Tempesta
eBook - ePub

Tempesta

  1. 192 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

«Quando sono arrivato sull'isola, dopo tutti questi anni, pensavo che non sarei rimasto più di due o tre giorni. Ho preso una camera in un piccolo albergo del porto, accanto al terminal dei traghetti, sopra i negozi che affittano gli scooter e le biciclette ai turisti. Il tempo di verificare che non ci fosse più niente, che il passato fosse cancellato, che non provavo più nulla, il tempo di un ghigno o di un'alzata di spalle.» Philip Kyo, scrittore, condannato anni prima per aver assistito a un crimine orribile, uno stupro, e non averlo denunciato, e June, una tredicenne incapace di dare un volto al padre che non ha mai conosciuto. Questi i protagonisti di Tempesta, due figure segnate da un dolore profondo e conficcato nel tempo, chiuse nella bolla dell'isola di Udo, nel mar del Giappone. Un incontro fortuito, quasi impensabile, che assumerà la forma di un confronto serrato, dapprima fatto di intuizioni e fantasie, poi fin troppo vero e penetrante. Al centro del secondo quadro di questa composizione c'è invece Rachel, un'adolescente arrivata a Parigi dal Ghana. Anche lei racconta una vita segnata in due da una «rivelazione»: è figlia di uno stupro, figlia di una donna abbandonata, anche lei deve spiegare a se stessa la sofferenza che sente, e il come e il perché delle azioni che compie o si appresta a compiere. Le Clézio, a dieci anni dal Premio Nobel, costruisce un romanzo in novelle di una densità, linguistica e poetica, sorprendente; indaga le ferite dell'infanzia e il modo in cui ridisegnano il percorso delle nostre vite. Con uno stile delicato e chirurgico, ci affida due ritratti femminili intimisti e drammatici, pagine preziose della migliore letteratura francese.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2018
Print ISBN
9788817099561
eBook ISBN
9788858693032
Tempesta
Tempesta
Alle Haenyeo,
alle donne del mare dell’isola di Udo
La notte scende sull’isola.
La notte colma gli anfratti, s’infiltra fra i campi, una marea d’ombra che ricopre tutto a poco a poco. Allo stesso tempo, l’isola si svuota degli uomini. Ogni mattina i turisti arrivano con il traghetto delle otto, riempiono gli spazi vuoti, popolano le spiagge, corrono come acqua sporca lungo le strade e i sentieri. Poi, quando viene la notte, tornano a vuotare le pozze, si allontanano riluttanti, scompaiono. Portati via dalle navi. E viene la notte.
Sono arrivato sull’isola la prima volta trent’anni fa. Il tempo ha cambiato tutto. Riconosco a malapena i luoghi, le colline, le spiagge e la forma del cratere sprofondato a est.
Perché sono tornato? Non ci sono altri luoghi per uno scrittore che cerca la scrittura? Un altro rifugio, lontano dal rumore del mondo, meno chiassoso, meno insolente, un altro posto in cui sedersi al proprio tavolo di lavoro, faccia al muro, e battere a macchina le proprie righe? Ho voluto rivedere quest’isola, questa estremità del mondo, questo luogo senza storia, senza memoria, uno scoglio battuto dall’oceano e strapazzato dai turisti.
Trent’anni, la vita di una vacca. Ero venuto per il vento, il mare, i cavalli semiselvaggi che vagano trascinandosi dietro la cavezza, le vacche in mezzo ai sentieri la notte, i loro tragici muggiti come corni da nebbia, i guaiti dei cani alla catena.
Trent’anni fa non c’erano alberghi sull’isola, solo delle camere a settimana vicino al molo, e ristoranti dentro baracche di legno lungo la spiaggia. Avevamo affittato una casetta di legno sulle alture, senza comfort, umida e fredda, ma era l’ideale. Mary Song aveva dodici anni più di me, bei capelli di un nero quasi blu, occhi color delle foglie d’autunno, cantava il blues a Bangkok in un hotel per turisti facoltosi. Perché ha voluto accompagnarmi su quest’isola selvaggia? Non è stata un’idea mia, è lei che ne ha parlato per prima, mi pare. O forse ha sentito qualcuno menzionare uno scoglio remoto, inaccessibile con la tempesta. «Ho bisogno di silenzio.» O forse fu un’idea mia, sono io che ho pensato al silenzio. Per scrivere, per ricominciare a scrivere dopo gli anni persi. Il silenzio, la lontananza. Il silenzio, nel vento e nel mare. Le notti fredde, gli ammassi di stelle.
Adesso tutto questo non è che un ricordo. La memoria è senza importanza, senza seguito. È il presente l’unico che conta. L’ho imparato a mie spese. Il vento è mio amico. Soffia su queste rocce senza tregua, viene dall’orizzonte a est e sbatte contro la parete fratturata del vulcano, cala sulle colline e passa tra i muretti di blocchi di lava, corre sulla sabbia di corallo e di conchiglie frantumate. La notte, nella mia camera d’albergo (Happy Day, come questo nome sia arrivato fin qui, un nome incompleto su una cassetta di legno naufragata), il vento soffia attraverso le cerniere delle finestre e della porta, percorre la camera vuota dove il letto di ferro arrugginito somiglia anche lui al resto di un relitto. Il mio esilio, la mia solitudine non hanno altra ragione, solo il grigio del cielo e del mare, e gli assillanti richiami delle pescatrici di orecchie marine, le loro grida, i loro fischi, una specie di linguaggio ignoto, arcaico, la lingua degli animali del mare che hanno abitato il mondo molto tempo prima degli uomini... Auah, iia, ahi, ahi!... Le pescatrici erano lì quando Mary mi ha fatto conoscere l’isola. Allora tutto era diverso. Le pescatrici di frutti di mare avevano vent’anni, si immergevano svestite, la vita zavorrata di pietre, indossando maschere recuperate dai cadaveri dei soldati giapponesi. Non avevano guanti, né scarpe. Adesso sono invecchiate, indossano mute da sub di caucciù nero, portano guanti di maglia sintetica, calzature di plastica dai colori vivaci. Al termine della giornata di lavoro, camminano lungo la strada costiera spingendo il pescato dentro carrozzine per neonati. Talvolta hanno degli scooter elettrici, dei tre ruote a benzina. Hanno coltelli d’acciaio inossidabile assicurati alla cintura. Si tolgono le mute in mezzo alle rocce, accanto a un capanno di calcestruzzo costruito apposta per loro, si sciacquano all’aperto con la canna dell’acqua, poi tornano a casa zoppicando, distrutte dai reumatismi. Il vento si è portato via i loro anni, e anche i miei. Il cielo è grigio, color rimorso. Il mare è cattivo, agitato, sbatte contro gli scogli, i picchi di lava, vortica e sciaborda nelle grandi pozze, all’entrata di strette baie. Senza queste donne che pescano ogni giorno il mare sarebbe nemico, inaccessibile. Ascolto ogni mattina le grida delle donne del mare, il loro respiro scorticato quando tirano fuori la testa dall’acqua, ahuiii, iia, immagino il tempo passato, immagino Mary, scomparsa, penso alla sua voce che cantava il blues, alla sua giovinezza, alla mia. La guerra ha cancellato tutto, la guerra ha spezzato tutto. La guerra a quel tempo mi pareva bella, volevo scriverla, viverla e poi scriverla. La guerra era una bella ragazza con un corpo da sogno, lunghi capelli neri, occhi chiari, una voce seducente, e si è tramutata in una vecchia irsuta e cattiva, una megera vendicativa, spietata, disumana. Sono queste le immagini che tornano, che riaffiorano dal profondo. Corpi smembrati, teste mozzate, disseminate su strade sporche, pozze di benzina, pozze di sangue. Un sapore acre nella bocca, un sudore cattivo. In un bugigattolo senza finestre, illuminato da un’unica lampadina nuda, quattro uomini tengono ferma una donna. Due le stanno seduti sulle gambe, uno le ha legato i polsi con una cinghia, il quarto è impegnato in uno stupro senza fine. Non ci sono rumori, come nei sogni. A parte il respiro rauco, quello dello stupratore, e quello rapido, acuto della donna, soffocato dalla paura – può darsi che all’inizio abbia gridato, perché ha il segno di una percossa sul labbro inferiore, che si è aperto, e il sangue le ha disegnato una stella sul mento. Il respiro dello stupratore accelera, una specie di rantolo profondo, affannoso, un rumore grave e discontinuo come di macchina, un rumore che accelera e sembra non doversi fermare mai.
Mary è stato molto tempo dopo, Mary che beveva più del ragionevole, e che il mare si è portata via. «Potrei farlo» ha detto mentre attraversavamo lo stretto che separa l’isola dal continente. È entrata nel mare al calar del sole. La marea aveva lisciato le onde, i cerchi avanzavano lentamente, color del vino. Chi l’ha vista entrare in acqua ha detto che era tranquilla, che sorrideva. Si era infilata la sua tenuta di nuotatrice, una muta senza maniche blu, ed è scivolata tra le rocce nere, ha cominciato a nuotare fino a che le onde, o il riflesso del sole morente, l’hanno nascosta agli occhi degli spettatori.
Non ho saputo niente, non ho visto niente, non ho previsto niente. Semplicemente, nella stanza della nostra capanna, i suoi vestiti erano piegati e ordinati come fosse in procinto di partire per un viaggio. Le bottiglie d’alcol di riso vuote, i pacchetti di sigarette aperti. Una borsa con qualche oggetto familiare, pettine e spazzola per i capelli, pinzetta per depilarsi, specchio, fard, rossetto, fazzoletto, chiavi, un po’ di soldi americani e giapponesi, tutto come se dovesse tornare nel giro di un paio d’ore. L’unico poliziotto dell’isola – un uomo giovane, capelli a spazzola, l’aria di un adolescente – ha fatto l’inventario. Ma mi ha lasciato tutto, come se fossi un parente, un amico. È a me che hanno chiesto di disporre dei resti, se ne avessero trovati, di cremarli, di disperderli nel mare. Ma non c’è mai stato altro se non quegli effetti personali di poco conto. L’affittacamere ha fatto una cernita dei vestiti, si è tenuta le belle scarpe blu, il cappello di paglia, le calze, gli occhiali da sole, la borsetta. Io ho bruciato i documenti nel cortile. Le chiavi, gli oggetti intimi, quelli li ho buttati nel mare dal ponte della nave che mi riportava sul continente. Un guizzo dorato è balenato tra i flutti, ho pensato che un pesce vorace, un pagello, un cefalo li avesse inghiottiti.
Il corpo non è mai stato ritrovato. Mary, dalla pelle morbida, ambrata, dalle gambe muscolose di ballerina, di nuotatrice, dai lunghi capelli neri. «Ma perché?» ha domandato il poliziotto. Non ha detto altro. Come se un giorno potessi avere la risposta. Come se avessi la chiave dell’enigma.
Quando si alza la tempesta, quando il vento soffia incessante dall’orizzonte a est, Mary ritorna. Non sono allucinazioni, né un principio di follia (anche se il medico della prigione, quando ha redatto il suo rapporto, ha intestato il mio dossier con la fatale lettera ψ), al contrario, ho tutti i sensi all’erta, affinati, tesi all’estremo per captare quel che portano il mare e il vento. Niente di definibile, e nondimeno è una sensazione di vita, e non di morte, che mi aureola la pelle; risveglia il ricordo dei nostri giochi amorosi, con Mary, le lunghe carezze dalla testa ai piedi, nell’oscurità della nostra camera, il respiro, il sapore delle labbra, i baci intensi che mi facevano trasalire, fino all’onda lenta dell’amore, i nostri due corpi uniti ventre a ventre, tutto ciò che ormai da tempo mi è negato, che mi sono negato, perché sono in prigione per il resto dei miei giorni.
Nella tempesta sento la sua voce, sento il suo cuore, sento il suo respiro. Il vento cigola attraverso gli interstizi della vetrata, s’infiltra attraverso la fessura mangiata di ruggine, taglia la camera e fa sbattere la porta. Allora sull’isola tutto si ferma. I traghetti non solcano più il canale, gli scooter e le auto interrompono il loro balletto, il giorno somiglia alla notte, scuro, striato di lampi senza tuono. Mary se n’è andata una sera di calma piatta, nel mare liscio come uno specchio. Nella tempesta ritorna, espulsa dagli abissi atomo per atomo. All’inizio non volevo crederci. Ero inorridito, mi stringevo le tempie tra le mani per reprimere quelle immagini. Ricordo un annegato. Non una donna, un bambino di sette anni, scomparso una sera, e Mary e io l’abbiamo cercato insieme agli abitanti per una parte della notte. Costeggiavamo il mare con una torcia elettrica in mano, chiamavamo il bambino, ma non ne conoscevamo il nome, Mary gridava: «Uh-uh, tesoro!». Era sconvolta, le lacrime le rigavano le guance. C’era questo stesso vento, queste onde, quest’odore maledetto degli abissi. All’alba, è arrivata la notizia che avevano rinvenuto il corpo del bambino. Su una spiaggia tra le rocce, ci siamo avvicinati, guidati da un lamento che sembrava la voce del vento, ma era la madre del bambino. Era seduta sulla sabbia nera, con il bambino sulle ginocchia. Il bambino era nudo, era stato spogliato dal mare, tranne che per una maglietta sudicia che gli formava una collana attorcigliata intorno al torace. Il viso era bianchissimo, ma quello che mi è subito saltato agli occhi è che i pesci e i granchi avevano già intaccato il corpo, mangiato la punta del naso, e il pene. Mary non si era voluta avvicinare, tremava di paura e di freddo, e l’ho stretta a me, nella camera siamo rimasti abbracciati nel letto, senza accarezzarci, solo a respirare bocca contro bocca.
Quest’immagine mi perseguita, il corpo di quella donna stesa a croce mentre i soldati se la lavorano, e con il sangue che sotto la bocca tumefatta le si è seccato in una stella nera. E i suoi occhi che mi guardano, mentre io rimango in disparte, accanto alla porta, i suoi occhi che mi vedono attraverso, che vedono la morte. A Mary non ho mai detto niente, eppure è per colpa di questa scena atroce che lei si è immersa nel mare per non tornare più. Il mare lava la morte, il mare corrode, distrugge e non restituisce niente, se non un corpo di bambino già intaccato. All’inizio ho pensato che tornavo su quest’isola a morire, io pure. A ritrovare le tracce di Mary, a entrare nel mare una sera e scomparire.
Durante la tempesta, lei viene nella mia stanza. È un sogno a occhi aperti. Mi sveglia l’odore del suo corpo mescolato all’odore degli abissi. Un profumo acre e potente, acido, violento, cupo, mugghiante. Sento l’odore d’alghe dei suoi capelli. Sento la sua pelle morbidissima, lisciata dall’erosione delle onde, iridata dal sale. Il suo corpo fluttua nel chiarore del crepuscolo, si infila tra le lenzuola, e il mio sesso duro entra in lei, fino al brivido, lei mi stringe nella sua febbre glaciale, il suo corpo scivola contro il mio, le sue labbra si posano sul mio membro, sono completamente dentro di lei, lei è interamente dentro di me, fino all’orgasmo. Mary, morta da trent’anni, mai ritrovata. Mary tornata dalle profondità dell’oceano, che mi parla all’orecchio con la sua voce un po’ rauca, tornata per cantarmi le canzoni dimenticate, le canzoni di stelle che mi cantava al bar dell’hotel Oriental, la prima volta che l’ho incontrata. Non esattamente un bar di soldati, e lei non esattamente una cantante da bar. A vederla non immaginavo chi fosse, nata da un soldato americano e accolta da una famiglia di redneck dell’Arkansas, nata da uno stupro, abbandonata e tornata per trionfare sul suo eterno nemico, per compiere una vendetta, o semplicemente per quell’atavismo che spinge gli umani verso il solco originario, immancabilmente. Ma io non ero un soldato, lei questo lo ha capito, e probabilmente è il motivo per cui mi ha scelto, quest’uomo che indossava fatigues con i capelli rasati, che seguiva i militari nel loro percorso, macchina fotografica in pugno, per assicurare la cronaca di tutte le guerre. Ricordo la prima volta che ci siamo parlati, dopo la sua esibizione di canto, tardi, o presto di mattina, sulla terrazza che domina il Menam Chao Phraya, lei si è chinata per guardare qualcosa a terra, una farfalla notturna nera che moriva sbattendo le ali, e attraverso la scollatura del vestito rosso le ho visto i seni liberi, morbidissimi, invitanti. Non sapeva niente di me né io di lei. Portavo già la ferita di quel crimine, ma credevo che si sarebbe rimarginata. Avevo dimenticato il passato, la denuncia a carico dei quattro soldati che avevano violentato una donna a Hué. Quello che le teneva le braccia torte all’indietro l’aveva colpita alla bocca per farla tacere, e l’altro che la penetrava senza farsi problemi, senza neanche togliersi le braghe, e io che guardavo, senza dire niente, senza muovere un dito o quasi, con un vago accenno di erezione, ma guardare e tacere significa agire.
Avrei dato qualsiasi cosa per essere stato altrove, per non essere stato testimone. Non mi sono difeso davanti al loro tribunale. La ragazza era lì, in prima fila. Ho lanciato un’occhiata furtiva e non l’ho riconosciuta. Sembrava più giovane, quasi una bambina. Era seduta sulla panca, immobile, la faccia illuminata dal neon della sala. La bocca piccola, chiusa, la pelle del viso tirata dallo chignon nero. Qualcuno ha letto la sua testimonianza in inglese, lei non si muoveva. I quattro militari erano seduti su un’altra panca, a qualche metro di distanza, e neanche loro si muovevano. Non guardavano nessuno, solo il muro di fronte, la pedana su cui stava il giudice. Loro in compenso mi sono sembrati più vecchi, già gonfi di grasso, con il colorito terreo dei prigionieri.
Non l’ho mai raccontato a Mary. Quando l’ho incontrata, in quell’hotel Oriental, mi ha domandato cos’avevo fatto dopo aver lasciato l’esercito. Le ho risposto: «Niente... Ho viaggiato, nient’altro». Non mi ha fatto domande, del resto non avrei mai avuto il coraggio di dirle la verità: «Mi hanno condannato alla prigione per essere stato testimone di un crimine, e perché non ho fatto niente per impedirlo».
Volevo vivere con Mary, viaggiare con lei, ascoltarla cantare, condividere il suo corpo e la sua vita. Se le avessi detto tutto questo mi avrebbe cacciato. Insieme a lei ho trascorso un anno, fino a quest’isola. E un giorno lei ha deciso di entrare nel mare. Non ho mai capito. Eravamo nascosti. Nessuno ci conosceva, nessuno può averle raccontato. Può darsi che fosse folle, semplicemente, che il suo gesto non abbia alcuna ragione. Si è lasciata portare via dalle onde. Era una nuotatrice straordinaria. Negli Stati Uniti, a sedici anni, era stata selezionata per i giochi olimpici di Melbourne. Si chiamava Farrell, Mary Song Farrell. Song perché era questo il nome con cui era stata presentata ai suoi genitori adottivi. Probabilmente sua madre si chiamava Song. O forse cantava, non so. Forse sono io che ho inventato tutta questa storia a posteriori.
Per gli altri non invento, non mi interessano. Non sono il tipo che racconta la propria vita nei bar. Non conosco queste persone dell’Arkansas, questi Farrell. Dei contadini. Da loro Mary ha imparato a governare il bestiame, a riparare una moto, a guidare il trattore. E un giorno, a diciott’anni, ha preso il volo per andare a vivere altrove, per cantare. Era la sua vocazione. Si è fatta un’altra vita, non è mai tornata alla fattoria. Quando è scomparsa in mare ho cercato di ritrovare i suoi genitori, ho scritto lettere alla contea per avere l’indirizzo. Non ho ricevuto risposta.
Quando l’ho conosciuta Mary aveva quasi quarant’anni, ma sembrava molto più giovane. Io ne avevo ventotto. Uscivo di prigione.
La tempesta mi presta la sua rabbia. Ho bisogno dei suoi gridi di ossifraga, dei suoi mantici di fucina. È per la tempesta che sono tornato su quest’isola. Allora tutto si barrica, gli umani scompaiono nelle loro case, chiudono le persiane e sprangano le porte, si ritirano nei loro gusci, nelle loro corazze. Sono scomparsi anche loro, i turisti dalla faccia infarinata, con le loro pose, la loro mimica, le loro smancerie. Le ragazze in minigonna sulle biciclette, i ragazzi sui quad, occhiali Polaroid, zaino in spalla, macchina fotografica, sono tornati in città, nei loro condomini, nei loro paesi dove non esiste tempesta.
La gente dell’isola si è rintanata. Gioca a carte, beve birra seduta per terra dietro i vetri appannati dei suoi rifugi. La luce elettrica vacilla, presto sarà il blackout. I congelatori dei negozi trasuderanno un’acqua gialla come piscio, i pesci salati si scioglieranno e perderanno gli occhi, le tavolette di cioccolato congelato si rammolliranno nelle loro confezioni. È per la tempesta che sono tornato. Mi sento di nuovo in guerra, allo sbaraglio, al seguito di truppe allo sbando, all’ascolto degli altoparlanti che sbraitano ordini incomprensibili. Risalgo il corso del tempo, ricostruisco la mia vita. Vorrei tornare sulla soglia della casa di Hué, guardare di nuovo, e il mio sguardo fermerebbe il tempo, seminerebbe lo scompiglio, libererebbe la donna dai suoi carnefici. Ma niente di quel che so si cancellerà. L’isola è una garanzia d’irredenzione. Una prova d’incapacità. L’isola è l’ultimo pontile, l’ultimo scalo prima del nulla. È per questo che ritorno. Non per ritrovare il passato, non per fiutare una pista come un cane. Ma per essere sicuro che non riconoscerò nulla. Perché la tempesta cancelli tutto, definitivamente, perché il mare è l’unica verità.
Mi chiamo June. Mia madre è una donna del mare. Non ho un padre. Mia madre si chiama Julia, ha anche un altro nome, che non è cristiano, ma non vuole che lo dica. Quando sono nata, mio padre l’aveva già mollata. Mia madre mi ha cercato un nome, suo nonno si chiamava Jun, un nome della Cina, perché lui veniva da lì, e lei mi ha chiamata June, perché in americano vuol dire giugno, e io sono stata concepita in quel mese. Sono alta, e ho la pelle scura, la famiglia di mia madre mi ha maledetta perché non avevo un padre. Allora mia madre mi ha portata con sé, e siamo venute a vivere su quest’isola. Avevo quattro anni quando sono arrivata, e del prima non ricordo nulla, nemmeno del viaggio, tranne che mia madre ha preso una nave, e che pioveva, e io portavo uno zaino pesantissimo in cui lei aveva nascosto tutti i gioielli e gli ogg...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Tempesta
  4. Una donna senza identità
  5. Indice