
- 240 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Mio fratello si chiama Jessica
Informazioni su questo libro
Cosa faresti se un giorno tuo fratello maggiore, il tuo idolo, la tua roccia, annunciasse di non chiamarsi più Jason ma Jessica? Di essere una ragazza e di essersi sempre sentita tale? È quello che succede a Sam, tredici anni, proprio quando l'adolescenza comincia a bussare alla porta, tra nuove amicizie e possibili amori. Il mondo per Sam si capovolge di colpo: non solo il fratello non è più lo stesso, quel fratello così popolare con le ragazze e così bravo a calcio, ma neanche i suoi genitori sono le persone aperte e tolleranti che lui ha sempre creduto di conoscere. Un romanzo di grande forza, che con empatia ma anche leggerezza e ironia racconta la difficoltà e l'importanza di accettare l'altro, sempre.
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Informazioni
Print ISBN
9788817141567eBook ISBN
97888586983341
Un pomeriggio stranissimo
C’è una storia che ho sentito un milione di volte su come mio fratello Jason si è fatto la cicatrice che gli corre proprio sopra l’occhio sinistro, quasi parallela al sopracciglio. Quando sono nato, Jason aveva quattro anni e fin da quando riusciva a ricordare avrebbe voluto un fratello, una sorella o un cane, ma mamma e papà gli avevano sempre detto di no.
«Un figlio basta e avanza» insisteva papà. «Il pianeta è già sovrappopolato così com’è. Ma lo sai che nella via qui accanto vive una famiglia che ha sette figli sotto i sei anni?»
«Com’è possibile?» gli chiedeva mio fratello Jason, che sarà pure stato un bambino, ma una qualche idea di come andasse il mondo ce l’aveva già.
«Due coppie di gemelli» rispondeva papà con una risata.
«E i cani bisogna portarli fuori di continuo» aggiungeva mamma. «Non dire che lo faresti tu, perché tanto lo sappiamo che adesso lo dici, ma alla fine la fatica dovremmo farla soprattutto io o tuo padre.»
«Ma…»
«Per non parlare della confusione che portano» diceva mio padre.
«Chi?» domandava mio fratello Jason. «I cani o i fratelli?»
«Tutti e due.»
Mamma e papà erano sempre stati così determinati sul fatto che non ci sarebbero state altre aggiunte alla nostra famiglia che per Jason deve essere stato quasi uno shock, quando un giorno gli hanno detto di sedersi e gli hanno annunciato che avrebbe ottenuto quello che desiderava e che nel giro di sei mesi ci sarebbe stato un nuovo bambino per casa. Pare che per l’emozione sia corso fuori in giardino e si sia messo a correre in cerchio per venti minuti urlando come un matto, fino a che non gli sono venute le vertigini, è caduto e ha sbattuto la testa contro un nano da giardino.
Ma non è così che si è fatto la cicatrice.
Quando sono nato è subito sorto un problema. Avevo un buco nel cuore e i dottori non pensavano che sarei sopravvissuto molto a lungo. Era grande quanto una punta di spillo ma, se sei un neonato e il tuo cuore è grande quanto una nocciolina, un buco così può essere pericoloso. Sono rimasto nell’incubatrice per qualche giorno prima che mi portassero in sala operatoria, dove una squadra di chirurghi ha cercato di aggiustarmi. Mio fratello Jason era a casa con la ragazza alla pari di quel periodo e per l’apprensione ha iniziato a piangere tanto che è caduto dalla sedia e ha sbattuto la testa contro un tavolino da caffè.
Ma non è nemmeno così che si è fatto la cicatrice.
I medici hanno comunicato ai miei genitori che la settimana dopo l’operazione sarebbe stata la più critica. I miei genitori, però, hanno sempre avuto lavori molto importanti – mamma adesso è un ministro, mentre allora era solo un semplice membro del Gabinetto, e papà è sempre stato il suo segretario personale –, e non potevano restare con me in ospedale per tutto il tempo, quindi hanno stabilito dei turni. Mamma veniva la mattina, quando la Camera non era in sessione, ma succedeva sempre che la richiamavano per qualche riunione; papà, invece, arrivava nel pomeriggio, ma preferiva non fermarsi troppo a lungo, per paura che ci fossero “sviluppi”, come li chiamava lui, tali da costringerlo a tornare a Westminster in tutta fretta. La sera dopo la mia operazione mio fratello è venuto in ospedale per conoscermi e anche se aveva solo quattro anni, si è rifiutato di tornare a casa e ha fatto un tale casino che alla fine le infermiere hanno sistemato un lettino accanto all’incubatrice e gli hanno permesso di restare.
«Può darsi che il neonato avverta la presenza di qualcuno che veglia su di lui» ha detto l’infermiera. «Male di certo non può fargli.»
«E almeno sappiamo che qui è al sicuro» ha detto mamma.
«E in più, non dovremo pagare lo straordinario alla ragazza alla pari» ha aggiunto papà.
Qualche notte dopo, però, una delle macchine che mi mantenevano in vita si è messa a suonare e Jason si è talmente spaventato che si è precipitato giù dal lettino in cerca di un dottore ma, nel buio della stanza, è inciampato sul filo di una cosa che si chiama asta porta-flebo. Quando, un momento dopo, l’infermiera è arrivata, ha trovato me che dormivo beato e mio fratello Jason disteso sul pavimento e un po’ stordito, con il sangue che gli scorreva dalla ferita sopra l’occhio.
«Non far morire mio fratello!» ha urlato, mentre l’infermiera gli esaminava la ferita.
«Sam non morirà» ha detto l’infermiera. «Guardalo, sta bene. Non vedi come dorme? A te, invece, servirà qualche punto. Tieni, premiti quest’asciugamano contro la testa e andiamo nel mio studio.»
Ma mio fratello Jason si era convinto che io fossi gravissimo e che se mi avesse lasciato da solo sarebbe successo qualcosa di terribile. E così si è impuntato per rimanere dov’era, tanto che alla fine l’infermiera ha dovuto cucirgli la ferita proprio lì, e doveva essere un’infermiera alle prime armi perché il lavoro non le è venuto proprio benissimo.
Ed è così che si è fatto la cicatrice.
Ho sempre amato la sua ferita perché tutte le volte che la guardo ripenso a quella storia e a come lui ha insistito per restare al mio fianco quando stavo male. È un segno di quanto mio fratello Jason mi abbia sempre voluto bene. Da un po’ di tempo, ha iniziato a farsi crescere i capelli e non riesco più a vedere la cicatrice come prima perché gli piace tirarsi giù la frangia sulla fronte. Io però lo so che c’è. E so cosa significa.
Fin da quando mi ricordo, mio fratello Jason si è sempre preso cura di me. Certo, c’erano anche le ragazze alla pari – tante ragazze alla pari –, perché mamma diceva che se non avesse messo i suoi elettori al primo posto, alle prossime elezioni avrebbero votato per i suoi avversari e il Paese sarebbe andato in rovina. Papà sosteneva che era importante che mamma vincesse sempre con un ampio margine, se voleva continuare la sua scalata fino in cima.
«Fa una buona impressione sul partito» diceva, «non solo vincere, ma stravincere.»
La maggior parte delle ragazze non restava a lungo perché ritenevano di essere professioniste qualificate, che erano andate all’università e conoscevano i loro diritti, e si rifiutavano di essere trattate come schiave. Al che mamma faceva sempre notare che se erano davvero così ben istruite, allora avrebbero dovuto sapere che gli schiavi non venivano pagati, mentre loro sì. Poi si rivolgeva a papà con una frase del tipo: «Queste sono le classiche che vanno alle manifestazioni, protestano contro tutto e tutti, ma poi non alzano un dito quando c’è da rendersi utili». E da lì partiva una discussione che toccava qualsiasi cosa, dalle carenze del servizio sanitario al disarmo nucleare, passando per l’aumento dei prezzi dei biglietti della metropolitana e il processo di pace in Medio Oriente.
Capitava che i miei genitori e le ragazze alla pari raggiungessero qualche forma di accordo, ma bastavano poche settimane perché gli animi si incendiassero di nuovo. A quel punto, la ragazza (una volta pure un ragazzo) tirava fuori l’annuncio originale e precisava che da nessuna parte si parlava di stirare i vestiti dei genitori, strappare le erbacce in giardino o piegare e imbustare migliaia di volantini per gli elettori mentre guardavano la televisione in camera nel loro tempo libero. Ma mamma prontamente mostrava la riga che diceva «altri compiti domestici in generale» e le urla ripartivano. Quando risuonava la frase «Se non ti piace, puoi sempre andartene», allora scattava la discussione tra papà e mamma. Lui diceva che ci sarebbe voluta un’eternità a trovare un’altra ragazza alla pari e che nel frattempo gli sarebbe toccato rimanere incastrato a casa con «questi dannati bambini» e mamma rispondeva: «Certo, tu non vuoi che se ne vada perché ti piace guardarle il sedere» – parole sue, io mi limito a riferire – e alla fine la ragazza dichiarava che avrebbe scioperato per ottenere condizioni migliori e mamma replicava che se le cose stavano così poteva anche far le valigie e andarsene il giorno dopo e che era ben contenta di liberarsi di certa gentaglia.
E così le ragazze andavano e venivano come le stagioni e io mi guardavo bene dal buttare via il mio tempo affezionandomi troppo. Quando ho compiuto dieci anni e mio fratello ne aveva già quattordici, mamma ha detto che non c’era più bisogno di una ragazza alla pari, che poteva accompagnarmi lui a casa da scuola ogni giorno, a meno che non avesse gli allenamenti di calcio, nel qual caso dovevo restare seduto in tribuna a fare i compiti fino alla fine dell’allenamento. Lui ha detto ok, ma ha chiesto se in cambio poteva ricevere gli stessi soldi delle ragazze alla pari e mio padre gli ha risposto, visto che abiti a casa nostra e non paghi l’affitto, mangi il nostro cibo e sporchi dappertutto con le tue scarpe da calcio e la divisa lercia, non ti pare che siamo già alla pari?
Forse pensate di conoscere qualche buon calciatore, ma credetemi, nessuno è forte come mio fratello Jason. Ha iniziato a giocare a calcio da piccolo e a nove anni aveva già fatto un provino con l’Arsenal Academy, ma gli avevano detto che non era ancora pronto e che volevano rivederlo l’anno dopo. Passati dodici mesi è tornato per un nuovo provino e l’allenatore ha stabilito che, visti i passi da gigante che aveva fatto nel frattempo, il posto era suo, se lo voleva. Ma con enorme sorpresa di tutti, Jason ha rifiutato dicendo che giocare a scuola gli piaceva, ma non voleva che il calcio occupasse tutta la sua vita e soprattutto da grande non voleva fare il calciatore professionista.
«Ma è assurdo!» ha detto mamma, che l’anno prima, quando Jason era stato scartato, aveva avuto una discussione furiosa con il presidente dell’Academy e buttato lì qualche vaga minaccia sui finanziamenti allo sport. «È certo che hai talento. Ti ho visto giocare e sei più bravo di tutti i tuoi compagni di classe. E poi fai sempre quella cosa di… prendere la palla e calciarla in porta… be’, lo fai spesso, se non altro.»
«Perché non provi ad andare solo per i prossimi sette, otto anni?» ha suggerito papà. «Non è tanto tempo, no? Solo fino a quando finirai la scuola e deciderai cosa fare del tuo futuro. Pensa alla mamma, se tu fossi ingaggiato da una squadra professionistica farebbe un’ottima impressione. Gli elettori lo apprezzerebbero moltissimo.»
«Non mi va» ha insistito lui. «A me piace giocare solo per divertirmi.»
«Divertirti?» ha chiesto papà, fissandolo come se all’improvviso avesse iniziato a parlare un’altra lingua. «Hai dieci anni, Jason! Pensi davvero che nella vita il punto sia divertirsi?»
«Proprio così» ha risposto lui.
«Sai qual è il tuo problema, Jason?» è intervenuta mamma, mentre si limava le unghie sfogliando i giornali. Lui ha scosso la testa.
«No» ha risposto. «Quale?»
«Sei un egoista. Pensi sempre solo a te stesso.»
E anche se avevo solo sei anni e me ne stavo seduto in silenzio in un angolo della stanza, sapevo che non era vero, perché mio fratello Jason era la persona meno egoista che conoscessi.
«Perché non vuoi diventare un calciatore famoso?» gli ho chiesto una volta, mentre stavo sdraiato sul suo letto ad ascoltare i CD che lui sceglieva per me, spiegandomi perché ognuna di quelle canzoni fosse la canzone più bella mai scritta e dicendomi che era ora di ampliare le mie conoscenze musicali e smetterla di ascoltare schifezze. Guardando i poster alle pareti ho pensato che ce n’era uno di calciatori ma, a voler ben vedere, c’erano anche un poster dell’Australia e uno di Shrek e non per questo credevo che volesse diventare un continente o un orco dei cartoni.
«Non mi va e basta, Sam» ha detto scrollando le spalle. «Solo perché so fare bene una cosa non vuol dire che voglia passare tutta la vita a farla. Ci sono un sacco di altre cose che potrei aver voglia di fare al posto di quella.»
E in fondo mi è sembrata una risposta abbastanza sensata.
L’anno scorso, quando avevo tredici anni, la prof di lettere ci ha assegnato un tema da fare nel weekend, dal titolo La persona che ammiro di più. Sette ragazze hanno scelto Kate Middleton, cinque ragazzi David Beckham, tre erano più sul versante Iron Man. Il resto era un misto di Jacqueline Wilson, la regina e Barack Obama. La mia nemesi, David Fugue, che mi bullizza senza pietà dal giorno che ho provato a dargli il benvenuto nella nostra via, ha scritto di Kim Jong-un, il leader supremo della Corea del Nord, e quando il nostro insegnante, Mr Lowry, gli ha fornito ottantasette ragioni diverse sul perché Kim Jong-un non sia proprio un modello di riferimento, David Fugue ha aspettato che finisse di parlare e poi gli ha detto che doveva stare molto attento a quel che diceva o rischiava di finire in guai seri. Ha sostenuto che lui e Kim Jong-un giocassero online tutte le sere e che fossero ormai grandi amici. Sarebbe bastata una parola da parte sua, ha detto, e a Mr Lowry sarebbe potuto capitare uno sgradevole incidente mentre tornava a casa, una sera di quelle. La cosa non è stata presa benissimo. I genitori di David hanno ricevuto una lettera e il giorno dopo lui ha dovuto alzarsi davanti a tutta la classe e scusarsi per avere accennato con disinvoltura alla violenza a scuola.
Io sono stato l’unico a non scegl...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- 1. Un pomeriggio stranissimo
- 2. Cattivi vicini
- 3. Ai laghi
- 4. Pesci rossi e canguri
- 5. La coda di cavallo
- 6. I Brewster
- 7. La casa di zia Rose
- 8. Il tradimento
- 9. Un ragazzo finto
- 10. La vetta del successo
- Ringraziamenti
- Postfazione
- Copyright