1
Elias
Dicono che il primo amore non si scorda mai: devo ammettere che è proprio così. Ho conosciuto la ragazza dei miei sogni quando giocavamo nelle case sugli alberi e mangiavamo torte piene di caramelle e marshmallow. Oggi, diciassette anni dopo, vedo ancora il suo bel sorriso in ogni cosa. Ma la vita di Bray è sempre stata complicata… Be’, anche la mia non scherza. Noi due ci somigliamo molto, ma siamo anche parecchio diversi.
Non ho mai pensato che una relazione con lei potesse funzionare, a parte il fatto di essere migliori amici con qualche “extra” ogni tanto. E nemmeno lei ci credeva. Per i primi tempi forse era così, ma alla fine abbiamo capito che ci sbagliavamo, e di grosso. A causa del nostro amore siamo arrivati a nasconderci nel retro di un negozio, con una squadra di poliziotti a circondare l’edificio.
Un momento, però, meglio cominciare dal principio.
4 luglio. Diciassette anni prima…
La cotta di un bambino di nove anni per una bimba di otto è quasi sempre una cosa innocente. E crudele. La prima volta che vidi Brayelle Bates correre verso di me sul prato vicino al laghetto del signor Parson decisi che sarebbe stata la mia vittima. Indossava un vestitino bianco senza maniche e ai piedi un paio di infradito con dei fiorellini di stoffa viola cuciti sopra. I lunghi capelli neri erano raccolti in due codini stretti da un nastro in tinta. Mi innamorai.
Okay, non è che mi innamorai davvero, ma la trovai senz’altro carina.
Ovviamente, cominciai subito a tormentarla. «Cos’hai sulla faccia?» le chiesi appena si avvicinò.
Lei si fermò, incrociò le braccia e mi guardò, piegando le labbra in una smorfia di disapprovazione. Io ero seduto sull’erba accanto a mia madre.
«Non ho niente sulla faccia» rispose con un sorrisino.
«Invece sì. È una cosa schifosa.»
Lei portò istintivamente la mano al viso e si toccò con la punta delle dita.
«Be’, cos’è?»
«Ce l’hai dappertutto. E fa schifo, te l’ho già detto.»
«È una bugia.»
«No, non è una bugia. Hai una faccia orribile. Forse dovresti andare dal dottore a farti vedere.»
Mi diede un calcio su un fianco.
«Ehi! Perché?» dissi, sfregandomi nel punto in cui mi aveva colpito.
Mia madre si girò verso di noi scuotendo la testa, poi tornò subito a parlare con la zia Janice.
Bray mi ringhiò contro: «Sei tu che fai schifo. La tua faccia sembra il culo del mio cane».
A queste parole, mia mamma si voltò di scatto. Ma guardò male me, come se avessi parlato io.
Bray se ne andò impettita, raggiungendo i suoi genitori che si erano già allontanati di diversi metri. La seguii con lo sguardo; il dolore che sentivo al fianco era lì a ricordarmi che se l’avessi fatta arrabbiare di nuovo sarebbe finita ancora peggio per me.
Naturalmente, non vedevo l’ora di ripetere l’esperienza.
Mentre gli abitanti di Athens, venuti ad assistere all’annuale spettacolo di fuochi d’artificio, cominciavano ad affollare il prato, osservai Bray che faceva la ruota sull’erba con un’amica. Di tanto in tanto mi lanciava un’occhiata, pavoneggiandosi e prendendomi in giro. In fin dei conti mi aveva sconfitto, era ovvio che ne fosse compiaciuta. Presto mi annoiai di stare seduto a far niente accanto a mia madre, soprattutto visto che Bray sembrava divertirsi un sacco.
«Dove vai, Elias?» mi chiese la mamma quando mi alzai.
«Lì» risposi, indicando Bray.
«Okay, ma resta nei paraggi, che voglio vederti.»
Sospirai. Mia mamma aveva sempre paura che mi rapissero, che mi perdessi, che mi facessi male, mi bagnassi, mi sporcassi… Insomma, che mi succedesse qualunque cosa.
«Va bene» ribattei, allontanandomi.
Mi feci largo tra le famiglie sulle sdraio o sulle coperte, con i frigo portatili pieni di birre e bibite, finché non mi trovai faccia a faccia con quella ragazzina aggressiva, di cui già non riuscivo più a fare a meno.
«Sarebbe meglio che non facessi la ruota quando porti un vestito. Lo sai, vero?» chiesi.
Bray spalancò la bocca. La sua amica Lissa, una bambina pallida con lunghi capelli biondi e ricci che veniva a scuola con me, mi sorrise. Forse le piacevo.
«Grazie del consiglio, ma sotto ho i pantaloncini» replicò. «E tu perché mi stavi guardando?»
«Non stavo guardando, stavo…»
Lei e Lissa scoppiarono a ridere.
Io diventai tutto rosso.
Bray era di Atlanta, si era trasferita solo da una settimana, ma si era ambientata in fretta. Era molto sicura di sé, una di quelle bambine cattive e carine che tutte le altre sapevano fosse meglio farsi amiche da subito, piuttosto che averle come nemiche. Non era una bulla, ma aveva l’atteggiamento di chi pretende rispetto.
«Andiamo a sederci in riva al laghetto?» domandai. «Il riflesso dei fuochi sull’acqua è molto bello.»
Bray scrollò le spalle. «Sì, okay.» Poi si alzò in piedi.
Lissa, invece, era graziosa, anche se a volte un po’ appiccicosa. Devo ammettere che ero stato io a mettere in giro la voce che era albina, per via dei capelli quasi bianchi e della pelle candida come un foglio di carta. In seguito me n’ero pentito: non mi aspettavo che tutti a scuola l’avrebbero presa in giro ogni santo giorno. E così, quando Bray ordinò a un gruppo di bambine di smetterla, fu naturale che Lissa le si attaccasse come il velcro.
Raggiungemmo il laghetto e restammo seduti lì tranquilli per un paio d’ore, come se io non avessi mai detto a Bray che era orribile e lei non mi avesse mai dato un calcio. Si unì a noi anche il mio amico Mitchell e ci stendemmo sull’erba a guardare i fuochi che esplodevano in un tripudio di colori nel cielo scuro e senza nuvole. Anche se c’erano Lissa e Mitchell, io e Bray ci comportammo come se fossimo soli: scambiavamo battute stupide, scherzavamo e ridevamo di chi era intorno a noi. Fu la serata più bella della mia vita, ed era solo l’inizio.
Poco dopo, quando lo spettacolo finì e il buio calò sul prato, le persone cominciarono a raccogliere le loro cose per tornare a casa.
Mia mamma mi trovò con Bray, Lissa e Mitchell. «Dobbiamo andare» disse, in piedi vicino a me.
Bray era sdraiata con la testa appoggiata nell’incavo della mia spalla. Io non ci avevo fatto caso più di tanto, ma mia mamma di sicuro. Notai nei suoi occhi una luce che non le avevo mai visto prima. Mi tirai su e mi girai verso di lei.
«Non posso restare un altro po’?»
«No, Elias. Domattina devo andare a lavorare. È già tardi.» Mi fece segno con la mano di alzarmi.
Obbedii, anche se controvoglia.
«Oh, per piacere signora Kline» intervenne Mitchell. Aveva un aspetto decisamente goffo, gli mancava un incisivo e i capelli gli sfioravano il colletto della polo. «Lo porto a casa io.»
Anche se Mitchell aveva un anno più di me, non avevo certo bisogno di essere riaccompagnato da lui. Questa cosa mi mandò fuori di testa, perché mi metteva in imbarazzo di fronte a Bray.
Incenerii Mitchell con un’occhiata e lui mi rispose con uno sguardo di scuse. «Ci vediamo, ragazzi» dissi.
Per aiutare mia madre presi io il frigorifero portatile e la seguii attraverso il prato fino al nostro pick up parcheggiato lungo la strada sterrata. Zia Janice ci salutò e salì sulla sua vecchia Chevrolet Corsica, un catorcio con la marmitta scoppiettante.
La mamma andò a dormire appena arrivammo a casa. Gestiva un albergo e aveva pochissimo tempo libero. I miei genitori avevano divorziato tre anni prima, e mio padre viveva a Savannah; io però ho sempre avuto un rapporto splendido con entrambi, e spesso trascorrevo le estati con lui. Quell’anno fu un’eccezione: papà era dovuto andare in Michigan per lavoro e io ero rimasto con la mamma tutta la stagione, per la prima volta da quando si erano separati.
Credo si possa chiamare destino: se mio padre non fosse andato in Michigan, Bray non sarebbe mai venuta a battere sul vetro della finestra della mia camera quella notte. Mi chiesi come avesse fatto a scoprire dove abitavo, ma immaginai che glielo avesse detto Mitchell, o Lissa.
«Dormi già?» mi domandò, incredula.
Spalancai la finestra e l’aria umida dell’estate entrò nella stanza. «No, non sto dormendo. E tu cosa fai lì fuori?»
«Vuoi venire a fare una nuotata?» disse con un sorrisetto furbo.
«Una nuotata?»
«Sì, una nuotata.» Incrociò le braccia e piegò la testa di lato. «O sei troppo fifone per scappare di casa?»
«Non ho paura.»
Onestamente, ho paura eccome. Se mia mamma mi scopre, mi schiaccia con lo schiacciamosche.
«Dài, allora, dimostramelo.»
Una sfida. Se mi fossi tirato indietro non me l’avrebbe fatta passare liscia. L’avrebbe raccontato a scuola e mi avrebbero preso in giro tutti, anche i miei amici. La città mi avrebbe considerato una femminuccia, sarei cresciuto solo ed emarginato e non avrei mai avuto una ragazza. Alla fine sarei diventato un barbone e da vecchio sarei morto sotto un ponte… Secondo mia madre era quello che mi sarebbe successo se avessi lasciato la scuola.
Okay, forse stavo un po’ esagerando.
Ci pensai su un momento, mordicchiandomi il labbro. Quando mi accorsi che Bray stava per aprire bocca di nuovo, buttai una gamba oltre il davanzale e saltai giù. Atterrai in una posizione plastica, di cui fui piuttosto orgoglioso.
Bray sorrise, mi prese per mano e mi trascinò con sé lontano da casa.
Devo confessare che, per tutto il tragitto verso il laghetto nel parco, non riuscii a pensare ad altro che allo schiacciamosche.
2
Elias
Bray era un vero spirito libero, sembrava non preoccuparsi di niente al mondo. Me ne accorsi nel momento esatto in cui cominciò a correre sul prato. Teneva le braccia alzate sopra la testa come se volesse toccare le stelle. La sua risata era contagiosa, e così presi a inseguirla e a ridere con lei. Ci tuffammo nel laghetto dal piccolo pontile traballante, senza nemmeno fermarci per toglierci le infradito e la maglietta.
Nuotammo un po’ e io cercavo di spruzzarle l’acqua in faccia ogni volta che potevo, fino a quando lei si stufò e raggiunse di nuovo il pontile.
«Hai mai baciato una ragazza?» mi chiese a un certo punto, cogliendomi di sorpresa.
La guardai nervoso; entrambi muovevamo i piedi avanti e indietro per stare a galla.
«No. E tu?»
Mi diede un colpetto con una spalla e cominciò a ridacchiare, poi mi scrutò con un’espressione disgustata.
«No! Non bacerei mai una ragazza. Questo sì che fa schifo.»
Risi anch’io, anche se non avevo capito subito la battuta: l’argomento “baci” mi aveva preso alla sprovvista. Ma feci finta di niente e mi comportai come se fossi solo un tipo un po’ strano.
«Non ho mai baciato un ragazzo» affermò.
Calò un silenzio imbarazzante. Ed ero sicuro che fosse soprattutto colpa mia. Deglutii la saliva e guardai la superficie calma del laghetto. Di tanto in tanto si sentiva ancora lo scoppio di un fuoco d’artificio da qualche parte in lontananza. Eravamo circondati dal canto dei grilli e dal gracidare delle rane.
Non sapendo che cosa dire – e non sapendo nemmeno se avrei dovuto –, alla fine aggiunsi: «Perché no?».
«Perché no, cosa?»
«Perché non hai mai baciato un ragazzo?»
«E tu, perché non hai mai baciato una ragazza?»
Scrollai le spalle. «Che ne so. Non l’ho mai fatto.»
«Be’, allora forse dovresti.»
«Perché?»
«Che ne so.»
Silenzio. Ci mettemmo entrambi a fissare l’acqua, tenendoci stretti con le mani al bordo del pontile. Il corpo incassato tra le spalle, muovevamo i piedi regolarmente creando delle poetiche increspature.
Mi piegai verso di lei e...