!» insiste e l’acqua viene richiusa, il cuore di Ruggero trabocca di sollievo.
Tracce di vita.
Cerca di calmare il respiro. Mette la mano sulla maniglia del bagno, ma si trattiene. Sua madre detesta le intrusioni nei suoi spazi, c’è il rischio che le prenda una crisi di panico. Bussa, quasi un pugno sulla porta.
«Mamma, che succede? Tutto a posto?» La voce che si sforza di essere calma.
«Sì, Ruggero, sì, va tutto bene. Vai a letto.» Eppure il tono dice il contrario. Sua madre cerca di far sparire il pianto dalla gola, ma non ci riesce.
Ruggero si guarda ancora indietro.
Quei libri a terra, quel mobile spostato come se qualcuno ci si fosse aggrappato.
Si affaccia in quella che, fino a pochi mesi prima, è stata la camera dei suoi genitori: cassetti aperti, vestiti gettati sul letto, in disordine.
Vestiti di sua madre.
E di suo padre.
Sente la gola che rimbomba, i sospetti che mutano in certezze.
Torna alla porta del bagno.
«Mamma, esci.»
«Ora non posso. Va’ a dormire, Ruggero. Devo fare la doccia, ci vediamo domani.»
La sente tirare su con il naso e la rabbia si abbatte su di lui come un fulmine che attraversa un gigantesco traliccio di ferro e scarica sull’erba, incenerendola. Gli viene da colpire la porta con tutta la sua forza, fino a che lei non aprirà, ma quando già le dita si stanno chiudendo, ferma lo slancio e batte tre volte sulla porta con il palmo della mano.
«Mamma, per favore, apri. Devo parlarti.»
«Vai in camera tua!» Ma più che un ordine sembra una preghiera.
La risposta di Ruggero, però, non ammette repliche.
«Mamma, se non mi apri, entro io.»
E, così, lei apre.
Ruggero grida: «No!».
«No!» gridò Ruggero e spalancò gli occhi, il respiro affannato.
Accese la luce e scattò giù dal letto, ansimando. Senza volerlo assunse una posizione di difesa, come se fantasmi famelici avessero potuto affrontarlo nel buio.
I polmoni cercarono aria.
Il panico, il panico, ancora una volta.
Ma non c’era nessuno, nel suo appartamento. Come vuota era la camera e vuota la porzione di letto, da oltre due anni.
Si lasciò cadere di nuovo sul materasso.
Fissò l’orologio sul comodino, le cifre digitali rosse indicavano le 23.41.
Era lì, nel suo appartamento, nel suo tempo, lontano secoli da quell’incubo che non esisteva solo nel mondo dei sogni, ma tracimava nella realtà. Quando faceva altri sogni, sogni che non riguardavano quella notte e suo padre, le immagini erano meno nitide, si attorcigliavano, si confondevano. In quell’incubo, invece, rivedeva tutto come di fronte a uno schermo ad alta definizione. Ancora e ancora, sempre lo stesso orribile film.
Nell’ultimo periodo il suo stato di ansia era peggiorato, l’incubo era diventato ossessivo, sempre più frequente. Una catena di “se” toglieva il respiro, dita sporche che chiudevano la presa intorno alla sua gola.
Se non fossi rimasto da Giacomo fino a tardi.
Se avessi ascoltato mia madre.
Se fossi andato a letto.
Se lui…
Se, se, se, se, se.
Quante strade può prendere la vita di un uomo?
A quanti bivi ci avviciniamo, senza saperlo?
A volte imbocchiamo sentieri che permettono di tornare indietro, di correggere la deviazione e prendere una strada differente. Ma esistono momenti precisi e fatali, in cui le vite delle persone imboccano una direzione che non può essere cambiata. Il sentiero è un bosco malefico che si chiude dietro i nostri passi e ci spinge solo avanti.
Qualcuno aveva la fortuna di non scoprire mai quali fossero, quei momenti fatali.
Ruggero, invece, lo sapeva bene.
E questa era la sua condanna
Giada Pastorino scriveva sulla pagina del diario, sotto la data di quella mattina senza fine.
5 marzo 2019.
Più che scrivere, in verità, Giada dava libero sfogo ai pensieri, con il solo scopo d’ingannare la breve ma insopportabile attesa.
“Ma chi è così stronzo da interrogare all’ultima mezz’ora dell’ultima ora?” scrisse sui quadrettini di quel giorno.
Il professor Guido Barone, per esempio.
Barone faceva scorrere lentamente la punta della penna lungo il registro. Teneva gli occhiali sulla punta del naso, come se faticasse a leggere, ma Giada era certa che il prof ci vedesse benissimo. Faceva tutto parte della recita: gli occhiali, il silenzio, il dito con la penna che scendeva e poi risaliva lungo la lista dei nomi degli studenti, il borbottare qualcosa tra sé. Ci godeva a farli soffrire.
“Per fortuna mi ha beccata la volta scorsa” pensò.
Giada aveva rimediato un 6,5 tiratissimo che aveva quasi sistemato la sua media zoppicante di storia. Arrancava in italiano e viaggiava sotto la sufficienza in latino e greco: non proprio il massimo, per una che aveva scelto il liceo classico. Invece se la cavava bene nelle materie scientifiche: per matematica e fisica le bastava ascoltare la lezione e poi si aiutav...