L'attimo prima
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L'attimo prima

  1. 272 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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L'attimo prima

Informazioni su questo libro

Cosa succede quando la vita che hai sempre sognato svanisce l'attimo prima di diventare realtà? Lorenzo è cresciuto a Messina, sotto il tavolo di legno del ristorante dei genitori. Desiderava una carriera da chef ma, all'improvviso, tutto è cambiato. Impantanato, sospeso e ancora immaturo, Lorenzo inizia a lavorare in un'agenzia di viaggi. Nel frattempo, mentre la neve scende sull'Etna, lui si rifugia in un cibo insipido e immagina le vite degli altri. Toccherà a sua sorella Elena stanarlo e praticare un kintsugi degli affetti, rimettendo insieme i cocci della sua esistenza. Il timore di dimenticare chi abbiamo amato non dev'essere una scusa per rinunciare a guardare l'orizzonte. Sperando che al momento giusto, al bivio cruciale, i leoni nel cuore ricomincino a ruggire. Francesco Musolino, attraverso i colori e i sapori della Sicilia, indaga con una prosa intima l'educazione all'età adulta. Quando restiamo immobili, indecisi se combattere, solo grazie a un autentico atto d'amore possiamo trovare il coraggio di crescere.

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2019
Print ISBN
9788817140942

1

Chiudete gli occhi. Lasciate andare la fantasia. Concentratevi sul silenzio e rilassate le spalle. Dimenticate le tensioni, ignorate le scadenze. Chiudete tutto fuori. Ecco. Adesso immaginate un posto. Un resort nella campagna toscana, una spa sulle Alpi, una spiaggia solitaria in Sardegna, una villa privata a Ibiza o magari, uno chalet a Courchevel. Ci siete?
Io sono l’uomo che può portarvi lì, lontano dalla ressa e dal casino, con l’agio di svegliarsi in una camera d’albergo a 6 stelle, fra soffici lenzuola pregiate e il soffuso richiamo della natura. Aprirete gli occhi, per un attimo sarete solo voi stessi. Vi piace l’idea? No, non sono un illusionista né un lobbista. Il mio profilo è molto meno ricercato. Mi chiamo Lorenzo, ho venticinque anni e lavoro in una agenzia di viaggi di Messina. Tutto qui. Eppure, anche se posso spedirvi ovunque desideriate, io non ho mai messo il naso fuori dalla mia terra, da quest’isola, la Sicilia. Curioso, non è vero?
Nonostante il web sia zeppo di siti e app che ci informano in tempo reale sulle offerte last minute, c’è ancora qualcuno che viene qui, richiede il posto corridoio o finestrino, immaginando itinerari, sindacando sul numero di stelle e sulla distanza dal centro dell’albergo prescelto. Evidentemente esiste ancora un lato umano. Cercate una persona seduta dall’altra parte della scrivania a cui confessare i vostri bisogni, mentre costruite la vostra vacanza tanto agognata. Lo facciamo insieme, con cura, selezioniamo le singole opzioni, valutiamo i pacchetti, benefit e sconti, dopo vi auguro buon viaggio e avanti il prossimo. Lo ammetto, anch’io sono sorpreso ogni singola volta che qualcuno si fa avanti, mi porge la mano, magari sorride e attacca con le richieste e un sogno da concretizzare. Sì, un minimo di contatto umano serve ancora.
Ogni giorno di questi ultimi mesi, l’ho trascorso su una poltrona ergonomica, davanti a un monitor da diciassette pollici piazzato sopra una scrivania bianca. Nel tavolo gemello di fronte, c’è Carla, una giovane donna, anche lei impiegata in questa agenzia viaggi, che offre un pacchetto molto particolare e discreto. Alle mie spalle, solo un muro immacolato su cui spicca un quadrato di vetro bordato di rosso. Sopra c’è scritto: IN CASO DI INCENDIO. Imponente, al centro della stanza, svetta un acquario da cinquecento litri con un arcobaleno di grossi pesci che non avevo mai visto prima, vispi e luminescenti Discus che sfilano via silenziosi, disegnando traiettorie sconosciute con sicurezza. Ai quattro angoli dell’ambiente, dei rigogliosi ficus e tutto il locale, compreso l’ufficio a vetri del proprietario in fondo, è illuminato da nudi tubi di neon che corrono lungo il perimetro, spandendo una luce neutra. Brutale.
Inalo aria condizionata e filtrata, espiro anidride carbonica. Come tutti. E proprio come tutti, anche io avevo in mente una vita diversa. L’ho sognata e tirata su un particolare alla volta, immaginandola e rifinendola sul soffitto della mia stanza, steso sul letto, rigorosamente a una piazza. Su quelle doghe, dietro quella porta chiusa ho appeso e staccato poster, ho sognato le prime ragazze, ho litigato al telefono, ho letto notti intere, pianto e fumato. Ho scopato, sono stato preso dai rimorsi e dai rimpianti, lasciando intere giornate scorrere via senza fare nulla. E quando quell’ammasso di speranze e progetti proiettati sul soffitto in 4K sembrava cosa fatta, ormai a un passo dalla sua inevitabile realizzazione, la mia vita perfetta e piena di aspettative è svanita. L’attimo prima di realizzarsi.

2

Adesso è un momento di calma. Capita spesso fra le mura dell’agenzia. Siamo in pausa pranzo, fuori si avvicina l’inverno e io ho ordinato la solita insalata dall’alimentari qui a fianco. Stavolta indivia e melograno. Indosso le cuffie wireless ma, anziché ascoltare musica, mi lascio prendere dai pensieri, dai ricordi che mi portano indietro nel tempo.
Sono cresciuto sotto il tavolo di legno della cucina nel ristorante di Leandro e Sara, i miei genitori. Si chiamava “La Bella Tavola”. Lo aprirono alla fine degli anni Settanta nel centro storico di Messina. A piedi saranno un paio di minuti da qui. In piena contestazione giovanile, appena ventenni, presero tre decisioni d’istinto: sposarsi, varcare lo Stretto di Messina e aprire quel locale. Un triplo salto nel vuoto. Scelsero di sgobbare dodici, quattordici ore al giorno per costruirsi un futuro. Per iniziare una nuova vita insieme. Entusiasti quanto inesperti, entrambi d’origini calabresi. Sposarsi e spingersi a sud, in Sicilia, attraversando quel braccio di mare, sfuggendo sia a Scilla sia a Cariddi, per loro era un passaggio obbligato. Avevano trovato la giusta distanza. I sogni dai rilievi indefiniti già prendevano i contorni della realtà.
Il ristorante era piccolo. L’ambiente principale era un’ampia stanza con cinque tavoli di legno quadrati presi da un rigattiere. Una sera, stava per chiudere bottega, si presentarono loro due. Lui alto e magro come una pertica, con i capelli biondi un po’ ricci e quel sorriso sornione. Lei con gli occhi grandi e i capelli lisci e lunghi fin sopra il sedere. Avevano la faccia buona, non ingenua. Gli fece un prezzo onesto. Non solo i tavoli ma anche robuste sedie in paglia, un servizio di piatti con posate annesse. Era bastata una stretta di mano, senza bisogno di tirare fuori banconote. La sera dopo consegnò tutto e ci mise dentro anche una bottiglia di rosso di casa. Cinque tavoli, venti coperti al massimo. Abbastanza perché il loro sogno potesse cominciare.
Adiacente alla sala c’era la cucina, il regno assoluto di mia madre, separata da una porta con due battenti e l’oblò. Accanto all’ingresso un armadio a muro di noce per appendere i cappotti e farli scomparire alla vista e, infine, un piccolo tavolino con sgabello. In teoria doveva essere la postazione di mio padre che, invece, preferiva stare in piedi in mezzo alla sala. Toccava a lui fare gli onori di casa. Cortese e curioso, si interessava a ogni cliente, attento a non essere invadente. Come avrebbe fatto uno zio di campagna. Estate o inverno che fosse, era sempre in camicia e giacca, sfoggiando il suo sorriso obliquo e una cadenza che ricordava vagamente Alberto Sordi. Eppure, lui a Roma c’era stato solo da piccolo a casa di zii lontani e dispersi nella memoria, di quelli che riemergono negli album, saltabeccando in qualche aneddoto curioso che ritorna in mente all’improvviso e poi torna giù, in fondo. Aveva trascorso quasi un anno lontano da scuola, compresa un’estate avventurosa a Fregene e la domenica andavano sempre a messa in centro, alla basilica di San Lorenzo in Lucina. Lorenzo. Arriva da lì il mio nome? E quel preciso timbro di voce di mio padre – un poco rauco e con un’ironia di fondo, una risacca lontana – si era formato in quei giorni fra supplì caldi, l’odore di cuoio dei sedili della Fiat 1100 dello zio e i castelli di sabbia? Chissà.
Una cosa è certa. La ricetta della vignarola l’ha raccontata a sua moglie che poi ovviamente c’ha messo del suo. Carciofi, cipolle, fave e piselli. Tutto dev’essere fresco altrimenti il miracolo non accade. Senza dimenticare il guanciale. E si può fare solo fra aprile e maggio. L’essenza suprema dell’effimero. Ma accanto a questa prelibatezza c’erano cose strane assai. La sua passione per i panini salame e mortadella, un bicchiere di latte freddo con una spruzzata di Coca-Cola e la devozione per il lardo. Da dove arrivano i nostri gusti, le nostre passioni, le nostre idiosincrasie persino? Si formano o giungono a noi passando attraverso il tempo, i cromosomi, le abitudini? Difficile a dirsi. E del resto quando chiedevi qualcosa a mio padre, decideva lui come doveva andare a finire. Sempre. Quante volte gli avrò chiesto il perché di quell’anno passato a Roma o perché avessero scelto di chiamarmi così? Lui tirava fuori uno sguardo di traverso e sorrideva a filo. E non c’era niente da capire. Se non voleva raccontarti qualcosa, se gli girava storto o se intendeva prendersi gioco di te, finiva tutto lì. Dei miei nonni ricordo poco o nulla invece, solo che a furia di rinunce avevano fatto studiare i figli, li avevano visti crescere, lasciare casa e prendere la propria strada. Ma quando Leandro e Sara abbandonarono le rispettive case, scelsero di diventare subito adulti, senza lacunosi stati intermedi, vie di mezzo o possibili ripensamenti. Fu una sorta di promozione sul campo che ribadivano in ogni piccolo gesto di intesa. Sin dal primo momento loro due formarono un cerchio perfetto. Ancor prima che aprissero bocca, bastava guardarli per rendersene conto.
Mi hanno raccontato le loro storie tante di quelle volte seduti a tavola, tuttavia s’inceppavano sempre su un passaggio. L’idea di aprire un ristorante tutto loro: da dove saltava fuori?
Negli anni trascorsi a scuola, sui banchi di ragioneria, mia madre non aveva mai sognato di possedere una trattoria. I genitori cercano sempre di proteggerci dalla vita. I suoi davano per scontato che avrebbe continuato gli studi e speravano che per farlo non dovesse allontanarsi. C’era sicuramente qualche studio di commercialista, magari un posto in un negozio che le sarebbe calzato a pennello. E così, dall’adolescenza alla pubertà, passando con diligenza per gli anni del liceo, il futuro per mia madre era solo un punto lontano, un verde bagliore all’orizzonte, ciò che le interessava era quella distanza, il tempo libero. Poter vivere l’attesa. Eppure, l’entusiasmo di mio padre in qualche modo era riuscito a contagiarla.
Il primo passo per la loro liberazione adulta passò attraverso lo scambio di un anello con promesse annesse e, subito dopo essersi sposati, Leandro e Sara presero i loro risparmi, si misero in macchina. Dalla Calabria fecero una lunga tappa a Orvieto, passando per le strade provinciali, dormendo in alberghetti e locande a gestione familiare, «quelle in cui il padrone ti porta le chiavi con una nappa e la tazzina del caffè, magari con un dito ficcato dentro». E da lì, con un guizzo di follia, sino in Normandia, a Deauville, dove scoprirono le ostriche con una solenne, leggendaria abbuffata. Racconto dopo racconto, anno dopo anno, la trama della storia si è slegata, sono scomparsi particolari di colore ma soprattutto è emerso che non si trattava di un delizioso oyster-bar, piuttosto poco più di un locale sul porto. Ma l’ultima parte di quella storia non cambiava mai: il proprietario era un paesano, un calabrese originario di Catona che alla fine del pranzo, in segno di rispetto gli offrì il caffè in cucina, fra i fornelli e i ripiani ingombri di molluschi freschi e «quel fortissimo odore salmastro che ti entrava dentro la testa e ti faceva sbandare». Finché al momento di salutarli, nello slancio dell’affetto, gli donò Le Répertoire de la Cuisine. Era il libro dei libri nelle cucine francesi con migliaia di ricette scritto in modo spiccio, senza alcuna immagine, con la copertina già rovinata, crepata dall’uso. Una sorta di passaggio di consegne. Accompagnato da una ciotola per il burro e un panno di mussola, per mantenerlo al fresco. E proprio quel termine, al fresco, avrebbe dato vita a una diatriba infinita fra Leandro e Sara. Era lei la regina assoluta della cucina a La Bella Tavola, lei che provava continuamente nuove ricette, riuscendo non si sa come a cucinare a istinto, partendo dall’olfatto, pescando nella memoria della famiglia. Tutti i suoi piatti erano tracce, incontri di pietanze lette in qualche libro, assaggiate in altri luoghi, partendo sempre dalla memoria. Ogni piatto che cucinava era fedele solo a lei che non aveva fatto alcuna scuola di cucina, era stata una studentessa diligente e non aveva mai fatto casini. Ma non appena incontrò Leandro, l’idea di aprire il ristorante – mettersi dietro i fornelli, stando appresso alla clientela, andando a comprare la roba fresca al mercato e rinunciando in partenza a una vita e a degli orari normali – sbocciò in modo spontaneo, come se ci avesse pensato per anni, mentre cucinava al fianco di sua madre, prima di poterlo affermare ad alta voce.
E che dire di mio padre. Che ne sapeva lui di cibo e cucina? Che becco poteva mettere in questioni di economato quotidiano e burocrazia? Forse allora quando tirarono su la saracinesca per la prima volta, in quel palazzotto nel centro storico di Messina, era davvero tutto più semplice? Forse era la voglia di fare o l’amore che li legava? Forse. Tant’è che andò così. Non ci furono grandi rivoluzioni in quella cucina, mia madre gestiva il suo reame, mio padre la parte della sala. Se può essere arduo ricostruire l’esegesi delle loro scelte, ciò che è certo è che quando aprirono La Bella Tavola, era sempre Sara la prima ad alzarsi al mattino, non c’era tempo d’annoiarsi. Lì dentro servivano piatti siciliani e calabresi con qualche variante libertina dalla tradizione casalinga. Le specialità, scritte in una piccola e traballante lavagna posta davanti all’entrata, erano poche, semplici, rigorosamente di stagione. Su questo mia madre non transigeva. Del resto, era lei a fare la spesa al mercato, zigzagando fra i banchi, scambiandosi dritte, suggerimenti e battute con i vari venditori. Le uova fresche non bastavano mai, il pesce immerso nel ghiaccio tritato con gli occhi spalancati e vitrei le faceva sempre senso e talvolta, vedendola assorta a contemplare delle zucchine o delle patate ancora sporche di terra, qualcuno tentava di appiopparle delle arance un po’ troppo lucide, coltivate chissà dove. O magari fragole e melanzane a dicembre. Era tutta colpa di quella cascata di lisci capelli neri? Del suo modo di porsi leggero, quasi sfrontato? Così, ogni volta che andava a fare provviste al mercato, prima che nascesse una sincera fiducia con alcuni fornitori che in futuro le avrebbero messo da parte ciò che le serviva, rientrava furente, ripetendo a fior di labbra una battuta di troppo che le avevano rifilato. E le guance erano rosse per l’orgoglio ferito. Ma forse si arrabbiava ancor di più per via di quei clienti che avevano paura di cambiare, che esigevano ricette perfette, in fotocopia, «come quella dell’altra sera, proprio come quella» le dicevano. E insistevano. Come se potessero impedirle di metterci un pizzico di origano, della salvia fresca, un formaggio diverso o dello yogurt. Chiaramente non la conoscevano affatto. Lei diceva sì sì ma poi faceva di testa sua. Cucinava usando solo il palato e il buon senso. «Le dosi le faccio a occhio» diceva alle clienti. Non si tirava mai indietro, usciva dalla cucina e chiacchierava ma nessuno tornava a casa con un foglietto con appuntate le dosi precise, men che meno i tempi di cottura. A occhio, diceva lei. Non era strategia né un modo di atteggiarsi, quella era la sua filosofia ai fornelli.
Il risultato era un menu che oscillava su una decina di piatti a stagione e ogni tanto c’era spazio per qualche colpo a sorpresa. Che non sempre riusciva a dovere. Il tortino di alici con pomodorini, pan grattato, succo di limone e capperi divenne rapidamente un punto di forza, lo spezzatino con tocchetti di manzo e patate novelle era il piatto delle nostre grandi occasioni; assaggiavano ogni cosa insieme prima di decidere. Una sera, lei mise in tavola un polpo lesso con i piselli. Leandro lo assaggiò, dopo poggiò le posate e scostò il piatto, dicendole: «Buono. Non lo fare più». E litigavano sempre sul sale. Se una pietanza per Leandro era sapida, per Sara ovviamente era scipita. Del resto, mentre il menu era di competenza di mia madre, è stato lui a esigere il pane sciocco, cocciutamente imposto in ogni cestino sul desco, omaggiando in tal modo le sue lontane, remote, remotissime ma fiere, origini umbre alle quali doveva anche il suo stesso nome. Così, mi raccontarono tante sere a cena, che un giorno, all’improvviso, tirò fuori da un cassetto della sua testa la granitica certezza che quel pane senza sale si sarebbe sposato a meraviglia con i ricchi sughi serviti da Sara. Del resto da La Bella Tavola si andava per la parmigiana di melanzane con l’uovo sodo, la pasta al forno e il pesce spada alla brace con il pinzimonio a parte. Era una cucina di casa, di quelle che saziano, portano il buonumore e ti spingono sin sotto le coperte al calduccio, altroché passeggiata salutare. E il pane sciocco, che dopo un primo assaggio incuriosito lasciava tutti perplessi, finiva sempre per avvizzire nei cestini. E un’altra fissazione era il burro. Il paesano a Deauville diceva che andava tenuto al fresco e mio padre lo aveva eletto immediatamente massima autorità, tanto che voleva il burro sul ripiano di marmo, vicino ai fornelli, morbido e pronto all’uso. Mia madre, invece, lo voleva sì al fresco, rigorosamente in frigo. Del resto nelle sue ricette quel grasso animale figurava poco, giusto nei dolci e qualche ricciolo nel ragù di carne della domenica per farlo più chiaro e denso. Il risultato era che ogni volta che Leandro tornava in cucina, a colpo sicuro, apriva il frigo, tirava fuori la ciotola, la stessa donatagli in viaggio di nozze, e la metteva sul piano. Mia madre faceva finta di nulla ma non appena lui tornava in sala, la rimetteva in frigo. Oplà. Una coppia normale sarebbe arrivata alle urla. Per loro due erano le mosse e le contromosse di un gioco. E questo lo vidi con i miei occhi per anni.
Il panno di mussola, invece, non ho mai capito che fine avesse fatto. Probabilmente mia madre lo lasciò scivolare al vento dal finestrino, sulla via di ritorno per casa. Sì, dovevano amarsi parecchio per sopportare le loro piccole manie. Avevano intenzione di mettere su famiglia e si tennero uno spazio per gli affetti fuori da quelle pareti odorose di cibo, tinte ora giallo paglierino, ora turchese, in base al via vai delle stagioni. O almeno ci provarono. Nei loro piani, forse, sarebbe dovuta andare diversamente, invece sia io sia mia sorella Elena, più piccola di un anno appena, crescemmo proprio nel ristorante. Mia madre resistette ben poco lontano dai fornelli, appena un mese per ciascuna gravidanza mentre mio padre fremeva in casa, macinando le sue Dunhill dal pacco oro e bordeaux, con lo sguardo sull’orizzonte, verso lo Stretto, pensando chissà cosa. Stare con le mani in mano non era da lui. Forse immaginava lo scorrere delle vite altrui che andavano avanti mentre la saracinesca del loro ristorante rimaneva abbassata.
Io ed Elena siamo cresciuti dentro la pancia di quel loro sogno divenuto realtà, sotto il tavolo di legno, proprio al centro della cucina. Lì sotto facevamo i compiti e ci rifugiavamo nella fantasia. Accovacciato, seduto sulle piastrelle, quella era la prospettiva attraverso la quale guardavo il mondo intorno. Confini ristretti che ricalcavano il perimetro dei fornelli. Giocavamo a nasconderci, ad acchiapparella e a turno, facevamo finta di essere clienti eleganti e molto dispettosi inventando piatti assurdi. Oggi forse starebbero bene in un menu fusion. La sera, per potergli stare ancora fra i piedi in cucina, non dovevamo fare casino e quando eravamo stremati, dormivamo in un lettino da campo. Era sfondato ma aveva la forma dei nostri corpi. Ci spingevamo sino all’oblò, muovendoci piano come statue, ci affacciavamo in punta di piedi sulla sala, finché un cliente – o peggio, papà – si accorgeva di noi che scappavamo indietro, frenetici e spaventati, di corsa sotto il tavolo di legno, fra i mestoli rotti, i quaderni dei compiti e le mie figurine Panini. Era bello poter stare lì con loro. Il massimo erano quelle mattine di festa in cui non dovevamo andare a scuola e rimanevamo nel ristorante immersi in un silenzio fatto di ovatta. Più tardi sarebbero venuti i clienti e i loro desideri, sarebbero stati al centro di tutto ma quelle mattine di festa, lunghe e collose come un impasto non lievitato, erano solo e soltanto nostre. Mi bastava allungare una mano per sfiorare le gambe lucide di sudore di mia madre mentre tirava la pasta, i suoi gesti vigorosi, cadenzati da esili lamenti producevano nuvole di farina che piombavano giù a sbuffi. Lì sotto, aspettavo il momento buono per alzare la mano e rubare, lesto, la pastosità di un tortello ripieno di ricotta, uno spaghetto lungo lungo, un maccheroncino ancora umido che si scioglieva in bocca, liberando sulla lingua uovo, farina e amore. Ecco di cos’era fatto ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L’attimo prima
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
  11. 8
  12. 9
  13. 10
  14. 11
  15. 12
  16. 13
  17. 14
  18. 15
  19. 16
  20. 17
  21. 18
  22. 19
  23. 20
  24. 21
  25. 22
  26. Post scriptum
  27. E infine, grazie
  28. Copyright