Soluzione finale
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Soluzione finale

  1. 176 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Soluzione finale

Informazioni su questo libro

Nella campagna inglese del 1944 un uomo di quasi novant'anni — il grande Sherlock Holmes, secondo alcuni — sembra più interessato ad accudire le sue api che alla guerra che devasta l'Europa. Poi incontra Linus Steinmann: un bambino di soli nove anni a cui la crudeltà della Germania nazista ha tolto la Famiglia e la voce. Linus non parla e il suo unico compagno di viaggio è un pappagallo grigio africano, dal quale non si separa mai. Ma qual è il significato della litania di numeri che il pennuto recita in continuazione, per giunta in tedesco? Qualcuno è pronto a scommettere che si tratti di un misterioso codice usato dai nazisti, o addirittura del numero di un conto segreto in qualche banca svizzera. Quando il pappagallo sparisce e un uomo viene ritrovato morto, il primo a mettersi sulle tracce del colpevole è proprio il presunto detective in pensione. Appassionante, arguto, commovente, Soluzione finale ci regala un Chabon inedito, all'apice del suo talento di narratore.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2018
Print ISBN
9788817005913
eBook ISBN
9788858692356

1.

Un bambino con un pappagallo sulla spalla camminava lungo i binari. Era svagato, assorto, da una mano gli ciondolava una margherita. A ogni passo strascicava i piedi sulla massicciata della ferrovia, come se misurasse la lunghezza del suo viaggio con le impronte accurate e regolari delle scarpe nella ghiaia. Era piena estate, e il vecchia che li vide passare fu sedotto dai capelli neri e dal viso del bambino, pallido contro il verde sbandierare delle Downs in lontananza, dalle sue ginocchia magre che uscivano dai pantaloni corti, dal bianco roteare della margherita, e dall’aria d’importanza di quel bel pappagallo grigio con la sua selvaggia coda di penne rosse. Lo sedussero, o piuttosto risvegliarono in lui la percezione – facoltà che a suo tempo l’aveva reso famoso in tutta l’Europa – di una promettente anomalia.
Posò l’ultimo numero di «The British Bee Journal» sulla coperta di shetland che teneva sulle ginocchia, magre anche le sue ma tutt’altro che seducenti, e avvicinò il viso lungo e ossuto al vetro della finestra. I binari – raccordo della linea Brighton-Eastbourne, elettrificata alla fine degli anni Venti, all’epoca dell’unificazione delle Ferrovie Meridionali – correvano lungo un terrapieno per un centinaio di metri a nord del cottage, tra i paletti di cemento di una rete metallica. Il vetro della finestra era pieno di crepe e di bolle che scherzavano con il mondo esterno, alterandone i contorni. Eppure, anche attraverso quel vetro deformante, al vecchio sembrò di non aver mai posato lo sguardo su due creature più intimamente legate nel condividere, con semplicità, una giornata di sole.
Fu altrettanto colpito dal loro apparente silenzio. Gli sembrava che in qualsivoglia sodalizio tra un pappagallo africano grigio – specie notoriamente ciarliera – e un bambino di nove o dieci anni, in qualsivoglia momento, l’uno o l’altro avrebbe dovuto parlare. Ecco un’altra anomalia. Quanto alla promessa che poteva contenere, il vecchio – sebbene un tempo avesse costruito la sua fortuna e la sua reputazione grazie a una lunga e brillante sene di estrapolazioni tratte da improbabili collegamenti – non poteva, non avrebbe mai potuto nemmeno vagamente pronosticarla.
Quando arrivò all’altezza della finestra, il bambino si fermò. Voltò al vecchio la schiena esile, come se avesse avvertito il suo sguardo. Il pappagallo diede un’occhiata stranamente furtiva, prima a est poi a ovest. Il bambino stava macchinando qualcosa. Teneva le spalle curve, le ginocchia piegate fremevano. Un vago ricordo si affacciò alla mente del vecchio, lontano nel tempo ma profondamente familiare… sì…
… il meccanismo difettoso era innestato; lo Steinway con le corde allentate suonava La terza rotaia.
Anche in quel pomeriggio, quando né freddo né umido disturbavano le giunture del suo scheletro, per il vecchio sarebbe stata un’operazione lunga, se eseguita correttamente, alzarsi dalla sedia, venire a patti con il disordine da scapolo di vecchia data – mucchi traballanti di oggetti eterogenei, giornali vari, pantaloni, flaconi di unguenti e di pillole per il fegato, dotti annuari e pubblicazioni trimestrali, piattini pieni di briciole – che rendeva insidioso attraversare il salotto e andare ad aprire la porta sul mondo. E la prospettiva scoraggiante di un viaggio dalla poltrona alla soglia di casa era, in verità, una delle ragioni dei suoi scarsi contatti con il mondo, anche nelle rare occasioni in cui il mondo veniva a fargli visita ponendo una mano cauta sul battaglio di ottone, cui era stata impressa la forma ostile di una gigantesca Apis donata. Nove volte su dieci il vecchio se ne stava seduto ad ascoltare i confusi mormorii e l’armeggiare dietro la porta, ricordando a se stesso che ormai erano ben pochi gli esseri viventi per i quali avrebbe volentieri rischiato di inciampare con la pantofola nel tappeto, davanti al camino, e disperdere sul pavimento di pietra quel po’ di vita che gli restava. Ma il bambino con il pappagallo sulla spalla si preparava a collegare la sua modesta pozzanghera di elettroni al torrente di quelli che venivano pompati lungo la rotaia conduttrice, o terza rotaia, dall’impianto elettrico delle Ferrovie Meridionali sullo Ouse, appena fuori da Lewes. Allora il vecchio si alzò dalla poltrona con tale inconsueta alacrità che le ossa del suo fianco sinistro produssero un fastidioso scricchiolio. La coperta e il giornale scivolarono sul pavimento.
Vacillò per un attimo, con il braccio già teso verso il chiavistello della porta d’ingresso, anche se per arrivarci doveva ancora attraversare tutta la stanza. Il suo debole sistema arterioso faticò per rifornire del sangue necessario il cervello improvvisamente proiettato fuori dai confini del reale. Gli ronzavano le orecchie, gli facevano male le ginocchia, avvertiva infinite trafitture ai piedi. Con rapidità vertiginosa, arrivò barcollando alla porta e l’aprì con uno strattone, spezzandosi l’unghia dell’indice destro.
«Ehi, bambino!» gridò, e anche alle sue orecchie il richiamo suonò querulo, affannoso, con una sfumatura di follia. «Fermo!»
Il bambino si voltò. Con una mano teneva stretta l’allacciatura dei pantaloni, dall’altra lasciò cadere la margherita. Il pappagallo si spostò dalla spalla alla nuca, come per cercare riparo.
«Che cosa fai? Non la vedi la recinzione?» disse il vecchio, anche se sapeva che le recinzioni protettive non venivano più aggiustate da quando era cominciata la guerra ed erano in pessimo stato per almeno quindici chilometri in entrambe le direzioni. «Per carità, vuoi friggere come un pesciolino?» Avanzò con il suo passo malfermo verso il bambino immobile sui binari, senza accorgersi di come gli batteva il cuore. O meglio, se ne accorse e mascherò l’angoscia con un’esclamazione colorita. «Te l’immagini la puzza?»
Abbandonato il fiore, riposti i suoi gioielli nella loro sede abituale e richiusa la cerniera dei pantaloni, il bambino rimase immobile. Teneva rivolta verso il vecchio la faccia esangue, vuota come il bicchiere di stagno di un mendicante. Al vecchio parve di sentire il monotono tintinnio dei secchielli del latte alla fattoria di Satterlee, lontana quattrocento metri, il fruscio inquieto dei balestrucci sotto le grondaie di casa sua e, come sempre, l’incessante lavorio degli alveari. Il bambino oscillò da un piede all’altro, come se stesse cercando una risposta ragionevole. Aprì la bocca e la richiuse. Infine fu il pappagallo a parlare.
«Zwei eins sieben fünf vier sieben drei» disse, con una voce mite, leggermente affannata e una vaghissima pronuncia blesa. Il bambino parve concentrarsi sulle parole del pappagallo, anche se l’espressione del suo viso rimase immutata. «Vier acht vier neun eins eins sieben
Il vecchio batté le palpebre. Quei numeri in tedesco gli erano giunti così inattesi, come se veramente venissero da un altro mondo, che per un attimo li scambiò per un verso privo di senso.
«Bist du Deutscher?» riuscì infine a dire, incerto se si stesse rivolgendo al bambino o al pappagallo. Erano passati trent’anni da quando aveva parlato in tedesco l’ultima volta e gli sembrava che le parole ruzzolassero giù da uno scaffale riposto in fondo alla mente.
Cauto, con un piccolo lampo di emozione nello sguardo, il bambino fece segno di sì con la testa.
Il vecchio si ficcò in bocca l’indice che si era ferito nell’aprire la porta e lo succhiò senza accorgersene, senza sentire il sapore salato del proprio sangue. Incontrare per caso un tedesco, tutto solo, sulle South Downs, nel luglio del 1944, e per giunta un bambino: ecco un enigma capace di accendere vecchi appetiti e vecchie energie. Si compiacque di aver sottratto il proprio scheletro curvo all’abbraccio insidioso della poltrona.
«Come sei arrivato qui?» domandò. «Dove stai andando? Dove, in nome del Cielo, hai preso quel pappagallo?» Per ogni domanda, propose svariate possibili traduzioni in tedesco.
Il bambino sorrideva e grattava la testa del pappagallo con due dita sporche. Lo spessore del suo silenzio faceva pensare a qualcosa di più che alla decisione di non rispondere; il vecchio si domandò se quel bambino non fosse mentalmente disturbato, incapace di formulare una risposta. Ebbe un’idea. Con la mano gli fece segno di aspettare e di non muoversi. Poi si ritirò di nuovo nella penombra del cottage. Nel mobile d’angolo, dietro il secchio del carbone tutto ammaccato dove un tempo teneva le pipe, trovò, coperta di polvere,-una scatoletta di latta che conteneva delle pastiglie alla violetta e portava impressa l’immagine di un generale inglese, eroico vincitore di una battaglia che da tempo aveva perso qualsiasi attinenza con l’attuale situazione dell’Impero. Ora nelle retine del vecchio galleggiavano delle macchioline, minuscole forme astratte simili a girini, riflesso di uno splendore estivo e, insieme, luminosa immagine speculare di un bambino con un pappagallo sulla spalla. Ebbe l’improvvisa consapevolezza di come doveva apparire al bambino: un orco irascibile, emerso dal buio del cottage con il tetto di paglia, come in una fiaba dei fratelli Grimm, tenendo nell’ossuta mano ad artiglio un’arrugginita scatoletta di caramelle delle quali sarebbe stato meglio non fidarsi. Uscì e, con sollievo e stupore, vide che il bambino non se n’era andato.
… ecco un enigma capace di accendere vecchi appetiti e vecchie energie.
ecco un enigma capace di accendere vecchi appetiti e vecchie energie.
«Ecco» disse, porgendogli la scatoletta, «sono passati tanti anni, ma ai miei tempi le caramelle erano considerate una sorta di lingua universale.» Fece una risatina, che senza dubbio suonò come il tipico ghigno dell’orco imbroglione. «Vieni. Vuoi una pastiglia alla violetta? Prendi, da bravo.»
Il bambino attraversò il cortile d’accesso sporco di sabbia e prese dalla scatoletta di latta tre o quattro pilloline viola, poi ringraziò chinando con aria solenne la testa. Dunque era muto; qualcosa non andava nelle sue corde vocali.
«Bitte» disse il vecchio. Per la prima volta in molti, molti anni riprovò l’antico turbamento, l’impazienza mista al piacere di vedere lo splendido rifiuto del mondo a rivelare i suoi misteri senza opporre resistenza. «Ora» proseguì, leccandosi le labbra secche con evidente atteggiamento da orco, «raccontami come mai ti sei tanto allontanato da casa.»
Le pastiglie cozzarono come perle contro i denti del bambino. Il pappagallo gli infilò affettuosamente tra i capelli il becco blu grafite. Il bambino sospirò, scrollando brevemente le spalle in segno di scusa. Poi si voltò e se ne andò nella direzione da cui era venuto.
«Neun neun drei acht zwei sechs sieben» disse il pappagallo, mentre si allontanavano nella verde, ondulata vastità del pomeriggio.

2.

Tali e tante erano le stranezze del pranzo domenicale al tavolo della famiglia Panicker, che il nuovo arrivato, il signor Shane, suscitò la diffidenza del suo collega pensionante, il signor Parkins, semplicemente non dando segno di averle notate. Era alto e rubicondo. Entrò a grandi passi nella sala da pranzo e le assi del pavimento scricchiolarono violentemente sotto i suoi piedi. La sua andatura faceva pensare che sentisse la mancanza di un cavallo tra le gambe. Portava i capelli, rossi come una monetina da un penny, tagliati quasi a zero, e nel suo modo di parlare c’era uno spirito vagamente coloniale, un’eco degli acquartieramenti in India o nelle zone aurifere. Salutò con un cenno della testa, a uno a uno, Parkins, il piccolo profugo, e Reggie Panicker, poi si buttò sulla sedia come un ragazzo che salti sulla schiena di un compagno per una corsa sul prato. Immediatamente diede il via a una conversazione con il padre di Reggie sulle rose americane, un argomento del quale, ammise francamente, era del tutto digiuno.
Solo una grande compostezza o una patologica assenza di curiosità, pensò Parkins, avrebbero potuto spiegare il pressoché totale disinteresse che il signor Shane – presentatosi come viaggiatore di commercio della ditta Chedbourne & Jones, Yorkshire, specializzata in mungitrici – riservava al suo interlocutore, il signor Panicker, che non solo era un malayalam dello stato di Kerala, nero come i tacchi degli stivali, ma anche vicario della Chiesa anglicana. A un eccesso di cortesia, o forse di ottusità, si doveva probabilmente il fatto che Shane non sembrava prestare alcuna attenzione all’aria imbronciata di Reggie Panicker, il figlio già adulto del vicario, intento a scavare un buco in quello straccio di tovaglia con la punta del coltello da pesce, né al mutismo di un bambino di nove anni, la cui faccia sembrava l’ultima pagina vuota nel libro delle sofferenze umane. Ma fu soprattutto il modo in cui il signor Shane ignorò il pappagallo del bambino a suggerire al signor Parkins di diffidare del nuovo pensionante. Nessuno restava indifferente al mistero insito in quel pappagallo, anche se, al momento, l’uccello stava recitando frammenti delle poesie di Goethe e di Schiller che qualsiasi scolaro tedesco conosceva dall’età di sette anni. Il signor Parkins, che per ragioni sue aveva tenuto a lungo il grigio uccello africano sotto osservazione, riconobbe immediatamente nel signor Shane un potenziale avversario nella ricerca che stava effettuando per risolvere il profondo e inquietante enigma legato a quel notevole esemplare. Era chiaro che una Persona Importante era venuta a conoscenza dei numeri che il pappagallo snocciolava con tanta disinvoltura, e aveva mandato il signor Shane a indagare di persona.
«È pronto!» La signora Panicker entrò in sala da pranzo oscillando sotto il peso di una zuppiera di porcellana Spode. Era una donna dell’Oxfordshire, robusta, bionda, semplice. Trent’anni prima aveva sposato un giovane indiano, serio, dagli occhi color carbone, assistente di suo padre con la carica di vice pastore. La selvaggia ispirazione che l’aveva spinta a quel matrimonio aveva generato un frutto assai più scialbo di quanto aveva fantasticato in una calda sera d’estate del 1913, mentre aspirava voluttuosamente l’odore di papaia matura dell’olio per capelli del signor K.T. Panicker. Ma era una cuoca eccellente, e avrebbe meritato una clientela più numerosa di quella di cui godeva normalmente il loro piccolo nucleo domestico. Il tenore di vita dei Panicker era modesto, il vicario nero non godeva di molta popolarità. I parrocchiani erano avari come sassi e la famiglia, nonostante la frugalità e la rigorosa avvedutezza della signora Panicker, viveva in condizioni di disagevole povertà. Era lei, la signora Panicker, a prodigarsi nel curare Torto e a escogitare qualche trovata in cucina in modo da preparare una buona zuppa fredda di cetrioli e cerfoglio come quella che ora, sollevando il coperchio della zuppiera, stava offrendo al signor Shane, la cui presenza nella casa, con due mesi pagati in anticipo, le ispirava una trasparente gratitudine.
«Questa volta ti avverto, signorino Steinman» disse, mentre versava nella scodella del bambino un mestolo di quella crema verde pallido con qualche puntino verde smeraldo, «che questa è una zuppa fredda, proprio come dev’essere.» Guardò il signor Shane, con la fronte aggrottata ma con una luce bonaria nello sguardo. «La settimana scorsa, signor Shane, il bambino ha fatto schizzare la zuppa su tutta la tavola» proseguì. «Ha rovinato il più bel fazzoletto da collo di Reggie.»
«Magari» obiettò Reggie, portandosi alla bocca una cucchiaiata di zuppa di cetrioli, «si fosse limitato al fazzoletto!»
Reggie Panicker era la disperazione della sua famiglia e, come molti figli che tradiscono persino le aspirazioni più modeste dei loro genitori, godeva di pessima reputazione in tutto il circondario. Giocava d’azzardo, mentiva, faceva la spia ed era sempre scontento. Parkins – a riprova, ora se ne rendeva conto, della propria stupidità – prima di capire i trucchi che Reggie usava per imbrogliarlo, giocando con lui aveva perso un paio di gemelli d’oro, una scatola di pennini, dodici scellini e il suo bel portafortuna: una biondona su una fiche da cinque franchi del Casino Royal del Principato di Monaco.
«E quanti anni avrebbe il nostro giovane signor Steinman?» domandò il signor Shane, puntando il lampeggiante eliografo del suo sorriso sullo sguardo assente del piccolo ebreo. «Nove? Sì? Hai nove anni, piccolo?»
Come accadeva spesso, tuttavia, le vedette della mente di Linus Steinman erano state lasciate incustodite. Il sorriso rimase senza risposta. Il bambino parve, in realtà, non aver sentito la domanda, anche se Parkins aveva ben chiaro da molto tempo che l...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Capitolo 1
  4. Capitolo 2
  5. Capitolo 3
  6. Capitolo 4
  7. Capitolo 5
  8. Capitolo 6
  9. Capitolo 7
  10. Capitolo 8
  11. Capitolo 9
  12. Capitolo 10
  13. Capitolo 11
  14. Indice