Inverkirkaig, terra di uccelli marini
Che i tempi fossero cambiati rapidamente se n’era accorto eccome, anzi, era rimasto sconvolto nel trovarsi di fronte alla necessità di mutare abitudini adeguandosi a un quadro di riferimento sociale insolito, non certo per scegliere nuove forme dell’inutile, ma semplicemente per sopravvivere. Alcune volte aveva addirittura la sensazione di trovarsi in un mondo in cui non fosse più possibile vivere.
Aveva pensato che il fenomeno fosse limitato alle grandi città e alle metropoli dove da tempo si accumulavano assurdità che gli suscitavano una paura incontrollata, poiché non aveva un nemico preciso da affrontare, ma un nulla che tuttavia metteva in pericolo l’esistenza. Si respirava nell’aria, si vedeva nello sguardo torvo e folle di chi gli passava accanto per strada, gente armata che teneva la pistola pronta a sparare come un bambino impugna un fucile di legno per giocare.
Ritenne che l’unica soluzione fosse andarsene ed entrare in una parentesi, temporanea s’intende, che sperava utile almeno per capire come affrontare la situazione e quali rimedi applicare.
Del resto non poteva contare sui suggerimenti o sull’esempio di qualche persona insigne, o almeno credibile, poiché le autorità non esistevano più, erano ormai ridotte a pure convenzioni, a espressioni di un potere a cui non solo nessuno ubbidiva, ma considerate superflue e persino ridicole.
Meglio prendere atto che l’autorità era semplicemente passata di moda, come un capo di abbigliamento non indossato più da nessuno, così negletto da far sembrare demenziale l’idea di produrlo ancora per poi esporlo nelle vetrine dei negozi. L’autorità non aveva alcun senso, quasi non ci fosse più e non la si dovesse difendere, e nemmeno sostituire.
Se voleva prendere delle decisioni importanti, lo doveva dunque fare da solo, ma in quella situazione non era facile, poiché gli mancavano punti di riferimento sicuri. E infatti, dopo aver stabilito quale strada percorrere, gli veniva subito voglia di cambiare. Insomma, era chiaro che l’autorità aveva un serio problema di sopravvivenza.
Si trattava in fondo di un tema classico per gli antropologi, che avevano studiato le cosiddette popolazioni primitive che vivevano dedicandosi alla raccolta di prodotti della natura. Erano passati poi alle società fondate sulla caccia e sulla pastorizia, per arrivare quindi a quelle basate sull’agricoltura intensiva, dunque stanziali. Giunti all’analisi della società tecnologica del benessere, erano stati costretti a sviluppare il concetto di qualità della vita: a contare non era infatti più la sopravvivenza, ma il vivere bene, sempre meglio e raggiungere la felicità.
A quel punto, tutto d’un tratto si era affacciata la crisi delle città, e ci si era accorti che gli uomini in aggregazione intensa si comportavano come i ratti in gabbia per cui, raggiunto un certo livello demografico, i nuovi nati venivano letteralmente ammazzati. Le città erano non solo sovraffollate – un insieme non strutturato di persone di diversa origine e di differenti colori, con mentalità contrapposte – ma continuavano a crescere, come se si stesse accumulando della spazzatura in maniera incontrollata. Era nato l’uomo da buttare.
Insomma, era decisamente meglio partire e raggiungere un luogo agli antipodi dalle città. Poteva esisterne uno migliore della Scozia per realizzare questo progetto? Per essere maggiormente precisi, la parte più a nord, il Sutherland, che aveva un’espansione territoriale enorme su cui vivevano soltanto tredicimila abitanti, dunque in pratica vuota. Aveva anche il pregio di essere meravigliosa per la sua posizione tra il mare del Nord e l’Atlantico, e di offrire coste disegnate da baie stupende e, all’interno, montagne capaci di regalare quel senso di pace e di naturalità che è l’antitesi appunto delle città, in cui di naturale non c’era ormai più nulla.
Si insediò in una piccola casa sulla riva di una baia straordinaria il cui aspetto cambiava con il ritmo dell’alta e della bassa marea e dove l’uomo semplicemente non esisteva.
Non lontano da lì, viveva una vecchia di ottant’anni, questa era la sua età, e possedeva delle pecore che pascolavano su un terreno ereditato dai suoi antenati che avevano fatto la stessa vita. Certo le pecore non possono impugnare una pistola e spararti, ma continuano in maniera indefessa a brucare l’erba. Nessuno crede che lo facciano per fame, brucano per dovere, un dovere di natura e non di civiltà, per produrre lana, per generare agnelli e alla fine crepare dando carne. La vecchia viveva su queste trasformazioni naturali.
Da dove aveva messo su casa, egli la vedeva, talora curva a colloquio con una delle sue pecore, e, se osservava meglio con il binocolo, spesso davanti alla porta di casa ne notava alcune che la aspettavano per qualche bisogno o magari soltanto per un saluto.
In quella solitudine, egli poteva con distacco pensare alla vita di città, dove chiaramente era radicata la sua storia. Aveva qualche proprietà che sapeva di non poter abbandonare, era infatti altissimo il rischio che qualcuno se ne appropriasse, di certo non andando da un notaio pagandone il prezzo di mercato, ma semplicemente entrandoci. A quel punto non ci sarebbe stato verso di cacciarlo via o di farsi pagare la pigione, se si trattava di un appartamento, o almeno di ottenere la metà del raccolto se invece era un terreno agricolo.
In città c’erano anche i suoi interessi culturali, sapeva dove trovare un libro da leggere, aveva i telefoni per chiamare qualcuno che non solo gli rispondeva ma gli si mostrava persino amico.
Non si deve pensare che si fosse stabilito un clima da giungla dove ammazzare fosse ormai un’abitudine all’ordine del giorno, semplicemente mancavano le regole, non si poteva programmare assolutamente nulla, non esisteva la distinzione tra bene e male e quindi chiunque faceva ciò che gli appariva, in quel momento, utile.
Era possibile incontrare qualcuno che a una domanda rispondeva gentilmente, magari durante la conversazione si scoprivano interessi comuni, e allora si decideva di entrare in un caffè con l’idea di raccontare le proprie idee e di ascoltare quelle altrui, ma alla prima obiezione sgradita quello poteva tirare fuori la pistola e freddarti. Non amava le obiezioni e le riteneva segni di inimicizia, estranee alla dialettica del sapere. E in un amen si finiva dentro una tomba, cosa che a lui sarebbe dispiaciuta, perché voleva vivere.
Se questo era il clima della città perché non rimanere per sempre in Scozia? Lì non correva il pericolo di incontrare uomini e donne, lo abbiamo detto, ma se ne avesse sentito la mancanza, gli sarebbe bastato percorrere cinque-sei chilometri e sarebbe arrivato al villaggio, che contava cinquecentosessanta abitanti. Una concentrazione lontana dalla gabbia sovraffollata che faceva semmai pensare al ratto rimasto solo, che soffre di malinconia poiché vorrebbe raccontare qualcosa di sé e magari fare l’amore con una ratta, di quelle matte che ti fanno impazzire. Anche se il problema nel Sutherland non poteva essere l’amore, nemmeno la passione o le discussioni di tipo intellettuale, ma quello del semplice campare.
Non era giovanissimo, la statistica gli aveva assegnato ancora qualche decennio da vivere, almeno stando all’aspettativa di vita. In una società di quel tipo, dove conta il singolo e quello che vuole fare e che di fatto compie, non si tiene in grande considerazione il Padreterno, anzi lo si manda a quel santo paese, ritenendolo responsabile della situazione invivibile delle città.
In Scozia la sua solitudine non era totale, poiché nella baia c’erano gabbiani di ogni sorta, da quello bianco a quello più grande con il mantello nero, c’erano gli aironi e i cacciatori di ostriche o oystercatcher. Una meraviglia di viventi che non avevano nemmeno un legame di parentela con l’uomo. E l’uomo del resto qui non c’era.
Il mare e la montagna variavano di aspetto, assumevano colori straordinari a seconda dell’ora della giornata, meglio di tante signore che cambiano continuamente mise, illudendosi di rianimare una bellezza sepolta e putrefatta. E poi c’erano fiori e piante spontanei bellissimi, non quelli soffocati, se non addirittura impiccati delle città. Dappertutto poteva vedere tappeti di erica, gli iris gialli, cespugli di fucsia, di nocciole. Un mondo colorato impensabile nelle metropoli.
Proprio perché aveva imparato che le decisioni affrettate finiscono per avere breve durata, aveva stabilito di lasciarle maturare lentamente e l’unica maniera per farlo era di non occuparsene affatto, dedicandosi a cose trascurabili se non banali, come camminare su quelle colline rocciose simili a massicci imponenti.
In un pomeriggio senza vento e senza pioggia, prese un sentiero che passava dietro la casa, situata in una posizione straordinaria, poiché davanti aveva il mare e alle spalle le colline che salivano dando l’illusione di essere in montagna. Era un giorno di fine estate. In Scozia il tempo varia al punto tale che nel giro di poche ore si possono alternare tutte e quattro le stagioni che in un Paese normale si succedono nell’arco di un anno. Probabilmente erano proprio questa variabilità e imprevedibilità a tenere lontane le persone da quei luoghi. Senza contare che in dicembre la notte arrivava a durare anche venti ore: allora potevi persino temere che il sole avesse deciso di non sorgere più, perché illuminare una parte del mondo dove non vive nessuno è uno spreco, anche se il sole per il momento non costava ancora nulla.
Il sentiero era dolce, con curve improvvise e saliscendi continui che permettevano di osservare paesaggi sempre nuovi dove cielo, acqua e roccia si incontravano in una varietà senza limiti. Uno scenario di baie e isolette dall’aspetto incontaminato, da mondo appena sfornato, da genesi non ancora conclusa. Dava la sensazione che anche l’uomo lì fosse nuovo, o almeno lui si percepiva così.
Saliva e poi si fermava a osservare le nuvole in alto, oppure gli specchi d’acqua in basso o, ancora, la vegetazione attorno e quelle pietre dai colori indefinibili, capaci di attraversare tutta la gamma dell’arcobaleno, che in quella terra è peraltro di casa: lo si vede ad arco intero, con un inizio e una fine come le campate di un ponte, ma un ponte così bello che non era stato ancora costruito.
Insomma, inspirando a fondo l’aria pura che sapeva di mare, gli veniva spontaneo dire: questa è vita. Subito notava qualche uccello in volo che sembrava dargli ragione, poiché il cielo di Scozia è abitato soltanto da uccelli e non da aerei, che ormai si mettono in fila sulle città per poter atterrare negli aeroporti.
Quello spettacolo lo induceva a sedersi, ma non per riposare, poiché su quel sentiero il cammino era sempre dolce e la calma d’intorno pastorale. Nessuno lo sorpassava con un passo così veloce che lo faceva sentire un paralitico, come accadeva sulle Dolomiti, dove si poteva incappare facilmente in una signorina sculettante, convinta di essere a una sfilata.
Accomodato su un cuscino di edera, chiudeva gli occhi e sentiva la voce del vento che recitava orazioni da salmodia rivolgendosi alla brughiera. Stando attenti, si avvertivano anche le onde del mare che si adagiavano sulla battigia di una piccola baia dell’oceano, bianca, con la sua sabbia incontaminata, sulla quale forse nessuno aveva mai camminato. Su questo sfondo si inserivano ogni tanto il lamento di una pecora e il canto degli uccelli, di un gabbiano, ma anche di uccellini di bosco.
E poi riprendeva a camminare ancora un poco, e di nuovo si fermava perché in fondo non stava andando da nessuna parte e per nessun motivo, escluso il piacere. Ecco un termine scomparso dalle metropoli: il piacere delle piccole cose, delle sensazioni di natura per le quali servono l’udito, la vista, l’olfatto e persino il gusto, poiché in quella terra la natura si poteva addirittura assaggiare.
Una musica di primavera, della primavera di Igor Stravinsky.
Nei mesi che avevano preceduto la sua fuga, era stato chiuso in casa, tanto che quel viaggio era diventato una vera e propria evasione.
Viveva in via XX Settembre, una strada che si trova in quasi ogni città, e persino nei paesini, poiché in quel giorno del 1870 si era raggiunta l’unità del Paese, e quindi l’identità di patria. Esattamente al numero 35 c’era una casa patrizia, con un imponente androne che immetteva sulla grande scala che conduceva ai tre piani dell’edificio, ma anche a un cortile da dove si accedeva al giardino, che ora non coltivava più nessuno. Nel cortile una volta c’erano le stalle per i cavalli e infatti si vedevano ancora gli anelli di ferro, sempre che non li avessero rubati negli ultimi tempi.
Nel punto in cui si salivano le scale, si trovava un’edicola di forma semicircolare con una bellissima statua, poi donata al museo della città, sia perché costava molto restaurarla, sia perché l’avrebbero rubata e poi svenduta a qualche antiquario all’estero. Una casa signorile la cui bellezza però rimandava solo al passato.
Lui era un rampollo di quella famiglia benestante, e godeva dell’edificio come unico proprietario, ma non poteva affrontare le spese di ristrutturazione. Occupava l’appartamento al «piano nobile», così sarebbe stato definito un tempo, e proprio qui aveva sperimentato cosa significano gli arresti domiciliari, non perché fosse stato davvero condannato per comportamenti contro le leggi, cosa peraltro impossibile dal momento che non esistevano: uno Stato allo sfascio emana continuamente leggi, ma manca dell’autorità per farle rispettare e così i cittadini nemmeno si accorgono della loro esistenza. Una sorta di anarchia di fatto che si era imposta anche se il sistema si chiamava, e la cosa era ridicola, democratico.
Abitava in quell’appartamento ma non usciva mai o, per meglio dire, non poteva uscire poiché ogni spazio era occupato da gente che aveva scelto di passare la notte e il giorno nell’androne, nelle vecchie stalle, nel giardino; inoltre c’erano degli appartamenti rimasti sfitti, poiché restaurarli sarebbe costato troppo e alcune famiglie che non avevano una sistemazione li avevano occupati abusivamente.
Ciò non giustificava ancora la reclusione, semmai la si sarebbe dovuta comminare agli occupanti se non fossero stati dei disperati a cui non importava nulla non solo degli ordini di sfratto, ma di nessun altro ordine, poiché era gente venuta da ogni parte del mondo non industrializzato, convinta di poter fare fortuna. Invece non avevano ottenuto nemmeno un visto regolare e quindi non potevano né lavorare né curarsi in caso di malattia. Il risultato ovvio era il riaccendersi di malattie infettive gravi ed epidemiche: una condizione da Paese sottosviluppato, nonostante fosse dotato di un sistema sanitario in grado di trapiantare geni, il Dna, e di sostituire ogni organo del corpo umano.
Ecco spiegata la ragione della sua reclusione: per uscire sarebbe stato costretto a passare attraverso quella ressa, tra gente infetta. Tra occupanti abusivi. Ed era inutile rivolgersi alla giustizia, che non funzionava e non disponeva nemmeno più delle carceri, anch’esse occupate dalla disperazione di clandestini che non sapevano dove andare.
Erano state invase persino le chiese, le stazioni della metropolitana, quelle ferroviarie. E non si trattava di occupazioni pacifiche, poiché gli «inquilini» usavano, se era il caso, la dinamite come si trattasse di mortaretti per la festa di Piedigrotta. E non c’era verso di impedirlo, benché i controlli, in particolare nei «punti sensibili» come negli aeroporti, fossero ormai severi all’assurdo.
Per arrivare in Scozia era necessario prendere un aereo per Londra, ma non si poteva portare nulla con sé, nemmeno dell’acqua. Bisognava aprire la bocca al controllo per escludere la presenza di piccoli contenitori, poiché bastava poco per far saltare non solo un portone di casa ma anche un aereo provocando una strage. Questa era la forza della povera gente, che poteva far esplodere qualunque cosa se le sue richieste non erano accolte.
Per salire su un aereo era obbligatoria la visita di un proctologo, poiché si era scoperto che i terroristi si infilavano nel deretano una dose di liquido alla nitroglicerina e in molti casi lo ingoiavano chiuso in un preservativo, che era distribuito gratuitamente per diminuire il contagio di malattie.
Siccome era impossibile fare radiografie ed esami a tutti, ormai si era a un passo dal dichiarare l’uomo un elemento insicuro per il volo e la sola maniera per viaggiare in aereo era evitare la sua presenza a bordo. Dunque o lo si metteva nella stiva con i bagagli oppure non lo si accettava. Gli aerei potevano viaggiare, ma vuoti e con un limitato numero anche di personale, perché ormai nessuno era esente dal sospetto e gli atti di terrorismo crescevano sempre più.
Prima di partire per la Scozia, non poteva insomma uscire dall’appartamento, al piano nobile di via XX Settembre, perché si sarebbe beccato una malattia verso cui non esisteva alcun tipo di prevenzione, anzi, se ci avesse provato, avrebbe dimostrato un’ipersensibilità tale da crepare senza nemmeno il tempo di rientrare in casa. Se per caso ci fosse riuscito, l’abitazione sarebbe stata comunque occupata da schiere di senzatetto e svuotata di tutte quelle cose che potevano trovare un acquirente, sia pure illegittimo.
La sua fuga all’aeroporto avvenne grazie a un’autoambulanza. Il personale era dentro scafandri e anche lui fu infilato in una di queste protezioni.
Adesso però era finalmente lì e, viva il cielo, lontano dalla condizione disumana delle grandi città, dalla casa di f...