La dura realtà
(Dittatura)
Benché la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo dichiarasse appunto di essere universale, sarebbe ingenuo pensare che lo fosse allora, o che lo sia diventata ora. Anzitutto, nel 1948 le Nazioni Unite consistevano soltanto di 58 stati e rappresentavano soltanto una parte del mondo, perché non vi appartenevano ancora quasi tutti gli stati europei e africani: i primi, per i postumi della Seconda Guerra Mondiale, e i secondi, per la persistenza del colonialismo.
Paradossalmente, fra i 48 paesi che votarono a favore della Dichiarazione ce n’erano alcuni contro i quali essa sembrava espressamente rivolta. La Cina nazionalista di Chiang Kai-shek, ad esempio, che era una dittatura militare. O l’Inghilterra e la Francia, che mantenevano sotto il giogo coloniale quasi tutti i paesi dell’Africa. O gli Stati Uniti, che perpetuavano la discriminazione e la segregazione razziale a casa loro. Si astenne invece il Sud Africa, che si trovava in una simile condizione di apartheid. Tutti questi stati avrebbero dunque potuto più onestamente votare contro.
Si astennero anche 6 paesi comunisti, cioè l’Unione Sovietica e i suoi satelliti, per motivi ideologici. La Dichiarazione si ispirava infatti ai valori borghesi, per i quali si fecero la Rivoluzione Americana e la Rivoluzione Francese, ma non teneva conto di quelli proletari, per i quali si era fatta la Rivoluzione Russa e si stava facendo la Rivoluzione Cinese. D’altronde, in una società disuguale il diritto di proprietà può essere considerato un principio di difesa delle disuguaglianze e dei privilegi: dei baroni inglesi e degli aristocratici francesi, una volta, e dei ricchi e dei super ricchi, oggi.
Si astenne infine anche l’Arabia Saudita, per motivi religiosi: in questo caso le obiezioni riguardavano la libertà di culto e i diritti contrari alla shari’a islamica. L’Organizzazione della Cooperazione Islamica, fondata nel 1969 e comprendente una sessantina di stati situati sulla fascia che copre il Nord Africa, il Medio Oriente e l’Asia Centrale, oltre all’Indonesia, ha adottato nel 1990 una Dichiarazione dei diritti umani islamici alternativa a quella delle Nazioni Unite, a cui peraltro tutti gli stati dell’Organizzazione appartengono.
Non vi appartiene invece il Vaticano, anche se la Santa Sede partecipa alle Nazioni Unite come osservatore permanente. Né l’uno, né l’altra hanno mai firmato la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, per ovvi motivi. Ad esempio, l’articolo 1 della Legge Fondamentale del Vaticano, emanata nel 1929 da Pio XI e modificata nel 2000 da Giovanni Paolo II, continua a stabilire che «il Sommo Pontefice ha la pienezza dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario», con buona pace di Montesquieu.
In conclusione, non sembrano esserci diritti universalmente condivisi. Quelli ai quali si fa di solito riferimento nei cosiddetti stati democratici sono sostanzialmente i diritti borghesi, che vengono però criticati da destra dagli stati teocratici, perché troppo avanzati e progressisti, e da sinistra dagli stati comunisti, per motivi opposti.
La logica conclusione sarebbe che ai diritti e ai doveri bisogna assegnare una patente di pura convenzionalità sociale e culturale, ma nel corso della storia si è cercato di evitare questa scomoda conclusione seguendo tre vie diverse. La prima, inaugurata nell’antichità e praticata ancor oggi, è di attribuire loro un’origine divina: in tal caso l’obbligo legale (must) e l’imperativo morale (ought) vengono a coincidere.
Purtroppo, su questa via si incontrano due serie di ostacoli. Da un lato, le persone sane di mente difficilmente sentono le voci, soprattutto quella di Dio. E, dall’altro lato, le persone che sentono voci divine riferiscono di sentire cose diverse: non solo quando a parlare sono dèi diversi, ma anche quando dovrebbe trattarsi di un unico Dio. Il diritto divino, oltre a basarsi su testimonianze di dubbia credibilità, finisce dunque per esibire proprio quella convenzionalità che pretende di evitare.
La seconda via, risalente anch’essa all’antichità, consiste nel sostituire Dio con la Natura, alla maniera di Spinoza. Si approda in tal modo al cosiddetto giusnaturalismo, al quale si appellano ancor oggi i cristiani, sperando di trovare una coincidenza fra i costumi “secondo Natura” e i dettami “secondo Scrittura”. Vasta impresa, visto che l’idea che della Natura hanno non solo i teologi, ma più in generale i filosofi, è quanto di più innaturale si possa immaginare.
Gli scienziati, e in particolare i biologi, ne hanno ovviamente una molto più informata. Ma già David Hume insegnava, nel Trattato sulla natura umana (1740), che non bisogna confondere le descrizioni (is) con le prescrizioni, naturali (must) o morali (ought) che siano. In altre parole, dalla constatazione che qualcosa è così, non si può dedurre che allora dev’essere così, né dal punto di vista della Natura, né da quello della morale. Detto in sintesi, ciò che accade è ovviamente possibile, ma questo non significa che sia anche necessario o obbligatorio.
Sic transit iusnaturalismus. E per fortuna, visto che dimenticare la distinzione di Hume tra fatti (is) e valori (ought) può portare all’aberrazione del cosiddetto darwinismo sociale, che pretende appunto di fondare scientificamente le leggi della società sulle leggi della giungla: cioè, su princìpi quali l’homo homini lupus dei filosofi antichi, o la “sopravvivenza del più adatto” degli evoluzionisti moderni, che portano entrambi a una giustificazione della monarchia o della dittatura.
In realtà lo stesso Darwin aveva sottolineato, nell’Origine dell’uomo (1871), che nella nostra specie l’evoluzione culturale ha preso il sopravvento sull’evoluzione naturale, e dunque lo “stato di Natura” ha lasciato il posto a uno “stato di cultura”. Ma questo significa abbandonare il giusnaturalismo puro e passare a una sua versione snaturata, che sostituisce la concreta Natura con l’ineffabile “natura umana”, riportando il discorso al punto di partenza.
Rimane un’ultima via, che consiste nel sostituire la Natura con la ragione, alla maniera degli illuministi. I quali, in effetti, furono i primi a usare la matematica per affrontare in maniera precisa e rigorosa i problemi relativi alle connessioni fra le preferenze individuali e le scelte sociali, che fino ad allora erano stati appannaggio delle confuse e vaghe discussioni dei teologi e dei filosofi.
Questo nuovo campo di studi è stato inaugurato nel Settecento da due rivoluzionari francesi, il cavaliere di Borda e il marchese di Condorcet, che furono i primi a studiare matematicamente i sistemi di voto, sui quali torneremo. Ed è culminato nel Novecento con l’assegnazione di due premi Nobel per l’economia, a Kenneth Arrow nel 1972 e ad Amartya Sen nel 1998, per due teoremi riguardanti appunto la problematica dei diritti, che stiamo esaminando.
Il loro punto di partenza sta nel considerare gli ordini di preferenze individuali, che ciascun individuo ha in mente quando deve scegliere fra alternative che non gli sono indifferenti. Questi ordini devono soddisfare ovvie proprietà: come la transitività, che richiede che se qualcuno preferisce A a B e B a C, allora preferisca coerentemente anche A a C.
Da un punto di vista astratto le scelte sociali, quali le elezioni o i referendum, amalgamano i molteplici ordini di preferenze individuali in un unico ordine di preferenza collettivo. E un individuo ha diritto alla scelta fra A e B se la società non solo accetta la scelta che egli ha fatto, ma avrebbe accettato anche quella contraria se egli l’avesse fatta.
Un’osservazione banale è che se c’è libertà di scelta, al massimo un individuo può avere diritto alla scelta fra A e B. Se l’avessero in due, infatti, la libertà di scelta permetterebbe loro di avere preferenze contrapposte, e la società si troverebbe impossibilitata a soddisfarle entrambe.
Niente affatto banale, e addirittura sconvolgente, è il seguente fatto, scoperto da Sen in un articolo Sull’impossibilità del liberale paretiano (1970). Supponiamo che la società non possa andare contro una preferenza unanimemente condivisa da tutti gli individui: un principio di unanimità, enunciato dall’economista Vilfredo Pareto nel Corso di economia politica (1896). Allora al massimo una persona può avere dei diritti!
La dimostrazione è imbarazzante, per la sua semplicità. Supponiamo che due individui abbiano entrambi un diritto a scegliere: il primo fra A e B, e il secondo fra C e D. La libertà di scelta permette di scegliere, ad esempio, al primo A su B, al secondo C su D, e a tutti B su C e D su A. La società deve allora preferire A a B e C a D, per i diritti dei due individui, e B a C e D ad A, per l’unanimità. Per transitività, allora, A dev’essere preferito ad A, e dunque deve vincere e perdere allo stesso tempo: cosa ovviamente impossibile, anche se dopo le elezioni succede spesso che i perdenti sostengano di aver comunque vinto, almeno moralmente.
Questo potrebbe voler semplicemente dire che nessuno ha dei diritti, e andrebbe già abbastanza male. Ma nel libro Scelte sociali e valori individuali (1951) Arrow ha dimostrato che va ancora peggio: se la società prende le proprie decisioni unicamente in base alle preferenze espresse dagli individui, comportandosi democraticamente in completa dipendenza dal voto, allora c’è un’unica persona che ha dei diritti, e li ha su qualunque scelta!
Supponiamo infatti che la società scelga A su B solamente in base al voto. Qualcuno deve aver preferito A, altrimenti B sarebbe stato scelto all’unanimità. Se nessuno di quelli che hanno preferito A avesse avuto un diritto al proposito, tutti avrebbero potuto preferire B per la libertà di scelta, e questo non avrebbe cambiato la scelta di A per la definizione di diritto, contrariamente al fatto che in tal caso B avrebbe dovuto essere scelto all’unanimità. Dunque qualcuno ha preferito A con diritto.
Ma un uomo che abbia tutti i diritti assoluti, e sia l’unico ad averne, non può che chiamarsi dittatore. Arrow ha dunque dimostrato che la dittatura è l’unico modo di rispettare la libertà individuale di scelta, il principio collettivo di unanimità e la dipendenza elettorale dal voto. E poiché queste tre condizioni sono necessarie per la democrazia, i teoremi di Arrow e Sen dimostrano che c’è un conflitto tra democrazia e diritti, nel senso che in una democrazia o nessuno ha dei diritti assoluti, o c’è un dittatore che li ha tutti lui.
Uno, qualcuno, tutti
(Governo)
Falliti tutti i tentativi di trovare un fondamento oggettivo e assoluto ai valori morali, sociali e politici, non rimane che accettare l’evidenza che essi sono invece soggettivi e relativi. Cosa che era comunque già chiara a un presocratico illuminato come Protagora, al quale si deve il famoso motto «l’uomo è la misura di tutte le cose».
Per inciso, nell’originale greco Protagora non usava affatto il termine onta, “enti” o “cose”, che giustificherebbe la traduzione canonica del suo detto. E non usava nemmeno pragmata, “affari” o “fatti”, che non a caso veniva tradotto in latino con res publica, “affari pubblici”. Usava invece chremata, “ricchezze” o “valori”, nell’accezione che ancor oggi manteniamo per tutto ciò che è di pertinenza dell’umanesimo: in particolare, la triade Il bello, il giusto e il buono, come nel titolo di un western all’italiana.
La traduzione letterale del detto di Protagora sarebbe dunque “l’uomo è la misura di tutti i valori”: un motto che descrive perfettamente la visione relativistica della morale e dell’etica tipica del Novecento, in generale, e dei risultati di Arrow e Sen, in particolare. Non rimane allora che accettare volontariamente l’inevitabile soggettività e relatività dei valori, e non desiderare una loro impossibile oggettività e assolutezza.
È con questo spirito che bisogna affrontare l’analisi delle varie componenti del complesso meccanismo dello Stato, a partire dalla sua forma di governo. Nella Politica Aristotele ne distingueva tre tipi, a seconda che a comandare fossero uno solo, pochi o molti. In realtà se ne possono distinguere anche di più, a seconda che a comandare siano nessuno, uno, pochi, molti o tutti.
Quando nessuno comanda c’è anarchia, “senza governo”. Il termine oggi viene solitamente usato in senso denigratorio, come sinonimo di disordine e caos, ma non era questa la visione dei teorici dell’anarchismo nell’Ottocento, da Pierre-Joseph Proudhon a Michail Bakunin. Al contrario, essi ne facevano semplicemente una questione di libertà universale e incondizionata, senza le costrizioni che lo Stato impone ai molti per preservare i privilegi dei pochi che comandano.
In ogni caso, di sistemi autoregolantisi, in grado di raggiungere e mantenere un equilibrio stabile, e di funzionare perfettamente anche in mancanza di un centro decisionale, ce ne sono parecchi: dai gas della termodinamica alle reazioni autocatalitiche della chimica, dai processi distribuiti dell’informatica alle reti neurali artificiali e naturali, di cui il cervello è l’esempio primario.
Paradossalmente, è un sistema anarchico per antonomasia anche il libero mercato, che nel mondo occidentale viene considerato l’altra faccia della medaglia della democrazia. La metafora della “mano invisibile”, introdotta da Adam Smith nella Ricchezza delle nazioni (1776), stava appunto a indicare l’idea che i vari operatori economici (consumatori e produttori) possono anarchicamente perseguire i propri fini, senza doversi preoccupare di coordinarli esplicitamente fra loro, perché l’equilibrio tra la domanda e l’offerta delle merci emergerà comunque in maniera automatica, guidato dalla mano invisibile della Provvidenza economica.
Il problema dell’anarchia, economica o politica, non sta comunque nel raggiungimento teorico degli equilibri. Fin dall’Ottocento l’economista francese Léon Walras sviluppò infatti un’analogia tra le molecole di un gas, da una parte, e gli operatori economici di un mercato o i cittadini di uno stato, dall’altra, immaginando che l’equilibrio economico o politico potesse emergere dal loro comportamento anarchico, analogamente al modo in cui l’equilibrio termodinamico emerge dal moto casuale delle molecole. Nel Novecento le intuizioni di Walras sono state confermate, almeno parzialmente: in particolare, dai teoremi di equilibrio di Kenneth Arrow e Gérard Debreu, che valsero loro i premi Nobel per l’economia nel 1972 e 1983.
Il vero problema dell’anarchia sta invece nel fatto pratico, evidenziato dall’economista inglese John Maynard Keynes, che quando i mercati o gli stati vengono lasciati a sé stessi, alcuni operatori o individui spregiudicati tendono a raggrupparsi e a formare coalizioni ai ...