Un sacchetto di biglie
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Un sacchetto di biglie

Joseph Joffo

  1. 288 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Un sacchetto di biglie

Joseph Joffo

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Informazioni sul libro

Joseph è un bambino, ha quasi dieci anni, è ebreo, e vive nella Parigi del 1941 con la sua numerosa famiglia. Lui e il fratello Maurice sono i più piccoli, vanno ancora a scuola e amano giocare indisturbati a biglie per strada. Ma insospettabilmente la loro vita inizia a complicarsi: prima le SS che diventano sempre più aggressive e la mamma che cuce sulle loro giacche una stella gialla; poi gli insegnanti che in classe iniziano a ignorarli e i compagni che li insultano fino ad arrivare alle mani. Per la famiglia Joffo c'è solo una cosa da fare: fuggire verso la Francia libera di Pétain uno dopo l'altro, prima i fratelli grandi, poi i piccoli, infine i genitori. Inizia così per Joseph e Maurice una grande avventura verso la salvezza, un viaggio pieno di speranza ma anche di pericoli, paure, solitudine e crudeltà. Un libro in cui un mondo pieno d'odio viene descritto senza traccia d'odio, ma con uno stupore tutto infantile. Il bestseller che ha spiegato al mondo l'orrore dell'Olocausto attraverso uno sguardo innocente.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2018
ISBN
9788858692639

VI

Celeste, bianca e rosa. Manca poco che la città abbia i colori della bandiera nazionale. Azzurro il cielo che la ricopre, bianche le colline che la circondano e rosa i tetti che si distendono, si accavallano e terminano all’imbocco delle scale della stazione di Saint-Charles.
E sopra il tutto la macchia d’oro minuscola della Madonna della Guardia che domina.
Marsiglia.
Non mi ricordo niente del viaggio se non che non ebbe niente di paragonabile a quello da Parigi a Dax.
Avevamo dormito come ghiri e mangiato in piena notte una fetta di vitello dentro a un panino, offerta da una viaggiatrice. Per mandare giù il tutto, avevamo poi avuto il diritto a delle uova sode e dei biscotti secchi. Ricordo di essere restato per dieci minuti buoni con le labbra attaccate al rubinetto dei gabinetti da cui colava un filo scurastro e tiepido che non riusciva a calmare la mia sete. C’erano stati dei cambiamenti, delle lunghe attese sui marciapiedi di stazioni sconosciute dove degli impiegati scrivevano con il gesso su grandi lavagne le ore di ritardo dei treni. Fu un viaggio lento ma lo ricordo come perso in una specie di gradevole letargo: avevamo denaro, tempo, nessuno pensava a domandarci qualcosa: due bambini in mezzo alla baraonda degli adulti, avevo l’impressione di essere invisibile, di poter andare dappertutto: la guerra aveva fatto di noi degli elfi di cui nessuno si occupava e che potevano andare e venire a loro piacere.
Ricordo che, sdraiato su una panchina sotto una di quelle vetrate che sono sparite dai marciapiedi delle grandi stazioni, avevo visto passare dei poliziotti. Ce n’erano dappertutto. Ascoltando le conversazioni, avevamo saputo che anche loro avevano l’ordine di arrestare gli ebrei e di spedirli nei campi.
E in quel mattino d’inverno, con le nubi spazzate via dalla grande scopa del mistral, ci ritrovavamo in una grande città, ma quanto differente!
In cima alla grande scalinata abbagliante, già storditi dal vento e dal sole, assordati dalla voce degli altoparlanti che strascicava sulle vocali che noi avevamo invece l’abitudine di mangiarci, la città si stendeva ai nostri piedi: brulicava sotto i platani e i campanelli dei tram filtravano tra il fogliame. Siamo scesi per entrare nel grande circo che era Marsiglia dall’entrata principale: il Boulevard d’Athènes.
Ho saputo poi che il grande porto era un punto fermo del gangsterismo, della droga, del vizio, una Chicago europea.
Carlone ci regnava da padrone, lo hanno raccontato dei libri, dei film, degli articoli di giornale. Sarà vero, senza dubbio, ma non mi è mai piaciuto sentirlo dire. Marsiglia, per Maurice e per me che ci tenevamo per mano per non perderci, fu, quel mattino, quel giorno, una grande festa ridente, ventosa, la mia più bella passeggiata.
Riprendevamo il treno solo a sera, perché quello delle dodici e diciotto era stato soppresso e quindi avevamo tempo.
Il vento ci prendeva di sbieco e avanzavamo come gamberi, ridendo. La città era tutta salite e discese, colava dalle colline come un formaggio.
A un grande incrocio ci siamo fermati e poi abbiamo sceso un vialone pieno di gente, di negozi, di cinematografi.
Non eravamo ammirati, non sarebbero stati due parigini padroni del XVIII distretto a estasiarsi per qualche facciata di cinema, ma in tutto questo c’era della gioia, un’aria viva e rapida che ci tagliava il respiro.
A un angolo c’era un grande cinema blu con degli oblò come una vecchia nave. Ci siamo avvicinati per guardare le foto dei manifesti: erano le Avventure del Barone di Münchhausen, un film tedesco con Hans Albert, il grande divo del Terzo Reich. In una delle foto lo si vedeva viaggiare per aria sopra una palla di cannone. In un’altra si batteva alla sciabola contro un’orda di spadaccini. Mi è venuta l’acquolina in bocca.
Ho dato una gomitata a Maurice.
«Guarda, non è mica tanto caro...»
Lui ha guardato la cassa e il cartello che c’era sopra e mi ha risposto: «Apre solo alle dieci...».
Voleva dire che era d’accordo. Ballavo di impazienza sul marciapiede.
«Facciamo un giro e poi ritorniamo.»
Abbiamo continuato lungo il viale, c’erano immense terrazze coperte di caffè dove uomini in cappello di feltro grigio leggevano il giornale fumando sigarette come se non ci fossero state restrizioni, e poi bruscamente la strada si è aperta, c’è stato un grande colpo di vento da mozzare il fiato e ci siamo fermati di botto. Maurice ha reagito per primo.
«Cribbio, il mare.»
Non l’avevamo mai visto e non ci era venuto in mente che l’avremmo incontrato così, in modo tanto improvviso, era venuto a noi senza avvertirci, svelandosi d’un tratto ai nostri occhi, senza preparazione.
Dormiva tra le barche cullate dal grande bacino del Porto Vecchio e lo si vedeva tra Saint-Jean e Saint-Nicolas che si stendeva a perdita d’occhio, crivellato di isole bianche minuscole e soleggiate.
Davanti a noi l’imbarcadero, flottiglie di imbarcazioni e il ferry-boat che stava per partire per uno dei primi viaggi della giornata.
Ci siamo avvicinati il più possibile, fino all’orlo della banchina, sotto di noi l’acqua era verde eppure così azzurra in lontananza, ed era impossibile distinguere il punto preciso in cui il blu si trasformava in verde.
«E allora, piccoli, ci offriamo un castello di If? Ci si imbarca e si parte.»
Abbiamo alzato la testa.
Pareva un finto marinaio, infagottato in un giaccone, in testa un berretto gallonato e le gambe magre che galleggiavano nei pantaloni bianchi troppo grandi per lui.
I turisti non abbondavano a quell’epoca, ci mostrava una barca gialla che dondolava dolcemente, con panchette rosse e lo scafo che avrebbe avuto bisogno di una buona mano di vernice.
Ce n’erano di cose da fare a Marsiglia! Il cinema, le barche, viaggi che ti venivano proposti così, di punto in bianco. Mi avrebbe tentato molto, personalmente, il castello di If, un castello nel mare, doveva essere meraviglioso!
Lentamente, con rimpianto, Maurice ha fatto un segno di diniego.
«Perché non volete? È metà prezzo per i bambini! Non mi verrete a dire che non avete una somma così da poco. Su, forza salite.»
«No, si dondola troppo, ci sentiremmo male.»
L’uomo si è messo a ridere.
«Già, credo che abbiate ragione.»
Aveva gli occhi chiari e buoni. Ci ha guardati con più attenzione.
«A sentirvi parlare» ha detto, «si capisce che non siete di qui.»
«No, veniamo da Parigi.»
Per l’emozione, ha tirato fuori di tasca le mani.
«Parigi! Ma la conosco bene, ho mio fratello che si è sistemato lì e fa l’idraulico alla porta d’Italie.»
Abbiamo chiacchierato un po’, voleva sapere cosa succedeva lassù, se non era troppo dura con i tedeschi, qui la cosa più difficile era il mangiare, non c’era più niente sui mercati della rue Longue, dietro ai Riformati, alla Plaine, non si trovava più niente altro che zucchine, la gente faceva la coda per l’insalata, i topinambur erano presi d’assalto.
«E guardate i miei pantaloni.»
Ci ha mostrato la cintura che gli andava larga.
«In un anno ho già perso dodici chili! Su, se vi interessa vi mostro il motore della barca.»
Siamo saliti, felici, il dondolio molto lento era piacevole. A prua, in una specie di capanna da giardino, c’era il motore. Ci ha spiegato a cosa serviva tutto, dall’elica fino al carburatore, era un appassionato, un chiacchierone terribile, abbiamo faticato a lasciarlo.
Abbiamo costeggiato il porto lungo la banchina di Riveneuve, c’erano barili, rotoli di corda, un odore salato che era quello delle avventure, dalle vie Fortia, dalla piazza aux Huiles mi aspettavo di veder spuntare legioni di pirati e filibustieri, bisognava ammettere che era ben diverso dai canali della rue Mercadet dove galleggiavano le nostre barchette confezionate con i fogli di quaderno.
«Prendiamo il battello per attraversare?»
«D’accordo.»
Era un’imbarcazione molto piatta, i viaggiatori si affollavano dietro ai vetri, al riparo dal vento. Noi siamo rimasti fuori, sferzati, con il profumo di sale che ci entrava nella pelle.
Era corto, come viaggio, due o tre minuti non di più, ma si poteva vedere la città sopra di noi: la Canebière come un tratto diritto che tagliava in due i tetti.
Dall’altra parte della banchina era diverso, c’era un groviglio di vicoli minuscoli con la biancheria stesa ad asciugare alle corde tirate da una finestra a quella dirimpetto, eppure il sole non doveva mai penetrare in quel quartiere.
Abbiamo fatto qualche passo, quelle strade erano a scale e l’acqua sporca colava al centro in un canaletto.
Incominciavo a non sentirmi tanto sicuro. Sulla soglia delle porte oscure delle donne parlavano, la maggior parte sedute su seggiole impagliate, ce n’erano anche alle finestre con le braccia incrociate sul davanzale.
Improvvisamente Maurice ha cacciato un grido.
«Il mio berretto!»
Era una donnona enorme che glielo aveva preso, aveva un petto mostruoso e sballonzolante, rideva con tutti i denti mettendo allo scoperto le otturazioni.
Di riflesso mi sono tolto il mio e me lo sono ficcato in tasca. Non ho ancora detto che avevamo dei berretti. Oggi non usa più, certo i bambini sono meno fragili di testa di quanto non fossero una volta.
A ogni modo, il berretto di Maurice aveva percorso un rapido cammino in pochi secondi, aveva lasciato la testa del suo proprietario, la donnona l’aveva gettato dietro di sé a una seconda ragazza mezza nuda nella penombra di un corridoio e, improvvisamente, un richiamo ci ha fatto alzare la testa.
A una finestra del primo piano, una donna ancora più grossa della prima teneva tra le dita tozze il prezioso copricapo. Anche lei rideva.
«Su, carino, vieni a prenderlo.»
Seccatissimo, Maurice guardava il suo berretto basco girare tra le dita della donna.
Mi guarda.
«Non posso lasciarglielo, bisogna che vada.»
Non sono molto vecchio ma conosco la vita. Ci sono ragazze del genere dalle parti di Clignancourt e i grandi, a scuola, ne parlano spesso durante la ricreazione. Lo trattengo.
«Non andarci, Beniquet dice che ti attaccano delle malattie e ti portano via i soldi.»
Quella duplice prospettiva non sembra entusiasmare particolarmente mio fratello.
«Ma non posso mica lasciarglielo!»
Le donne seguitano a ridere. Una se la piglia con me, adesso.
«E il piccolo, guarda come è bello! Ha fatto presto lui a levarsi il berretto, mica è scemo!»
Restiamo in mezzo alla strada e altre finestre si aprono, metteremo sottosopra tutto il quartiere se la cosa va avanti così.
Una signora molto grande ha aperto la porta del caffè li accanto, rivedo ancora la sua capigliatura rossa, una vera fiamma che le scende fino alle reni. Ha gridato verso la detentrice del berretto: «Oh, Maria, non ti vergogni a prendertela con i bambini? Su, ridaglielo».
Maria ha continuato a ridere, un riso affondato nel grasso e, brava figliola, ha lanciato il berretto. «Su, andatevene alla svelta, mocciosi.»
Maurice ha riafferrato al volo il berretto, se l’è calcato fino alle orecchie e siamo corsi via per le strade a rotta di collo. Era in salita quasi quanto a Montmartre, era più sporco ma più colorato, ci siamo persi nel quartiere del Panier e un orologio ha suonato le dieci!
Avevamo dimenticato il cinema: il mare, il battello, le puttane, c’era di che essere in ritardo.
È il mare che ci è servito di punto di riferimento non appena abbiamo potuto scorgerlo, così è stato più facile, ci siamo ritrovati ...

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Joffo, Joseph. (2018) 2018. Un Sacchetto Di Biglie. [Edition unavailable]. BUR. https://www.perlego.com/book/3303289.

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Joffo, J. (2018) Un sacchetto di biglie. [edition unavailable]. BUR. Available at: https://www.perlego.com/book/3303289 (Accessed: 14 June 2024).

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Joffo, Joseph. Un Sacchetto Di Biglie. [edition unavailable]. BUR, 2018. Web. 14 June 2024.