Nell’estate del 1940, avevo diciannove anni ed ero una zucca vuota, i miei genitori mi mandarono a vivere dalla zia Peg, direttrice di una compagnia teatrale a New York.
Ero da poco stata espulsa dal Vassar College, visto che per tutto il primo anno non avevo frequentato una sola lezione e mi ero fatta bocciare a tutti gli esami. Ero meno stupida di quanto i miei risultati scolastici suggerissero, ma a quanto pare non conta se non apri mai un libro. Se ci ripenso, non riesco a ricordare di preciso come impiegavo il tempo che avrei dovuto passare a lezione, tuttavia conoscendomi immagino lunghe ore davanti allo specchio. (Ricordo che stavo cercando di perfezionare il «victory roll» quell’anno, un’acconciatura che, per quanto fondamentale per me e anche piuttosto impegnativa, non era proprio nello «stile Vassar».)
Non avevo mai trovato il mio posto al college, anche se le alternative erano parecchie. Ragazze e cricche di ogni genere, ma nessuna che sollecitava la mia curiosità o in cui riuscivo a identificarmi. C’erano le politicamente impegnate, con i loro austeri pantaloni neri, sempre intente a sbandierare le loro opinioni a proposito dei fermenti internazionali; fermenti internazionali che però a me non interessavano. (È ancora così. Tuttavia presi nota dei pantaloni neri, che trovavo deliziosamente chic, a patto che le tasche non fossero gonfie.) E poi le audaci pioniere accademiche, destinate a diventare dottoresse o avvocatesse ben prima che le donne si affermassero in simili carriere. Avrei dovuto trovarle interessanti, invece niente. (Tanto per cominciare, non riuscivo a distinguerle, infagottate com’erano nelle stesse gonne di lana informi che parevano riprese da vecchi maglioni. Già solo vederle mi buttava giù.)
Non che il Vassar fosse del tutto privo di glamour. C’erano anche alcune diafane medieviste dall’aria romantica e sognanti occhi da cerbiatte piuttosto carine; o creative con inclinazioni artistiche, riconoscibili dai capelli lunghi lasciati provocatoriamente sciolti; ed ereditiere di razza con profili da levrieri italiani – non allacciai rapporti con nessuna di loro, però. Forse perché intuivo che tutte, in quella scuola, erano più intelligenti di me. (Non si trattava soltanto di una paranoia adolescenziale, rimango convinta che lo erano davvero.)
A essere sincera, non capivo proprio cosa ci facessi al college, salvo realizzare un destino che nessuno si era preso la briga di spiegarmi. Fin da piccola mi avevano ripetuto che avrei frequentato il Vassar, senza però dirmi perché. A quale scopo? Che cosa me ne veniva, di preciso? Per quale motivo dovevo condividere la stanzetta squallida di un dormitorio con una seriosa aspirante alla riforma sociale?
E comunque a quel punto ne avevo già abbastanza di studiare. Non era stato sufficiente il liceo femminile Emma Willard di Troy, Stato di New York, con il suo brillante corpo docente di sole donne, tutte sfornate da un’università della Ivy League? Avevo vissuto in collegio dai dodici anni, e forse sentivo di aver fatto il mio dovere. Quanti altri libri bisognava aprire per dimostrare che sì, sapevo leggere? Chi fosse Carlo Magno me l’avevano già insegnato, perciò era ora di lasciarmi in pace, per come la vedevo io.
In più, dopo non molto dall’inizio del mio fallimentare anno al Vassar, a Poughkeepsie avevo scovato un baretto che offriva birra economica e jazz dal vivo fino a notte fonda. Avevo escogitato il modo per svignarmela dal campus (il mio ingegnoso piano di fuga includeva una finestra senza serratura nel bagno e una bicicletta nascosta – ero la condanna della custode del dormitorio), per cui al mattino, con i postumi della sbornia, le declinazioni latine mi risultavano alquanto ostiche.
Per non parlare degli altri ostacoli.
Tutte quelle sigarette che dovevano essere fumate, per esempio.
In breve, ero oberata.
Perciò, su un totale di trecentosessantadue promettenti giovani matricole del Vassar College, alla fine dell’anno mi ritrovai trecentosessantunesima in classifica, notizia che suscitò il commento inorridito di mio padre: «Buon Dio, cosa diamine ha combinato l’ultima?». (Aveva contratto la polio, poverina, si seppe poi.) Così, e a buon diritto, il Vassar mi rispedì a casa chiedendo gentilmente che non tornassi.
Mia madre non sapeva come fare con me. Non eravamo mai state granché in confidenza nemmeno nei periodi migliori. Lei era una fanatica dell’equitazione, e poiché io non ero né un cavallo né un’appassionata di cavalli non avevamo molto di cui parlare. E adesso il mio fiasco l’aveva umiliata al punto da renderle quasi intollerabile la mia presenza. Diversamente da me, lei si era fatta onore al Vassar, per la cronaca. (Anno accademico 1915. Storia e francese.) L’ottimo ricordo che aveva lasciato di sé – insieme alle sue generose donazioni annuali – mi avevano garantito un posto in quell’illustre istituzione, ed ecco com’era finita. Ogni volta che ci incrociavamo per casa mi rivolgeva appena un cenno della testa, una specie di diplomatico insomma. Educata ma gelida.
Neanche mio padre sapeva come fare con me, ma lui era impegnato a gestire la sua miniera di ematite, perciò non perdeva troppo tempo a preoccuparsi di sua figlia. L’avevo deluso, certo, ma aveva problemi più seri. In quanto industriale e isolazionista, l’escalation della guerra in Europa rappresentava una minaccia incombente per i suoi affari. Suppongo fosse questo a distrarlo.
Quanto a mio fratello maggiore, Walter, stava già facendo grandi cose a Princeton, e non mi filava proprio, salvo per disapprovare il mio comportamento da irresponsabile. Walter non aveva mai fatto niente di irresponsabile in vita sua. Già in collegio era così rispettato che i compagni lo avevano soprannominato – giuro – «l’Ambasciatore». A Princeton stava studiando ingegneria perché la sua ambizione era costruire infrastrutture per aiutare la gente in ogni parte del mondo. (Per contro, al catalogo dei miei peccati si può aggiungere che non ero neanche troppo sicura di cosa volesse dire «infrastruttura».) Malgrado Walter e io fossimo quasi coetanei – appena due anni di differenza – avevamo smesso di essere compagni di giochi sin da bambini. Intorno ai nove anni lui aveva messo da parte i balocchi, e me con loro. Non facevo parte della sua vita, e ne ero consapevole.
Anche le mie amiche mi avevano lasciata indietro. Erano avviate all’università, al mondo del lavoro, al matrimonio, alla vita adulta, tutte cose che a me suscitavano indifferenza o perplessità. Dunque non c’era nessuno a occuparsi di me o a intrattenermi. Ero annoiata e apatica. Il tedio mi azzannava simile ai morsi della fame. Passai le prime due settimane di giugno tirando una pallina da tennis contro la parete del garage e fischiettando Little brown bug senza sosta, finché i miei genitori, esasperati, mi spedirono a New York dalla zia. Voglio dire, come dargli torto?
Certo, avranno temuto che la metropoli potesse trasformarmi in una comunista o una tossica, ma sempre meglio che sentirmi lanciare una pallina sul muro per il resto dei giorni.
Così sono approdata a New York, Angela, dove è cominciato tutto.
Mi misero su un treno per New York, e che treno! Era magnifico. L’Empire State Express, in partenza da Utica. Luccicante e cromato sistema di consegna di figlie degeneri. Mi accomiatai da mamma e papà e, con una certa aria d’importanza, affidai il mio bagaglio a un facchino. Poi presi posto nella carrozza ristorante, dove restai per l’intero viaggio a sorbire frappè al malto, mangiare pere sciroppate, fumare sigarette e sfogliare riviste. Stavo andando in esilio ma… con stile!
I treni allora erano davvero fantastici, Angela.
Prometto che cercherò di non insistere troppo su quanto tutto fosse migliore ai miei tempi. Fin da ragazza ho sempre detestato i vecchi nostalgici. (A nessuno importa! Nessuno è interessato ai tuoi tempi d’oro, vecchio caprone!) E voglio rassicurarti: so bene che molte cose non erano migliori negli anni Quaranta. I deodoranti e i condizionatori d’aria erano indegni, per dirne una, e quindi la gente puzzava da morire, specialmente d’estate, e poi c’era Hitler. I treni però erano indubbiamente migliori. Quand’è stata l’ultima volta che ti sei goduta un frappè al malto e una sigaretta su una carrozza ristorante?
Quel giorno indossavo un vivace abitino di rayon azzurro con una stampa di rondini, lo scollo rifinito da un ricamo giallo, la gonna appena svasata con profondi tasconi sui fianchi. Ne conservo un ricordo tanto nitido innanzitutto perché non dimentico mai un abito, in nessuna circostanza, e poi perché me l’ero cucito da sola. E avevo fatto un buon lavoro, anche. L’oscillare della gonna, giusto a metà polpaccio, era malizioso ed efficace. Ricordo di averci anche cucito delle doppie spalline, nel disperato tentativo di somigliare a Joan Crawford, ma dubito che fosse quello l’effetto. Con una sobria cloche in testa e una borsetta blu tinta unita «presa in prestito» da mia madre (zeppa di cosmetici, sigarette e poco altro) a completare l’insieme, avevo poco della vamp del grande schermo e molto della diciannovenne vergine in visita ai parenti, esattamente ciò che ero in realtà.
Ad accompagnare la suddetta diciannovenne vergine a New York erano due grosse valigie, una stipata di abiti, tutti ripiegati con cura nella carta velina, l’altra di scampoli, guarnizioni e accessori da cucito per confezionarne di nuovi. In aggiunta, dentro una robusta cassa di legno, c’era la mia macchina da cucire, un bestione abnorme e ingombrante, molto scomodo da trasportare. Ma era la mia bellissima, spiritata anima gemella, e senza di lei non potevo vivere.
Perciò eccola lì imballata.
Quella macchina da cucire – e tutto ciò che avrebbe portato nella mia vita – la dovevo a nonna Morris, che quindi merita una piccola presentazione.
Forse, Angela, la parola «nonna» avrà evocato nella tua mente l’immagine di una dolce vecchietta dai capelli bianchi. Niente a che vedere con lei. Nonna Morris era un’attempata coquette, alta, appassionata, con i capelli color mogano, che attraversava la vita avvolta in una nuvola di profumo e pettegolezzi e si vestiva come un circo ambulante.
Era la donna più variopinta del mondo, in tutti i sensi. Indossava lunghi abiti di velluto froissé dai colori ricercati – sfumature che lei non chiamava rosa, o borgogna, o blu, come tutti gli altri privi di immaginazione, ma «rosa cenere», «cordovano» e «della Robbia». Aveva i buchi alle orecchie, ai tempi non ancora diffusi tra le signore rispettabili, e possedeva un’infinità di sfarzosi portagioie traboccanti di collane, orecchini, bracciali, di valore o semplice bigiotteria. Per le escursioni pomeridiane in campagna indossava la mise da automobilista e i suoi cappelli erano talmente ingombranti da richiedere una poltrona a parte a teatro. Le piacevano i gattini e ordinare i cosmetici per corrispondenza; i resoconti di delitti sensazionali sui tabloid la elettrizzavano; e aveva fama di poetessa romantica. Ma più di ogni altra cosa mia nonna amava il teatro. Era una presenza fissa a ogni pièce e tournée di passaggio in città, e andava matta per il cinema. Spesso ero io a farle da cavaliere, dato che avevamo gli stessi identici gusti. (Entrambe eravamo affascinate dalle storie di ingenue fanciulle in abiti vaporosi rapite da torvi uomini con cappelli sinistri e poi salvate da tizi con menti virili.)
Ovviamente la adoravo.
Non era lo stesso per il resto della famiglia. Tranne me, tutti si vergognavano di lei. Soprattutto sua nuora (mia madre), l’antitesi stessa della frivolezza, che non smise mai di scandalizzarsi per la sua eccentricità e in un’occasione la definì «l’eterna adolescente svenevole».
Mia madre, inutile dirlo, non aveva mai scritto un verso romantico in vita sua.
Fu nonna Morris a insegnarmi a cucire.
Lei era una sarta esperta. (Aveva imparato da sua nonna, che nell’arco di una sola generazione era riuscita a elevarsi da domestica immigrata dal Galles a facoltosa signora americana, soprattutto per merito della sua abilità con l’ago.) Mia nonna voleva che anch’io diventassi una sarta esperta. Perciò, quando non mangiavamo toffee in un cinema o rabbrividivamo leggendoci a vicenda articoli sulla tratta delle bianche, nonna Morris e io cucivamo. E si faceva sul serio. La nonna non aveva scrupoli a esigere l’eccellenza. Cuciva dieci punti su un orlo e poi mi lasciava i dieci successivi, e se i miei non erano altrettanto perfetti disfaceva tutto e mi costringeva a rifarli. Mi insegnò a lavorare tessuti impossibili come il filet e il merletto, finché neanche i più riottosi poterono più scoraggiarmi. E poi la confezione! L’imbottitura! Il taglio! A dodici anni ero in grado di realizzare un corsetto (con tanto di stecche di balena) in quattro e quattr’otto, anche se dal 1910 circa nessuno li portava più, tranne lei.
Era una maestra severa, eppure io mi piegavo volentieri alla sua autorità. Le sue critiche colpivano senza ferire, ed ero abbastanza affascinata dagli abiti da essere impaziente di imparare, consapevole che il suo unico scopo era valorizzare il mio talento.
Le lodi da parte sua erano rare, ma mi mettevano le ali alle dita. Insomma, divenni abile.
A tredici anni nonna Morris mi regalò la macchina da cucire che un giorno mi avrebbe accompagnata sul treno per New York. Era un’elegante Singer 201 nera dalla potenza micidiale (cuciva il cuoio; sarei riuscita a imbottire una Bugatti con quell’arnese!). A tutt’oggi non ho mai ricevuto un regalo più bello. La portai con me in collegio, dove mi conferì un ascendente enorme su quella comunità di ragazzine privilegiate, desiderose di vestire bene ma incapaci di arrangiarsi da sole. Appena a scuola si sparse la voce che sapevo cucire qualsiasi cosa – la sacrosanta verità – le allieve della Emma Willard presero a bussare alla mia porta per implorarmi di allargare un girovita, rammendare un orlo, riadattare alla loro misura e alla moda del momento un abito da sera della sorella maggiore. Passai quegli anni china sulla mia Singer come un artigliere sulla sua mitragliatrice, e ne valse la pena. La mia abilità di sarta mi aveva resa popolare, e la popolarità è l’unica cosa che conta, a scuola. Anzi, ovunque.
E veniamo al secondo motivo per cui la nonna mi aveva insegnato a cucire, ossia le proporzioni anomale del mio fisico. Fin dalla prima infanzia ero sempre stata troppo alta, dinoccolata addirittura. L’adolescenza passò e io continuai a crescere. Per anni rimasi piatta come una tavola, con un busto che non finiva mai, e braccia e gambe lunghe e sottili come rami di salice. Nessun abito confezionato mi stava mai bene, perciò tanto valeva cucirmeli da sola. E nonna Morris, che Dio la benedica, mi insegnò a modellarli sulla mia figura, a valorizzare l’alta statura anziché assomigliare a un trampoliere.
Se hai l’impressione che mi stia lamentando del mio aspetto, non è così, Angela. Mi limito a riferire il dato di fatto: ero alta e magra, tutto qui. Magari pensi che stia per raccontarti la favola del brutto anatroccolo che arriva in città e si trasforma in cigno, niente paura, non è la mia storia.
Io sono sempre stata bella, Angela.
E non solo, l’ho sempre saputo.
Senz’altro fu a causa della mia bellezza che l’aitante sconosciuto sul vagone ristorante dell’Empire State Express continuava a fissarmi mentre sorbivo il mio frappè al malto e mangiavo le mie pere sciroppate.
Alla fine prese coraggio, si avvicinò e si offrì di accendermi una sigaretta. Io accettai, lui sedette di fronte a me e cominciò a corteggiarmi. Le sue attenzioni mi lusingavano, ma io non ero capace di flirtare, così reagii alle sue avance girandomi verso il finestrino, con lo sguardo perso nel vuoto e un’aria meditabonda. Tenevo la fronte lievemente aggrottata, sperando di apparire profonda e tormentata, ma con ogni probabilità sembravo solo miope e goffa.
La situazione sarebbe stata persino più imbarazzante ...