Ero a casa.
Mi sono svegliato due minuti dopo essermi addormentato, quando mi è arrivata la telefonata per dirmi di correre in ospedale.
Ho chiamato un taxi, sono uscito di corsa, sono salito e ho chiesto di portarmi con urgenza al Buzzi, erano le tre passate del mattino.
Il tassista mi ha chiesto: «Primo figlio?» e io ho risposto: «Perché, si vede?».
Forse il fatto che gli avessi chiesto tre volte se poteva andare più veloce o se poteva evitare di fermarsi al semaforo che tanto non c’era nessuno avrà destato qualche sospetto; o forse semplicemente che il Buzzi è un ospedale pediatrico.
Lì in ospedale ci eravamo arrivati il pomeriggio prima, in tram: io non ho la patente, chiaramente la mia ragazza non poteva guidare e non voleva salire su un taxi perché, come dice sempre sorridendo: «Non ci si può mai fidare dei tassisti, danno passaggi a chiunque ma poi si fanno pagare».
Saliti sul tram ci guardavano tutti, effettivamente la pancia era un bel po’ evidente, l’avevano fatta sedere subito e le avevano domandato come stava, fin quando il controllore non ci aveva chiesto i biglietti; e dopo avergli detto: «Ma perché, se non li avessimo lei ci farebbe davvero una multa?» lui aveva risposto: «Be’, no, effettivamente no, va bene così». Poi aveva domandato al ragazzo seduto di fianco di farci una foto con lui. «Perché una cosa del genere, in venticinque anni di lavoro, non mi era mica mai capitata di vederla, nè!»
In reparto, però, oltre la mezzanotte non mi facevano restare, neppure sul divano davanti alle camere, e quantunque avessi provato a nascondermi, mi avevano beccato subito; così, dopo una pizza al taglio, ero rientrato a casa, mi ero fatto una doccia, avevo passato il filo interdentale credo per il tempo più lungo di tutta la mia vita, avevo scritto nove messaggi alla mia povera ragazza che dolcemente mi aveva risposto, mi ero messo il pigiama (sì, io dormo con il pigiama e ne vado fiero) ed ero andato a letto, ma poi ero rimasto lì fermo, con gli occhi sbarrati, a fissare il soffitto senza riuscire ad addormentarmi, perché pensavo che sarei dovuto rimanere vestito, per non perdere nemmeno un secondo quando lei mi avrebbe chiamato per dirmi che era il momento. Quindi mi sono rivestito e mi sono sdraiato sul divano, perché non ho mai amato stare a letto vestito, ma nonostante tutto proprio non riuscivo a prendere sonno.
Quando è arrivata la telefonata erano circa le tre, anzi esattamente le tre e tredici minuti, e per la precisione un’ora e quarantasette minuti che mi rigiravo di continuo sul divano.
Diciassette minuti netti dopo (uno per la chiamata, sei di attesa, sette di taxi al netto del pagamento e tre per fare quattro piani di scale a piedi, perché anche il solo pensiero di fermarmi ad aspettare l’ascensore – fosse stato solo per un secondo – mi faceva impazzire) sono al fianco della mia ragazza che le asciugo il sudore, soffiandole sulla fronte in silenzio.
E seguendo uno dei consigli più preziosi che mi abbia dato mio padre: «Con una donna che urla devi fare solo due cose: annuire e tacere», ho appreso che un essere umano maschio che assiste a una nascita dovrebbe soltanto stare zitto e farsi stritolare la mano senza proferire parola alcuna. Di fronte alla meraviglia che sta accadendo, qualunque frase, qualunque azione, qualunque paragone non reggerebbe mai il confronto; e per quanto ogni uomo con un minimo di senno dovrebbe tenere bene a mente questa piccola regola, purtroppo non accade così, anzi spesso succede il contrario. Io ho sentito cose che voi umani non potreste immaginarvi: maschi alfa impegnati a filmarsi sorridenti a fianco di donne sofferenti, padri che chiedono se il neonato è milanista o interista… Uomini, insomma, incapaci di tacere e comprendere la loro assoluta inferiorità di fronte alla sublime bellezza della natura. Momenti che andranno perduti come lacrime nella pioggia. Ma ora è tempo di nascere.
Quindi la mia ragazza, seppur spezzata dal dolore, mi ha afferrato la testa, se l’è avvicinata, fronte contro fronte, mi ha guardato dritto negli occhi, rossa e urlante, e mi ha gridato in faccia, senza pietà: «Tagliati le palle o ti ammazzo» e io ho annuito in silenzio.
Tre ore e trentadue minuti dopo, il nostro fagiolino è venuto al mondo.
Sebbene stremata, mézza di sudore, coperta di pochi panni lerci, esausta e fradicia dopo un travaglio di ore, quella mattina guardandola mi è apparsa la ragazza più bella che ci fosse in giro. Poi, volgendo di poco lo sguardo, ecco l’altra creatura più bella del creato, solo un po’ più piccola, quasi da stare in una mano, e io in mezzo a loro, l’uomo più fortunato della terra tonda, folle e girante.
In un giorno di mezz’estate è arrivato, in anticipo, un bimbo bello, sano e di riso, moro come il babbo, bellissimo come la mamma – anche se assomigliava più a Mr. Magoo – nato presto al mattino per rendere migliore il prossimo giorno; pare avesse fretta di vivere e s’è lanciato di gran lena sulle lenzuola di questo mondo: aveva voglia di vedere il suo primo sole e per questo, il mio bimbo allegro, lo paragonerò per sempre a un giorno d’estate, che poi altro non è che un pensiero di libertà.
Che ti sia dolce il naufragar in questo mare, piccolo mio.
La tua mamma e il tuo babbo son qui per nuotar con te, perché non c’è niente di più bello che stare insieme.
E invece, tre giorni dopo, io ero lì, lontano dal mio piccolino, nel bagno di quell’ospedale così distante da lui, ancora una volta pieno di rancore, a consumarmi di rabbia, l’ennesima volta, per colpa sua.
E piangevo, piangevo, perché non sapevo trovare le parole, perché volevo essere dov’ero ma avrei voluto con tutto il mio cuore essere anche altrove, piangevo come un dannato, dannazione, di quei pianti inconsolabili e brutti, quelli con il singhiozzo e il moccio al naso.
Piangevo e non riuscivo a smettere.
E continuavo ad asciugarmi le lacrime, strofinandomi ossessivamente le mani sulla faccia e sugli occhi, guardandomi allo specchio, senza maglietta e senza valigia, fin quando a un tratto, voltandomi, non mi sono ritrovato davanti un signore un po’ anziano, un imbianchino credo, con pelle e vestiti sporchi di pittura, mani enormi segnate dai calli, dal lavoro e dalla vita, il viso disegnato dalle rughe, duro ma dolce. Mi ha messo una mano sulla spalla e, senza dire nemmeno una parola, mi ha stretto forte. Io l’ho abbracciato con tutto me stesso e lui ha continuato a tenermi stretto, poi ho appoggiato la testa sul suo petto e lui l’ha stretta fra le mani e mi ha detto soltanto: «Lo so…».
Poi l’abbraccio si è sciolto e c’era un po’ di imbarazzo nel guardarsi e trovarsi d’un tratto estranei.
Ha preso dalla tasca un fazzoletto di stoffa, bianco, immacolato, pulito, forse l’unica cosa senza vernice che avesse con sé, me lo ho passato sugli occhi e sulla faccia, mi ha asciugato le lacrime con una dolcezza e una paura di far troppo forte che raramente avevo trovato nella mia vita. Mi ha fatto una carezza: «Asciugati, non farti vedere così…», mi ha regalato il fazzoletto ed è andato via.
Mi sono rimesso i miei vestiti fradici, sono uscito dal bagno e mentre andavo verso la camera di mio padre mi sono voltato per ringraziare l’imbianchino benefattore, ma lui non c’era più. Ho provato a guardarmi intorno ma non sono riuscito a trovarlo da nessuna parte.
Non l’ho mai più rivisto e non saprò mai chi sia.
Potrei riconoscere però il suo volto fra mille altri volti.
L’estraneo che mi ha saputo amare come fosse mille persone.
La rabbia si è spenta, il rancore è appassito, mi sono asciugato la faccia ancora, piano ho indossato un sorriso, con coraggio, passo dopo passo, anche se mi tremavano le gambe, ho attraversato il corridoio, ho aperto la porta della stanza del mio papà e per un istante mi sono fermato lì davanti.
La piccolina piange.
Il suo fratellone, con piglio deciso, la guarda, anzi la scruta, come per comprenderne il motivo e cercare un rimedio per porre fine alle sue lacrime, poi si dirige con passo deciso verso la cameretta, prende la cassettina con i suoi attrezzi di gomma la porta con sé, la poggia per terra, la apre e, muovendo di continuo la testolina a destra e a sinistra, osserva prima la sorellina che piange fra le braccia della mamma e poi la sua cassettina degli attrezzi.
Prende un cacciavite, si avvicina, le dà un bacino e con il suo piccolo attrezzo di gomma cerca di ripararle il pianto.
Gli dico che è una bellissima idea, che è stato molto bravo, perché alle volte basta una parolina, un sorriso o uno scherzo per far passare la bua, per far sparire le lacrime, per asciugare il pianto: «Una volta il papà piangeva tanto perché era triste e un signore che non conoscevo, tutto sporco di pittura, mi ha abbracciato forte forte e mi è passato tutto».
«E chi era papà, quello siore?»
«Non lo so, alle volte è bello aiutarsi anche se non ci si conosce, anzi forse certe volte è anche più bello.»
«E chi era, papà, quello siore?»
«Non lo so, te l’ho già detto.»
«Ah» pausa, «e chi era, papà, quello siore?»
«Gino Bramieri.»
E per l’infallibile teoria secondo la quale se dai una riposta il più possibile precisa alle domande di un bambino piccolo, lui si tacerà: «Ah. E chi era Ginoalleli papà?».
Non ho mai saputo chi fosse “quello siore”, so soltanto che è, e rimane, la persona che mi ha dato più coraggio di uscire da quel bagno di chiunque altro al mondo (anche perché, in definitiva, in quel bagno eravamo solo noi due).
Non avevo ben chiaro cosa avrei detto a mio padre in quel momento, o meglio non sapevo quali parole avrei usato, sapevo soltanto che non vedevo l’ora di parlare con lui, perché c’era una cosa davvero molto, molto importante che avrei voluto dirgli, anche solo per non vivere poi con il rimpianto di non averlo mai fatto. Per un istante mi sono fermato davanti alla porta, l’ho aperta e quando ho sollevato lo sguardo ho visto mia madre e mio fratello fermi che mi fissavano senza dire una parola.
Mio padre non c’era più.
Scomparso.
Prima c’era e poi non c’era più.
Questione di istanti, o meglio, questione di bisogni fisiologici.
So che in tutto questo non c’è nulla da ridere (soprattutto in quel momento avevo voglia di fare qualunque cosa fuorché ridere), ma c’è un non so che di incredibilmente ironico ed esilarante nella storia di un uomo che attraversa di corsa tutta l’Italia soltanto per salutare un’ultima volta il suo babbo, lo fa correndo ogni dannato minuto di tutto quel suo viaggio, sbaglia ospedale, continua a correre e decide di fermarsi solo e soltanto quando finalmente è arrivato e va a pisciare perché tanto: «Tranquillo, è ancora lì che chiede di te».
D’altronde sono molte le vicende della mia vita che hanno avuto un risvolto chiaramente ironico, loro malgrado: forse per una mia propensione all’arte dello sberleffo, o forse perché sin da piccino in fondo ero destinato a far ridere gli altri, oppure magari semplicemente perché per natura leggo gli accadimenti della mia vita in questo modo. L’ironia è stata un tratto distintivo della mia esistenza da quando sono nato e probabilmente lo sarà sino alla mia scomparsa (o quantomeno vorrei fosse così), passando attraverso tutti gli incredibili accadimenti nel mezzo, fra i quali...