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Wesley Carter non aveva mai creduto al destino. Anzi, non aveva mai creduto in nulla. Nemmeno in se stesso.
Se un anno e mezzo prima, dentro la sua cella del penitenziario Arthur Kill, gli avessero chiesto dove avrebbe immaginato di trovarsi in futuro, la sua risposta sarebbe stata una cinica risata. Allora vagava senza meta, passava da un casino all’altro e la sua vita non aveva né capo né coda. Era un ribelle, e felice di esserlo.
Finché lei non l’aveva ritrovato.
Sdraiato sul pavimento del salotto della casa sulla spiaggia, fece un respiro profondo; il profumo di pino e cannella misto all’odore del sesso lo avvolgevano come una coperta calda.
Inconsapevole dei pensieri di Carter, Kat sospirò appagata contro la sua spalla, la gamba nuda appoggiata poco sotto l’ombelico e stretta intorno alla vita, il piede che gli premeva delicatamente contro il sedere.
Lui le accarezzava la tempia, i capelli e la schiena umida. Girò la testa e con un sorriso le baciò la fronte bagnata di sudore strofinando il naso sulla sua pelle. Assaporò quel momento: era impossibile essere più felici di così. La sua Peaches in quella casa era un sogno.
Le dita di lei gli danzavano tra i peli radi del petto e gli strapparono un sospiro soddisfatto. Carter aprì gli occhi poco alla volta e osservò il diamante che le aveva regalato brillare alle luci dell’albero di Natale sotto cui avevano fatto l’amore. Le prese la mano, se la avvicinò alle labbra e baciò l’anello.
«È perfetto» sussurrò lei, con la voce ancora roca per le grida di piacere che lui le aveva strappato poco prima.
«Tu sei perfetta» le disse lui e la baciò. Non c’era nient’altro da aggiungere.
Lei lo tirò a sé e i loro corpi rotolarono finché Carter non fu di nuovo tra le sue cosce. Sorrise vedendo che aveva ancora una gamba dei pantaloni impigliata alla caviglia e che era sdraiata sopra la camicetta di seta che nella foga le aveva strappato. Gliene avrebbe comprata una nuova. Chi se ne frega di queste cose quando l’amore della tua vita ha appena accettato di sposarti?
Colto per un istante dal dubbio, si allontanò dalla sua bocca famelica, passandole il dorso della mano sulla guancia rossa. «Eri sincera?» le chiese serio, guardandola negli occhi. «Davvero vuoi sposarmi?»
Le labbra di Kat si aprirono in un sorriso. «Sì, con tutto il cuore.» Alzò la testa e lo baciò. «Ti amo.»
«Dio» sussurrò Carter, affondandole il viso nel collo e godendosi le scintille di piacere e di passione che Peaches riusciva ad accendergli in tutto il corpo. Agitò i fianchi, spinto dal desiderio, un desiderio per lei che avrebbe provato per sempre. «Amore…» Le leccò il collo e le bloccò le mani sul pavimento. «Lo senti che effetto mi fanno le tue parole?»
Lei inarcò la schiena e rispose con un gemito.
«Ti voglio ancora» disse Carter.
Il sospiro di Kat fu la splendida conferma di cui lui aveva bisogno. E affondò nel suo corpo accogliente.
Dire che il giorno successivo Carter entrò saltellando alla WCS Communications sarebbe riduttivo: camminava a tre metri da terra, letteralmente. Salutò il personale con un «Buongiorno!» entusiasta, suscitando sguardi perplessi in quelli che, negli ultimi tredici mesi, da quando era amministratore delegato, lo conoscevano soltanto come un taciturno e spaventoso ex detenuto.
Ma a lui non importava. Quel giorno nessuno avrebbe potuto rovinare la sua felicità.
«Caffè, signor Carter?» gli chiese Martha, la segretaria, con un sorriso.
«Lo sai cosa mi piace» rispose lui facendole l’occhiolino. Entrò in ufficio e appoggiò il casco sulla scrivania. Si tolse il giubbotto di pelle e lo sostituì con la giacca a doppio petto di Tom Ford appesa dietro alla porta, poi guardò fuori: era fortunato ad avere una vista così bella dal suo ufficio.
Mancavano soltanto tre giorni a Natale, e a New York era una frizzante giornata di sole. Non era caduta tanta neve per il momento, però ne era prevista molta per i giorni successivi. Ma se anche il tempaccio l’avesse costretto a chiudersi in casa con la sua fidanzata tra Natale e Capodanno non si sarebbe certo lamentato.
Fidanzata… Bastava la parola a fargli venir voglia di coccole.
«Posso sapere che cos’è successo per farti sorridere così?»
Ben Thomas risvegliò Carter dai suoi sogni a occhi aperti. Si girò a guardare il nuovo rappresentante legale della società, e provò a soffocare l’irresistibile desiderio di correre per tutto l’ufficio a gridare la novità, di urlare fuori dalla finestra, di telefonare al «New York Times».
Ben alzò un sopracciglio, diffidente. «Okaaay» disse, chiudendosi la porta alle spalle. «Pensavo che volessi sapere l’ultima: Austin Ford ha aperto una società di consulenza a Chicago.»
«Chicago…» ripeté Carter accigliato.
«Almeno così pare. Non so bene che genere di consulenza, o se è un eufemismo per qualche losco affare, comunque vedrò di scoprire qualcosa di più. Adam non sembra saperne granché.»
Carter si sedette e con un cenno invitò Ben ad accomodarsi. «Devo preoccuparmi?»
Austin, suo cugino, era un viscido bastardo ma, con grande sorpresa di tutti, da un po’ si teneva lontano dagli affari. Dai brandelli di informazioni che Carter aveva carpito da Adam, il fratello di Austin, era stato occupato a spendere i suoi soldi e a viaggiare per il mondo. A Carter andava benissimo. Non aveva nessun problema finché se ne stava alla larga da lui e dalla sua futura moglie.
Ben scosse la testa. «Tranquillo, non preoccuparti. Non si avvicinerà né a te, né a Kat, né alla WCS. Non può farlo. Però lo terrò d’occhio. Lui e le persone che frequenta.»
«Grazie.»
Ben era stato fondamentale durante il tentativo di Carter di riprendersi l’azienda di famiglia da Austin. Era determinato, leale, e anche Kat si fidava di lui. Carter non ci aveva impiegato molto a capire che sarebbe stato un acquisto inestimabile per la WCS. Gli aveva offerto una cifra spropositata per invogliarlo a lasciare il suo precedente lavoro, ma ne era valsa la pena. Oltre a essere eccezionale nel suo campo, negli ultimi mesi erano anche diventati ottimi amici. Ed era quasi tutto merito della sua Peaches.
«Mi tieni aggiornato?» gli chiese Carter togliendosi i bikers.
«Certo» rispose Ben con un sorriso, mentre lo osservava sfilarsi i pantaloni di pelle – sotto ne indossava un altro paio di tessuto grigio. Al posto dei bikers mise un paio di rispettabili mocassini Dior neri lucidi che prese da sotto la scrivania.
«Non ci credo che Kat ti permetta di venire in ufficio in moto» disse Ben ridacchiando. «Lo sai che abbiamo l’autista, se vuoi.»
Carter sbuffò e rispose: «Primo, sono padrone di me stesso e so decidere da solo. Kat non mi “permette” di fare proprio nulla». Si interruppe per poi riprendere. «Basta che glielo chieda con gentilezza.» Ben rise con aria d’intesa. «Secondo, la mia moto si chiama Kala. E la macchina ve la potete infilare tu sai dove. A me piace viaggiare con stile. E poi, le ragazze vanno matte per la pelle.»
«Non hai tutti i torti. Ah, i documenti per l’officina di O’Hare sono pronti.»
«Con tutte le clausole che ho chiesto?»
«Tutte. Max resterà il titolare e gli sarà versato un contributo mensile, così come ai dipendenti. Gli ultimi debiti sono stati cancellati, e adesso l’officina è di nuovo in attivo.»
Carter provò un intenso sollievo, ma non riuscì comunque a sorridere. «Ottimo. Max non deve avere seccature mentre… si riprende.»
«Sono d’accordo» disse Ben. «L’hai sentito ultimamente?»
Carter si appoggiò allo schienale della poltrona e guardò fuori dalla finestra. «Ieri.»
Ben preferì non insistere e Carter gliene fu grato. Era stata dura sentire Max, il suo migliore amico, così distante, così stanco. Era in clinica da poco più di tre settimane, e per i primi quindici giorni non aveva potuto comunicare con l’esterno. Per quanto Carter avesse cercato di nasconderlo, era preoccupato da morire per lui, controllava in continuazione il cellulare per paura che lo chiamassero per dirgli che era scappato, che aveva dato di matto, o peggio.
La prima telefonata che aveva ricevuto da lui non aveva certo placato la sua ansia: Max stava malissimo e soffriva di una depressione così profonda che Carter non riusciva nemmeno a pensare a che cosa sarebbe successo se non lo avesse convinto a farsi ricoverare. In vent’anni non lo aveva mai visto così disperato, ed era spaventoso.
Aveva iniziato subito una terapia di recupero e, da quel poco che sapeva Carter, sembrava funzionare. Almeno un po’. Ma la strada era ancora lunga, e lui avrebbe accompagnato Max passo dopo passo. Aveva dovuto convincerlo con la forza, ma ormai erano passati giorni e poi settimane senza che Max tentasse la «Grande Fuga».
Carter si chiese come avrebbe reagito il suo migliore amico alla notizia del fidanzamento con Kat: voleva che quel figlio di buona donna gli facesse da testimone, ma Max ne sarebbe stato felice? Dopo la storia con Lizzie, era impossibile prevederlo.
In quel momento, gli bastò il ricordo dello sguardo luminoso di Kat quando le aveva chiesto di sposarlo e del suo sì convinto per fargli provare di nuovo dentro di sé quel calore, come un abbraccio. Con una risata che sorprese sia lui sia B...