Papà, fatti sentire
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Papà, fatti sentire

  1. 256 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Papà, fatti sentire

Informazioni su questo libro

"Da che mondo è mondo, alle mamme tocca tutto, dall'inizio alla fine. E i papà, allora?" Oggi molte delle funzioni simboliche che da sempre sono state attribuite al ruolo di padre sono ormai scomparse. Abbandonato lo stile autoritario, i padri di oggi cambiano i pannolini, giocano con i figli, passano del tempo libero con loro. Ma allora perché il loro modello è ancora percepito come fortemente in crisi? Perché i padri di oggi non hanno trovato del tutto la propria dimensione all'interno della famiglia? E cosa possono insegnare senza la loro occasione di mettersi tra il figlio e la madre? Stefania Andreoli, una delle più importanti terapeute dell'adolescenza, negli ultimi anni ha incontrato sempre più figli con una sofferenza in comune: la mancanza di comunicazione emotiva da parte dei papà. Impreparati a sostenere la vita perché non capiscono come la affrontano i genitori, questi ragazzi chiedono di sentire l'emotività dei loro padri per poi raccogliere il testimone: una sorta di anteprima di come ci si dovrebbe sentire a essere uomini e svilupparsi pienamente. E attraverso la sua esperienza clinica, grazie alle parole stesse dei ragazzi, ci spiega cosa ancora oggi i padri non sanno fare, e come possono evolvere per dare ai figli un supporto reale: dotarsi di empatia e condividere esperienze affettivamente significative, esprimere le loro emozioni perché farlo solo con le mamme ai figli non basta più. Diventare complici, facendosi sentire. Ecco dunque che passo dopo passo Stefania Andreoli ci insegna a liberare e trasmettere il nostro mondo interiore. E regalarlo ai nostri figli i quali, dietro ogni apparenza, attendono da noi proprio questo dono.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2018
eBook ISBN
9788858692776

1

C’erano una volta le madri, poi sono arrivati i padri

Per capire come si comportano i Sapiens, dobbiamo descrivere l’evoluzione storica delle loro azioni.
Facendo riferimento soltanto ai nostri vincoli biologici, ci comporteremmo come un radiocronista che commentando i campionati mondiali offrisse ai suoi ascoltatori una dettagliata descrizione del campo di gioco invece di raccontare cosa stanno facendo i giocatori.
YUVAL NOAH HARARI, SAPIENS. DA ANIMALI A DÈI

Raccontiamola dall’inizio: breve storia della paternità

Mentre la maternità è un concetto «incorporato» (non ignoriamo che i termini latini mater e materia condividono lo stesso etimo) – il che anticipa e trascende le sue declinazioni culturali, psicologiche e antropologiche –, la paternità è senza dubbio un fatto esterno, culturale, acquisito.
Lo dice meravigliosamente Luigi Zoja: «Per avere il padre è necessario insistere molto di più di quanto si debba insistere per avere la madre».1
Nella Preistoria esistevano già le mamme, ma non esistevano ancora i papà. L’allevamento dei figli non era certo esclusivo, e già all’epoca coinvolgeva altre figure (i membri della famiglia, i vicini e in pratica l’intera tribù), che però non erano i padri di questi bambini. Qualcuno doveva pur aver partecipato al concepimento del piccolo, ma secondo più di una teoria della psicologia evoluzionistica a quell’epoca la società non era organizzata in famiglie mononucleari monogame. Gli uomini erano dediti alla caccia e alla raccolta e, per fare in modo che si soccombesse il meno possibile alle avversità, la proprietà privata e l’esclusività dei rapporti, compreso il principio di paternità, erano del tutto assenti.
Potremmo quasi dire che qualcosa, nella parte più ancestrale del nostro DNA, abbia come imprinting che per crescere un bambino servano la sua mamma e qualcuno che la aiuti.
Non necessariamente il suo papà, quanto piuttosto una sorta di «paternità sociale», una «genitorialità diffusa» che assolva al compito di mettere a disposizione risorse per il nutrimento e salvaguardare l’incolumità dei piccoli indifesi.
Inoltre, come scrive la professoressa Corinna Cristiani, che all’università fu la mia docente di Psicodinamica dello sviluppo e delle relazioni famigliari, «si può descrivere il Paleolitico come un’epoca senza padre, poiché non si conosceva ancora la relazione tra l’atto sessuale e la generazione».2
Insomma, per i nostri più remoti antenati le madri erano e gli uomini facevano.
Proseguendo con la lettura giungerò a raccontarvi come credo che in verità oggi paghiamo in parte il prezzo di aver indugiato in un pensiero collettivo che ipervalorizzasse la maternità a discapito dell’importanza della paternità.
Ma andiamo avanti, sperando che gli esperti e gli appassionati tra voi mi concederanno la licenza di fare dei salti lungo la linea storiografica: come immaginerete, mi preme arrivare il prima possibile ai giorni nostri.

La Rivoluzione agricola: le prime ansie e preoccupazioni

Il concetto di coppia che renderà più compromettente e vincolante il ruolo maschile all’interno del legame famigliare si affaccia sulla scena nel momento in cui, a partire da circa dodicimila anni fa, la Rivoluzione agricola specializzerà gli uomini nel lavoro nei campi con l’aratro.
A quel punto lo stile di vita cambiò radicalmente, senza contare che proprio a quell’epoca nacquero le condizioni per una germinale per quanto inconsapevole forma di psicologia, ovvero di interesse al Sé.
Intanto, cominciare a considerare la coltivazione come attività principale per la sopravvivenza rese stanziali. Costruire case ridusse i volumi degli accampamenti: non si viveva più tutti insieme in una specie di ancestrale comune hippy e si affacciò l’idea che per procreare si dovesse essere in due e che quei due fossero un uomo e una donna. Lo si scoprì anche diventando più esperti delle leggi della natura: formate popolazioni stabili, le tecniche di allevamento degli animali vennero osservate con più attenzione e si conquistò la consapevolezza che la gravidanza non fosse un evento magico, bensì avesse qualcosa a che fare con il seme maschile deposto nel grembo femminile.
Se fino a quel momento, dunque, esisteva l’idea che la procreazione fosse una faccenda in definitiva femminile in cui gli uomini non erano coinvolti, come spiega la professoressa Cristiani «la scoperta dell’aratro, ben presto assunto a simbolo maschile, sposta l’asse dall’affinità tra la donna, le sementi e la terra a quella tra la fecondazione e la semina dei campi, attribuendo all’uomo il merito dell’abbondanza dei raccolti»3 e, per affinità simbolica, della generazione della prole.
Diciamo che l’aratro fu l’antenato per l’uomo dell’estensione fallica che migliaia di anni dopo Sigmund Freud avrebbe attribuito alle automobili.
Oltre che permettere all’uomo di scoprire la potenza del suo pene e l’impegno per fare famiglia (all’epoca ancora inteso principalmente come prosecuzione della specie più che come creazione di legami affettivamente significativi: si amavano i figli trasportando secchi d’acqua sotto il sole affinché i campi venissero coltivati e offrissero i frutti della terra per sfamarli), la Rivoluzione agricola inventò anche l’ansia, ovvero la preoccupazione del prima per il dopo. Come scrive Yuval Noah Harari nel suo celeberrimo Sapiens. Da animali a dèi, «(…) con l’avvento dell’agricoltura, le preoccupazioni (…) iniziarono a ricoprire un ruolo di primo piano nel teatro della mente umana. Laddove i contadini dipendevano dalla pioggia per irrigare i loro campi, ogni mattina scrutavano l’orizzonte, annusando il vento e aguzzando gli occhi. Che cos’è, una nuvola quella? La pioggia arriverà in tempo? Ne cadrà abbastanza? Un temporale violento spazzerà via i semi dal campo, devastando le pianticelle? (…) I contadini si concentravano sul futuro non solo perché avevano buoni motivi per temerlo, ma anche perché potevano fare qualcosa per modificarlo».4
Non esistevano ancora i padri per come li conosciamo oggi, ma secondo me questi contadini cominciano già a esserci vagamente familiari.

Un agricoltore del 10.000 a.C. o un imprenditore degli anni Duemila? La storia di Marco

Marco mi cerca qualche anno fa, durante le vacanze di Natale.
Lo fa in modo cauto, con una email vaga.
Quando lo incontro in studio, la prende altrettanto alla larga. (Marco e io impareremo insieme il motivo autentico per il quale mi ha chiesto aiuto solo molto, molto tempo dopo. Lui è cintura nera di vaghezza.)
Nel mio mestiere è piuttosto normale: a un certo punto un trigger, un grilletto, ti fa partire il colpo per cui ti decidi a cercare un terapeuta e ti rassegni a non farcela da solo. Spesso si tratta di un evento che somiglia alla famosa goccia che fa traboccare il vaso, e per alcuni è tutto ciò che sanno portare di sé e della loro fatica di vivere nel mio studio, che io – ma anche altri colleghi – chiamo «la stanza delle parole»: il luogo dove ci si reca per trovare ascolto, dove il lavoro sta nella relazione che si crea tra qualcuno che porta una domanda di aiuto e qualcun altro che ci mette il mestiere. In mezzo a questi due poli, ci stanno per l’appunto le parole: quelle che si dicono; quelle che non si dicono; quelle con cui si mente; quelle che si pronunciano senza sillabe, ma tramite un’intonazione o un modo di sedersi stando scomodi sul bordo della poltrona.
In qualche modo gli basta, raccontarla così: nel portare l’ultima cosa che gli è successa come la più importante, stanno già facendo uno sforzo immane.
Per alcuni è: ho perso il lavoro. Per altri: mi ha lasciato la mia compagna. Per altri ancora: mi hanno ritirato la patente per guida in stato di ebbrezza.
Cercano soluzioni per pensare a come fare (sono uomini!), nel mio studio invece trovano la proposta di andare a vedere dove si è rovinosamente annodato il filo: cosa li ha spinti a pensare che i loro capi sopportassero ancora per molto le loro insurrezioni in pubblico degne del più rissoso degli adolescenti; come è possibile che non avessero messo in conto che all’ennesima bugia affrontata negando l’evidenza le loro donne non avrebbero avuto più voglia di fare la parte delle mamme che danno i castighi e poi li tolgono; perché considerassero sei, otto birre al giorno «birrette» e non alcolismo.
A quel punto puoi andare in profondità – se resisti: la terapia paradossalmente è per chi è abbastanza sano da reggere di trovarsi al cospetto dei fattacci propri, e affrontarli occhi negli occhi – e lavorare su quale ferita mai completamente suturata ti faccia avere sempre una litigata pronta all’uso in tasca; su che problema hai con la verità; su cos’è quella cosa che hai dentro e che ti serve stordire e far ubriacare, perché cada addormentata e non ti dia troppo fastidio.
Nel caso di Marco, il suo trigger era stato: «Ho proposto a mia moglie di mollare tutto e andare a vivere insieme in Costa Rica. Mi ha detto di cercarla, dottoressa, perché sono pazzo. Mi sa che era un no».
Per un po’ (un bel po’: due anni) Marco e io abbiamo ricamato l’arazzo della sua vita sulla costa caraibica: come immaginava che sarebbe stata, cosa sognava di fare che nella sua città gli sarebbe stato precluso, perché scegliere proprio la Costa Rica e non – che so – il Sudafrica.
Il terapeuta esperto sa che una delle sue funzioni è falsificare il mito che di sé racconta il paziente, pur accogliendo insindacabilmente come del tutto credibile la sua verità. (Sembra contraddittorio? No, è solo uno dei motivi per cui la psicoterapia è diversa dalla chiacchiera che fai con il tuo amico che ti vuole tanto bene e c’è sempre quando hai bisogno di sfogarti.)
Nel caso del mio paziente, ok, la Costa Rica non è niente male; non fatico neanche a capire che sulle prime Sara, sua moglie, sia perplessa e non si faccia trovare con la valigia in mano: si tratterebbe onestamente di un radicale cambio di vita, entrambi dovrebbero lasciare affetti, certezze e soldi sicuri.
Va bene tutto, Marco. Ma perché da due anni stiamo parlando di quanto tu voglia tirare i remi in barca, vendere la tua parte di azienda, stare meglio di come stai… e non hai ancora combinato niente?
I dati di realtà di questa storia cozzano abbondantemente con il suo andamento: Marco non è ricco ma è senz’altro benestante. La sua famiglia non possiede una holding, però ha un’azienda con una decina di dipendenti i cui bilanci sono sani e che, vendute le sue quote, gli garantirebbe una buona rendita. Sara non è coraggiosissima, ma è indubitabilmente ancora innamorata di suo marito e, siccome lo vede depresso e insofferente, gli ha detto chiaro e tondo – e lui l’ha trovata sincera – che si butterebbe in questa nuova avventura con lui. I due hanno un figlio ma è grande, già sistemato.
Va bene tutto, Marco. Tra il dire e il fare, però, c’è di mezzo il mare. Tua moglie è figlia unica e lascerebbe in Italia i genitori anziani, per quanto autosufficienti. Un giorno tuo figlio potrebbe darti un nipote e tu saresti lontano, come si fa?
Che noia, che fatica. Marco vive ogni cosa dentro al suo mondo interno dove se la canta e se la suona, costruisce e distrugge, sogna e si sveglia.
Fa tutto da solo, in preda alle ansie e agli scenari catastrofici che si immagina gli capiteranno come giusta punizione per aver voluto fare qualcosa che uscisse dal solco battuto. Per aver disdegnato la sicurezza per l’avventura, per non essere rimasto a presidiare il figlio che oggi sta benone ma non si sa mai, e tu che padre sei se non ti sei preoccupato di essere a portata di mano e hai messo te davanti ai suoi ipotetici futuri bisogni, e se poi fai degli investimenti sbagliati e a un certo punto servissero i soldi, come lo spiegheresti al tuo mondo degli affetti di averli usati tutti per un bed&breakfast sulla spiaggia che non ha funzionato? E se poi alla tua partenza l’azienda cominciasse a zoppicare e altri pagassero il prezzo delle tue scelte egoistiche, e poi hai considerato che in Costa Rica si parla spagnolo ma non è mica lo spagnolo della Spagna, esisteranno forme di dialetto locale e tu e Sara lo spagnolo non lo parlate e si sa che quando non si è più giovani non è che sia facile imparare cose nuove come quando hai vent’anni.
Anche nel rapporto terapeutico con me, Marco di fatto mi cerca ma non mi include, perché porta una domanda impossibile: voglio cambiare vita, ma non voglio cambiare vita. Come si fa?
E che ne so! So però che stai male, e tanto.
Dai, ci sto: facciamo che per un momento sto alle regole del tuo gioco.
Un giorno gli dico: «Marco, è proprio come dice lei. Bella l’idea di cambiare vita, aveva quasi convinto anche me: affascinante davvero, ma forse più finché la si immagina che non quando poi si prova a realizzarla davvero».
Resta allibito. Qualcosa ha colto nel segno.
«Eh, vede dottoressa che alla fine mi ha dovuto dare ragione anche lei?»
«Cioè?»
«Non si può fare. Ho investito per due anni su un sogno, una velleità, una sciocchezza. Per questo sono rimasto dove sto: perché la mia idea in fondo era irrealizzabile. Mille volte meglio trovare il modo per essere felici con la vita che hai piuttosto che desiderare quello che non puoi più fare una volta che hai fatto delle scelte di responsabilità.»
«E questo chi lo dice?»
«Io, lo dico.»
«E come l’ha imparato?»
«In che senso? Lo so e basta.»
«No, intendo: non riconos...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione
  4. 1. C’erano una volta le madri, poi sono arrivati i padri
  5. 2. I padri dei giorni nostri: una rivoluzione ancora in atto
  6. 3. Figlio mio, come nascono i papà?
  7. 4. Fare un bambino: essere papà di un figlio dalla nascita alla scuola
  8. 5. Avere a che fare con un figlio che diventa grande: essere papà di un adolescente
  9. 6. Da farsi ascoltare a farsi sentire
  10. 7. I nuovi padri
  11. Epilogo
  12. Ringraziamenti
  13. Bibliografia
  14. Sommario