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«Più forte! Oh, Dio, più forte!»
Riley Moore sorrise afferrando le caviglie sottili appoggiate sulle sue spalle. «Dio non c’entra.» Aumentò il ritmo come gli aveva chiesto, deciso e potente. «Qui ci sono solo io.»
Ne aveva proprio bisogno.
«Oh, sì! Dammelo!»
I suoi capelli si allargarono sul cuscino come un enorme lago nero quando inarcò la schiena e si strinse attorno a lui, talmente bagnata che, dopo altre tre vigorose spinte, lui venne con un sonoro grugnito. Si lasciò cadere su di lei, ansimando senza fiato contro il suo collo sudato.
«Cazzo, Moore» esclamò lei facendo scivolare le gambe sul letto. Si posò una mano tra i seni e scosse la testa. «Devi chiamarmi più spesso, tesoro.» Gli diede qualche colpetto sulla nuca.
«Vale anche per te» replicò lui, sollevando il capo e spostandosi accanto a lei.
Si sfilò il preservativo e lo lanciò nella spazzatura prima di allungare un asciugamano alla donna ansante sdraiata sulle lenzuola. La osservò mentre si asciugava il corpo, dal viso fino in mezzo alle cosce. Carla era molto attraente ed era bravissima nel sesso orale, ma la loro relazione non si spingeva oltre. Era basata sul sesso, durava da mesi e andava bene così a entrambi.
Riley sorrise mentre faceva pipì, avvolto nell’abbraccio tiepido dell’appagamento postcoitale. Tirò l’acqua, si lavò le mani e tornò, completamente nudo, in camera sua. Annuì in segno di apprezzamento notando che Carla si stava rivestendo e stava allacciando il reggiseno: la totale assenza di ostacoli emotivi tra loro gli dava un piacere smisurato. Lei si abbottonò la camicetta bianca e controllò il trucco usando uno specchietto da borsa, toccando i segni rossi che i baffi ruvidi di Riley le avevano lasciato sul collo.
Gli lanciò un’occhiata di rimprovero, e lui rispose scrollando le spalle. Le piaceva, come piaceva a tutte le donne che finivano nel suo letto. Alcune addirittura glielo chiedevano, e Riley le accontentava senza nemmeno pensarci. Era terribilmente erotico vedere le tracce della lussuria sulle proprie amanti.
Raccolse i jeans vicino alla porta, nel punto in cui Carla glieli aveva tolti, e li indossò senza chiuderli. Dopo essersi sistemata i capelli mentre gli passava accanto, lei afferrò la borsa sul comodino, estrasse il cellulare e premette alcuni tasti, accigliata.
«Devo andare» disse, gettando il telefono nelle profondità della borsa. «Il lavoro mi reclama.»
Riley annuì di nuovo, fissandole le gambe avvolte dalla gonna al ginocchio. Wow, aveva delle gambe fantastiche. Il resto dei vestiti era una noiosa mise da ufficio. Si chiese per un istante quanti altri uomini avessero conosciuto la donna senza freni che si nascondeva sotto l’abbigliamento poco appariscente. Chi avrebbe mai immaginato che una commercialista potesse farti divertire così tanto? Carla si voltò verso di lui, appoggiato al muro alle sue spalle, e gli fece scorrere l’indice tra i pettorali ancora sudati.
«Grazie ancora, splendore» disse con voce suadente prima di baciarlo all’angolo della bocca. «È stato il miglior pranzo degli ultimi tempi. Sono sicura che ci rivedremo presto.»
«Lo credo anch’io» ribatté lui facendole l’occhiolino.
Carla sorrise e, dopo un’ultima ravviata ai capelli, uscì. Riley ridacchiò tra sé prima di tornare in bagno per togliersi di dosso l’odore di sesso che impregnava ogni centimetro della sua pelle.
Mezz’ora più tardi era di nuovo all’O’Hare Body Shop, sdraiato sotto una fantastica Ford Galaxie del 1965, godendosi i Guns N’ Roses a tutto volume e l’appagamento che provava quando era al lavoro. Adorava mettere le mani sulle auto che entravano nell’officina, gli era piaciuto fin dal giorno in cui, a dieci anni, suo padre lo aveva messo di fronte al suo primo motore. Aveva imparato ogni cosa sulle macchine proprio da lui, che si guadagnava da vivere comprando modelli storici da sistemare e rivendere. Riley era l’unico, dei quattro figli di Park Moore, che avesse mostrato interesse per l’attività di famiglia, e così il padre si era impegnato – pagandogli anche gli studi in Economia alla New York University – a formarlo.
Ma i suoi sforzi non erano serviti a granché.
Riley sospirò e afferrò una chiave a bussola, determinato a impedire che l’inesistente rapporto con il padre gli rovinasse l’umore. E poi, in fondo, poteva dare la colpa solo alla sua stupidità : l’accusa di possesso di merce rubata e una condanna a diciotto mesi nel penitenziario Arthur Kill avevano ucciso le speranze che Park nutriva per il futuro professionale del figlio. La sua fedina penale non si sarebbe certo cancellata da sola.
«Ehi, Moore, sei lì sotto?»
Riley sorrise al suono della voce inquieta di Max O’Hare. «Sì, che ti serve?»
Un paio di stivali comparvero sul lato della macchina da cui spuntavano le caviglie di Riley. «Devi aiutarmi a rivedere delle fatture. Altri cinque minuti e mi si incrociano gli occhi, cazzo.»
Lui rise e si fermò, quindi puntò i piedi per spingere il carrello e riemergere. Battendo le palpebre per la luce troppo forte, scrutò Max: sembrava esausto.
«Non sono bravo con la matematica» si lamentò, agitando dei documenti sotto il naso di Riley. «Mi aiuti?»
Riley sbuffò e si rialzò, togliendo i fogli dalle mani dell’amico. «Certo.»
Max aveva ereditato l’officina dopo la morte del padre. Per un po’ di tempo era riuscito a gestire gli affari, ma un anno e mezzo prima era finito in un centro di disintossicazione a causa delle sue dipendenze. Era stata durissima. Riley però, mentre Max si rimetteva in sesto, aveva preso in mano la situazione e aveva fatto in modo che tutto filasse liscio, anche grazie all’aiuto economico del loro amico Carter.
Riley conosceva Max da quasi dieci anni, e stargli vicino gli era sembrato il minimo. Dopo la disintossicazione, i due avevano deciso di unire le loro conoscenze sugli affari e sui motori e di entrare in società , finanziati da Carter. Prima di finire in prigione, due anni dopo la laurea alla NYU, Riley era stato titolare di una piccola ma fiorente officina all’altro capo della città . Dopo il soggiorno all’Arthur Kill aveva perso un bel po’ di clienti, e alla fine si era ritrovato costretto a chiudere e a vendere l’attività . Con i soldi ricavati aveva acquistato l’appartamento in cui viveva e saldato i numerosi debiti, tra cui quello con il padre, che aveva sborsato centomila dollari per il college. Per Riley era stato difficile rinunciare alla sua officina, ma non aveva avuto scelta.
Non vedeva l’ora di rientrare nel giro, e mettersi in affari con Max era la soluzione perfetta.
Anche l’amico la pensava così; tuttavia, adesso che si divideva tra New York e il West Virginia, aveva scaricato gran parte delle responsabilità burocratiche su Riley, che era felice di farsene carico. La gente spesso lo considerava un donnaiolo tatuato e tutto muscoli: non che fosse falso, certo; al di là delle apparenze, però, era sveglio, e l’unica cosa che amava più delle ragazze e dei motori erano i numeri.
«Sei pronto per stasera?» chiese a Max mentre varcavano la soglia dell’ufficio.
«Per il paintball?» ribatté lui chiudendosi la porta alle spalle. «Bello, sono nato pronto.» Si scrocchiò le dita. «Preparati, perché ti farò il culo.»
Riley rise e sprofondò nella poltrona dietro la grande scrivania di legno. «Sai che mio fratello verrà con tre vecchi amici dei Marine, vero? Non dovrai pensare solo al mio culo.»
Max liquidò quelle parole con un gesto della mano. «Sì, sì. Basta che non mirino ai miei gioielli…»
Riley inarcò un sopracciglio. «Sono Marine. Puntano sempre e solo alle palle.»
Scoppiarono a ridere entrambi. Riley era quasi commosso nel vedere l’amico tanto rilassato e sereno. Non era stato sempre così: Max faticava giorno dopo giorno per restare pulito e sobrio, ma era stata Grace, la sua ragazza, a ridargli la speranza. E non avrebbe potuto essere più contento per loro: aveva sempre pensato che, tra i suoi amici, Max fosse quello che più di tutti meritava di raggiungere la serenità .
L’anno precedente aveva portato un sacco di cambiamenti nel gruppo di amici di Riley. Carter era sposato da quasi dodici mesi e, se si escludevano alcuni momenti difficili all’inizio del matrimonio, sembrava più innamorato che mai. Poi c’era Max con la sua felicità ritrovata e i ragazzi dell’officina, che parlavano in continuazione di mogli e figli.
Riley immaginava che fosse la normalità , quando un uomo e il suo gruppo di amici arrivavano alla trentina: la musica cambiava e la gente cresceva. Ma non era sicuro che a lui sarebbe successo, a prescindere dall’età . Tuttavia, per quanto si gettasse nel lavoro o chiamasse le solite ragazze quando gli andava, nel corso dell’ultimo anno si era chiesto sempre più spesso come sarebbe stato sistemarsi.
I suoi genitori erano sposati da più di trentacinque anni e avevano quattro figli, quindi l’idea di impegnarsi con qualcuno non lo spaventava. Anzi, in realtà ci aveva pensato per la prima volta quando aveva otto anni…
«Allora, che ne dici?»
Riley alzò lo sguardo e vide che Max, seduto di fronte a lui, fissava con ansia le fatture che anche lui stava osservando, ma senza prestare attenzione. Non aveva la più pallida idea di cosa ci fosse scritto. Si passò una mano sul mento coperto di barba e sorrise. «Va tutto bene. Non ti preoccupare.»
Max strinse gli occhi. «Sei sicuro?» Si appoggiò contro lo schienale. «Sei sicuro che sia tutto a posto?»
Riley conosceva quel tono, ogni tanto Max lo usava per punzecchiarlo. Era colpa sua: un po’ di tempo prima, quando Max soffriva per Grace, aveva fatto uno stupido commento sul perdere la donna che si ama o qualche stronzata del genere, e l’amico, chissà perché, non aveva intenzione di lasciar perdere.
Max era preoccupato, d’accordo, però Riley non aveva voglia di parlare del proprio passato, anche se il sogno della notte precedente – che rievocava, con un’innocenza deliziosa, la prima volta in cui l’aveva vista, con i codini biondi e i vestiti rosa – gli ronzava ancora in testa. Era strano. Non faceva quel sogno da un bel po’, e questo l’aveva spinto a chiamare Carla per una sveltina in pausa pranzo, una cura passeggera per il rimpianto che lo accompagnava.
Si schiarì la voce mentre le immagini di quella bella ragazzina bionda danzavano sopra le cifre stampate sui fogli che aveva tra le mani, risvegliando ricordi che stava tentando di tenere a bada con tutte le sue forze.
Lexie.
No, si rimproverò tra sé, quello era il passato. E non si poteva cambiare in alcun modo, per quanto lo desiderasse intensamente.
«Va tutto benissimo» replicò, sparpagliando le fatture sulla scrivania.
Riley non era un bugiardo; aveva detto la verità : le cose andavano a meraviglia. Lavorava sodo, aveva amici fantastici e donne pronte a scaldargli il letto ogni volta che lo voleva, e in più viveva nella città che amava. Che motivo aveva di essere triste?
«Smettila di pensarci» aggiunse, lo sguardo ancora fisso sulle ricevute. «Sento da qui il rumore del tuo cervello che lavora.»
Max sbuffò e incrociò le braccia. «Come vuoi. Tieni pure i tuoi segreti.»
Riley gli lanciò un’occhiata. «Lo farò» ribatté prima di tornare a studiare i documenti.
«Sei rientrato tardi dalla pausa pranzo» buttò lì Max come se niente fosse, provando un’altra tattica. «Chi era la fortunata?»
Riley scoppiò a ridere e scosse la testa. «Cosa ti fa pensare che c’entri una donna?»
«Il fatto che tu sia una specie di Obi-Wan Kenobi con le ragazze.»
«Ehi» lo rimproverò Riley con un’espressione severa. «Sono Ian Solo.»
«Sì, come ti pare. Allora, chi era?»
Riley sospirò, rassegnato: conosceva troppo bene l’amico per sperare che lasciasse perdere. «Carla.»
Max spalancò gli occhi. «Quella con le gambe da urlo? La commercialista?»
Riley si grattò la nuca con una penna trovata sulla scrivania. «Proprio lei.»
L’altro tornò ad appoggiarsi allo schienale. «Niente male. Sexy.»
Non c’era dubbio che lo fosse. Ed era anche un’ottima amante. Ma, per quanto si fosse divertito con lei, la leggera tensione alle spalle che lo accompagnava da quando si era svegliato dal sogno non accennava ad andarsene. Girava e rideva, una girandola di colori, capelli biondi e lucenti. Al ricordo dei sandali rosa che Lexie aveva indossato per tutta quell’estate, Riley sentì un accenno di sorriso spuntargli sulle labbra. Oddio. Si massaggiò la fronte. Avevano otto anni, e ignoravano ciò che la vita aveva in serbo per loro.
Non era triste?
Riley non sapeva nemmeno dove vivesse o se fosse ancora nel Michigan, il luogo in cui si erano conosciuti. L’ultima volta l’aveva vista lì, quando era tornato per festeggiare il trentesimo anniversario di nozze dei genitori, cinque anni prima. Rientrato a New York, rispettando la richiesta di Lexie di stare alla larga e di non rivolgerle mai più la parola, era arrivato a torchiare gli amici per ottenere qualche informazione su di lei, ma la situazione non era durata a lungo. Da quando Riley l’aveva abbandonata in lacrime sul portico della casa di sua madre, non aveva il diritto di pensare a Lexie Pierce o di preoccuparsi per lei.
Aveva tagliato i ponti, e ormai era impossibile ricostruirli. Erano state dette e fatte troppe cose. Aveva rovinato tutto un sacco di volte, aveva preso le decisioni sbagliate e ferito le persone cui teneva di più.
E poi, rifletté Riley con una risata amara, concentrandosi sui numeri che aveva di fronte, solo in quelle stupide commedie rosa che guardava sua madre gli uomini alla fine riuscivano a conquistare la donna di cui erano innamorati da ventun anni.
«Porca puttana, mi hai rotto una costola!» Carter sollevò la maglietta per l’ennesima volta, mostrando il livido scuro e rotondo che si stava allargando sotto il capezzolo sinistro. «Lo vedi cosa mi hanno fatto?» chiese alla cameriera che versava acqua ghiacciata nel bicchiere di Tate, il fratello di Riley. Lei fece una risatina e scosse la testa prima di allontanarsi dal tavolo.
Il livido era il risultato di uno dei colpi sparati da Riley durante la partita a paintball. Era stata una scena fantastica, con quel salto in aria alla Will Smith in Bad Boys, e Carter si lamentava ormai da quasi tre ore. Doveva fargli davvero male, ma Riley non smetteva di ridere.
«Smettila di piagnucolare» commentò Tate, seduto accanto a lui. Ridacchiò e allungò una gomitata al suo amico dei Marine, Steve. «Altrimenti ci preoccupiamo.»
«Fottiti» borbottò Carter, sistemandosi la T-shirt e raddrizzandosi sulla sedia.
Dal tavolo del ristorante si levò un coro di fischi e Carter si protese di nuovo per vendicarsi su Riley con un pugno.
«Ehi, ho dei lividi anch’io!» protestò lui, schivando il colpo. «Grazie a questo idiota.» Picchiò le nocche contro il bicipite di Tate.
«Prendilo come un ringraziamento.» Il fratello sorrise e scrollò le spalle.
«Per cosa?»
«Perché ti sopporto.»
«Ah, fantastico.» Riley sbuffò e bevve un sorso di birra. «Sei davvero premuroso. Già che ...